Di Pina Fioretti
Articolo pubblicato originariamente su Carmilla Online
Palestine Museum US, fondato nel 2018 negli Stati Uniti dal palestinese Faisal Saleh, ha inaugurato lo scorso maggio a Venezia la mostra sulla Nakba intitolata From Palestine: Our Past, Our Future nell’ambito della VI edizione di Time Space Existence, a cura dell’European Cultural Centre.
Focus temporale della mostra è il 1948. Quest’anno infatti i palestinesi commemorano il 75esimo anniversario della Nakba, la tragedia conseguente alla creazione dello stato di Israele, che ha determinato l’occupazione della terra palestinese e quasi ottocentomila profughi (l’80% della popolazione), ad oggi privati del diritto al ritorno, così come i loro discendenti.
Con i suoi 150 metri quadri è la più grande esposizione di arte e architettura palestinese sulla Nakba mai realizzata in Occidente. Diciannove tra artisti e architetti palestinesi animano l’esposizione con le loro opere che si presentano in una varietà di forme: da opere artistiche convenzionali su tela, a rendering 3D, cartografia, fotografia, stampa, tatreez (ricamo arabo e palestinese), progetti di architettura digitale e altro ancora.
Con questa esposizione Saleh ha dato un notevole contribuito a contro-informare sulla questione palestinese, ed in particolare a fare luce sul periodo della Nakba, che parte dal dicembre 1947 e si protrae fino al gennaio 1949, più di un anno durante il quale le forze sioniste lanciarono in Palestina una campagna militare precedentemente pianificata per spopolare e distruggere città e villaggi palestinesi. Quando il 15 maggio 1948 fu proclamato lo stato di Israele, duecento villaggi erano già stati spopolati. Alla fine del 1948, i villaggi sfollati erano diventati cinquecento, e molti di essi furono interamente distrutti per impedire il ritorno dei loro abitanti. In 36 villaggi palestinesi le truppe paramilitari ebraiche compirono efferati massacri.
Nell’attuale clima politico internazionale gli intellettuali, gli artisti e gli attivisti palestinesi si ritrovano sempre più messi a tacere. La verità su ciò che accade in Palestina e sulla Nakba ancora in corso viene censurata a volte anche con violenza. E non c’è da stupirsi, considerando che la politica dei governanti israeliani del passato e di quelli del presente come Ben Gvir, Netanyahu o Smotrich intende annettere ad Israele la totalità dei territori occupati, e che da tempo il risultato di questa politica è un regime di apartheid.
Alla luce di questa situazione, l’allestimento della mostra “From Palestine: Our Past, Our Future” appare veramente audace perché in Italia, come in altri paesi occidentali, non esiste alcun sostegno istituzionale alla causa dei palestinesi, e non è certo garantita una corretta informazione sulla questione palestinese. A questa audacia corrisponde il gradimento e la sorpresa dei moltissimi visitatori.
La sala dell’esposizione si divide in due aree: nella prima ci si trova immersi nella ricostruzione degli eventi storici attraverso una grande carta della Palestina del 1948 e ricostruzioni digitali di ambienti precedenti al 1948; nella seconda area si trovano opere dedicate ai profughi, ai palestinesi in diaspora ai quali viene negato il diritto al ritorno. Questa parte della mostra è dedicata ai rifugiati e ai loro discendenti e mostra al mondo quanto è forte il legame tra i palestinesi che vivono un esilio forzato da generazioni e la loro terra.
Il curatore della mostra Faisal Saleh ricorda che è in atto il tentativo di cancellare la Palestina dalla carta geografica e dalla storia: “Riferendosi ai palestinesi come ‘arabi’, Israele insiste sul fatto che ‘non ci sono palestinesi’ e non c’è mai stata una ‘Palestina’. Purtroppo, questa distorsione della storia in larga misura continua ad essere sponsorizzata dallo stato, ispirandosi a una dichiarazione del primo ministro israeliano in carica nel 1969, Golda Meir, che erroneamente sentenziò: – Non esiste nulla che si possa definire palestinese -.
