Articolo pubblicato originariamente sulla newsletter di Internazionale sul Medio Oriente curata da Francesca Gnetti
Jenin si trova nel nord della Cisgiordania occupata. Appena fuori dalla città c’è un campo profughi che fu allestito all’inizio degli anni cinquanta del novecento per i palestinesi che avevano dovuto lasciare le loro case e le loro terre in seguito alla creazione dello stato di Israele nel 1948. Secondo l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi, oggi ci vivono 14mila persone, in un’aerea di meno di un chilometro quadrato. Nella notte tra il 2 e il 3 luglio l’esercito israeliano ha lanciato contro il campo profughi la più massiccia operazione militare degli ultimi vent’anni. Attacchi aerei con i droni e l’incursione di centinaia di soldati accompagnati da bulldozer corazzati e cecchini sui tetti, a cui hanno risposto i palestinesi con colpi di arma da fuoco e lancio di pietre, hanno provocato la morte di dodici palestinesi e il ferimento di altri cento, tra cui almeno venti in modo grave. Le vittime sono tutti ragazzi tra i 16 e i 23 anni. È morto anche un soldato israeliano. I combattimenti hanno costretto a fuggire almeno tremila persone dal campo. Il 4 luglio un attacco con un’automobile a Tel Aviv ha provocato sette feriti israeliani. Nella notte tra il 4 e il 5 luglio cinque razzi lanciati su Israele dalla Striscia di Gaza sono stati intercettati. In risposta Israele ha bombardato dei depositi di armi di Hamas nel territorio palestinese.
Jenin è tradizionalmente un luogo simbolo della resistenza palestinese. Nell’aprile 2002, durante la seconda intifada, nel campo si svolse quella che è ricordata come la battaglia di Jenin, che durò una settimana e provocò la morte di cinquanta palestinesi e ventitré soldati israeliani. Nell’ultimo anno in città si sono radicati diversi gruppi armati, tra cui il più famoso sono le Brigate di Jenin, che sfuggono al controllo delle fazioni tradizionali e hanno come obiettivo la lotta contro l’occupazione israeliana, colpendo con azioni locali e spontanee i soldati e i coloni israeliani. Per questo Jenin, insieme a Nablus, un’altra città del nord della Cisgiordania dove è attivo il gruppo Fossa dei leoni, è diventata il bersaglio delle operazioni sempre più frequenti e regolari dell’esercito israeliano. Solo il 19 giugno altri sei palestinesi erano stati uccisi in un raid e due giorni dopo in un altro attacco vicino Jenin l’esercito israeliano aveva usato i droni, per la prima volta dal 2006.
Secondo un’analisi di Haaretz che pubblichiamo sul numero di Internazionale in edicola dal 7 luglio, l’operazione contro Jenin è “uno spettacolo per i coloni”, che da mesi fanno pressioni sull’esercito e sul governo per incrementare la repressione in Cisgiordania. Il giornalista Anshel Pfeffer spiega che l’incursione nel campo profughi è un compromesso tra l’esercito, che avrebbe preferito continuare con la strategia di raid relativamente piccoli e rapidi, e la richiesta di un’azione più decisa da parte degli elementi più estremisti della coalizione al governo, alcuni dei quali rappresentano gli interessi dei coloni. In un altro articolo su Haaretz, Amira Hass denuncia che la violenza dei coloni è il risultato di una politica di lunga data, che gli ha garantito l’impunità e ha aumentato il livello dello scontro. Secondo l’ufficio degli affari umanitari dell’Onu, dall’inizio del 2023 fino al 26 giugno ci sono stati in media 95 attacchi ogni mese compiuti dai coloni contro i palestinesi, a cui hanno preso parte centinaia di persone.
In un’interessante analisi pubblicata sul sito indipendente israeliano +972 Magazine e tradotto dalla redazione di Bocche Scucite, Amjad Iraqi spiega che Israele sta replicando a Jenin una strategia già usata nella Striscia di Gaza, quella del “bantustan definitivo”, che ha lo scopo di “controllare e indebolire la popolazione nativa in uno spazio assediato, usando armi e tecnologie moderne, con governanti locali a gestire le loro necessità di base, a un costo minimo per la società coloniale che li circonda”. Città come Jenin e Nablus, a lungo centri della vita sociale e della resistenza politica palestinese, proprio come la Striscia di Gaza, già da tempo subiscono varie forme di chiusura e di invasione. E ora “stanno avendo un assaggio di quello che le aspetta”, prosegue Iraqi: bombardamenti su zone densamente popolate che si sono dimostrate troppo difficili da invadere via terra e punizioni collettive messe in atto a cadenza regolare. Perché se l’espulsione dei palestinesi da questi luoghi non è possibile, la “Gazificazione” sarà il loro futuro.
Faccio mia la Preghiera del patriarca di Gerusalemme, sperando che le sue parole vengano ascoltate e accolte.
Senza parole. Siamo tutti responsabili....se c'è ne laviamo le mani....complici!
Signore Padre d'amore, ti prego ascolta il grido di dolore di tutte queste anime innocenti che stamno pagando con la…
Una preghiera
Mi è insopportabile la morte di un solo bambino, di una sola donna, di un solo uomo, tanto più se…