Utilizzando mappe, rendering, fotografie, tele e installazioni artistiche, questo progetto offre informazioni su città e villaggi palestinesi perduti e reinventa un futuro in cui i discendenti della popolazione originaria ritornano all’architettura ridisegnata, a comunità urbane pianificate, restituendo speranza. Artisti e architetti palestinesi mostrano la resilienza e la determinazione del loro popolo dipingendo le speranze di tornare in una Palestina libera dal razzismo e dall’apartheid. La loro esistenza e le loro eredità artistiche servono a sfatare i miti usati per giustificare la creazione di Israele: una terra senza popolo per un popolo senza terra, trasformare i deserti in fiore, e il vecchio morirà e il giovane dimenticherà (Ben-Gurion). Come questi artisti e architetti hanno dimostrato, i giovani non hanno dimenticato e le loro creazioni sono in gran parte le manifestazioni di ricordi e di storie dei loro antenati palestinesi”.
L’obiettivo del Palestine Museum US è proprio quello di rafforzare, garantire e diffondere il patrimonio storico e culturale della Palestina. Gli artisti che arricchiscono le sue sale sono palestinesi di generazioni diverse, provenienti sia dalla Palestina sia da tutto il mondo, a ribadire la continuità di un unico popolo fuori e dentro la Palestina, nonostante la politica di segregazione, divisione e occupazione israeliana.
Tra i giovani architetti presenti alla mostra, merita una menzione speciale il lavoro della giovane Nisreen Zahda, nata a Hebron (El Khalil), Palestina occupata. Ha studiato architettura all’Università di Birzeit e ha conseguito il dottorato in pianificazione urbana presso l’Università di Chiba in Giappone. Nel 2020 ha avviato il progetto VRJ Palestine (Virtual Return Journey to Palestine Before Nakba) per la ricostruzione virtuale dei villaggi palestinesi distrutti. Quattro sono le sue opere esposte a Palazzo Mora: la “Nakba Timeline Map”, una mappa digitale che descrive cronologicamente giorno per giorno la sistematica operazione di spopolamento, pulizia etnica e distruzione di città e villaggi durante la Nakba; tre rendering inclusi nell’opera “A Virtual Return Journey to destroyed villages of Tantura, Hittin and Zir’in”, che presenta la ricostruzione di tre villaggi distrutti. Zahda ha ricostruito virtualmente i tre villaggi, ridando vita a luoghi distrutti e cancellati grazie a un lavoro di ricerca fotografica e di archivio. Nelle sue ricostruzioni riprende vita il villaggio dei pescatori di Zir’in e quello storico di Hittin, dove nel 1187 Saladino sconfisse i crociati. Infine l’artista rende omaggio alle vittime del massacro avvenuto nel villaggio di Tantura, un massacro che lo stato israeliano continua a negare nonostante le prove inconfutabili descritte di recente nel documentario “Tantura” del regista israeliano Alon Schwartz
In questa prima area della mostra è esposta una carta a pavimento della Palestina del 1948, di circa 7 per 2,5 mt, che richiama immediatamente l’attenzione del visitatore. Si tratta di un’opera cartografica, la mappa di Salman Abu Sitta. Nato in Palestina nel 1937, Abu Sitta ha conseguito il dottorato in Ingegneria Civile all’Università di Londra. Ha dedicato la sua vita e i suoi studi a ridisegnare la Palestina storica e la sua geografia. Le sue ricerche, condotte anche negli archivi coloniali, hanno confermato il tentativo di cancellare la Palestina prima ad opera dell’impero britannico e successivamente attraverso il progetto sionista. I lavori e le pubblicazioni di Abu Sitta dimostrano la fattibilità del diritto al ritorno dei profughi nei luoghi da cui furono cacciati. Ha fondato a Londra la Palestine Land Society, un’istituzione indipendente che si occupa di raccogliere e documentare informazioni sulla terra e il popolo della Palestina e collabora attivamente con le università palestinesi. Proprio ai neo architetti palestinesi è rivolto un concorso annuale che premia i migliori progetti di ricostruzione virtuale dei villaggi distrutti da Israele nel 1948.
Il curatore Faisal Saleh ha scelto quattro progetti premiati negli ultimi due anni e li ha inclusi nella mostra. Si tratta dei villaggi di Qula, Saffuriyya, Suba e Suhmata che sono stati sviluppati da studenti di varie università, comprese quella di Birzeit e la Gaza University. Nei loro progetti i villaggi ci appaiono come potrebbero essere oggi, con elementi di architettura passata e moderne strutture.
Nella seconda area, l’esposizione si concentra sui rifugiati e i loro discendenti. Molti degli artisti e architetti sono discendenti di profughi palestinesi. In questa zona troviamo la gigantesca opera dell’artista palestinese John Halakah Stripped of their Identity and Driven from Their Land, una stampa su tela di 6,5 x 2 mt: sagome di adulti e bambini, dai volti indefiniti, che si muovono verso l’ignoto. Nel costruire le sagome, Halakah ha utilizzato due timbri che riportano le scritte “forgotten” e “survivors”.
Come sopravvissuti dimenticati sono i profughi che vivono a Gaza e ai quali l’artista palestinese Steve Sabella, che vive in Germania, ha dedicato la sua opera La Grande Marcia del Ritorno assemblando centinaia di foto scattate durante la marcia del 2018. Di fronte a queste opere, campeggia l’acrilico su tela di Samia Halaby, Venetian Red, dai colori accesi che richiamano la resistenza e la resilienza dell’animo umano davanti alle tragedie. Nella disposizione di queste opere c’è il passato e il presente del popolo palestinese, determinato a lottare per i propri diritti.
La mostra ospita anche raccolte fotografiche di vari autori che hanno in comune lo sguardo sull’infanzia dei profughi. Per la prima volta viene esposta una collezione di Jorgen Grinde, fotografo delle Nazioni Unite che fu uno dei primi a documentare la nascita dei campi dell’UNWRA. Nelle sue foto si coglie lo smarrimento dei bambini che si ritrovarono lontano dalle loro case subito dopo il 1948. Le foto di Margaret Olin ci portano nel campo di Dheisheh, vicino Betlemme, tra i murales realizzati per commemorare i martiri palestinesi.
Jacqueline Béjani, è un’artista eclettica che realizza opere in video, in ceramica, dipinge su tela e su altri materiali. Espone un’opera che ha dedicato a sua madre, composta da cinque pannelli con inserti ricamati dalle donne dei palestinesi dei campi profughi e dipinti con i colori che ricordano l’ambiente in cui è cresciuta sua madre, vicino ad Haifa.
Lungi dal voler proporre un tour virtuale della mostra, mi sono soffermata su alcune delle opere che ben esprimono l’obiettivo del curatore, degli architetti e degli artisti palestinesi. “From Palestine: Our Past, Our Future” sfida la narrazione israeliana, decolonalizza lo sguardo attraverso l’arte e l’architettura palestinese, mostra la verità sulla Nakba e lascia immaginare la Palestina del futuro.
Nel marzo 2011 la Knesset ha approvato la “Nakba Law” che criminalizza di fatto il diritto alla memoria del popolo palestinese. Se si considera che per i governanti israeliani parlare della distruzione, delle uccisioni, delle deportazioni e dei massacri perpetrati dalle forze paramilitari e militari del nascente stato di Israele equivale a fare propaganda contro Israele, si potrà agevolmente comprendere quanto coraggiosa è questa mostra, e quanto merita il successo che sta avendo testimoniato dai moltissimi visitatori di tutto il mondo.
La mostra è visitabile tutti i giorni (tranne il martedì) fino al 26 novembre 2023 presso Palazzo Mora a Venezia.
L’ingresso è gratuito.
Faccio mia la Preghiera del patriarca di Gerusalemme, sperando che le sue parole vengano ascoltate e accolte.
Senza parole. Siamo tutti responsabili....se c'è ne laviamo le mani....complici!
Signore Padre d'amore, ti prego ascolta il grido di dolore di tutte queste anime innocenti che stamno pagando con la…
Una preghiera
Mi è insopportabile la morte di un solo bambino, di una sola donna, di un solo uomo, tanto più se…