Storie di Palestina: l’umanità di fronte a un mondo ingiusto

Articolo pubblicato originariamente su Middle East Eye e tradotto dall’inglese dalla redazione di Bocche Scucite

Di Hisham Bustani

Da dove si comincia quando si parla di Palestina? Un’ingiustizia vecchia 74 anni, se iniziamo a contare dalla Nakba del 1948, e di oltre un secolo se partiamo dall’accordo Sykes-Picot del 1916 e dalla colonizzazione franco-britannica della regione. Quest’ultimo è un calcolo più sensato, poiché questi eventi storici hanno posto le basi per le tragedie successive, permettendo e rafforzando la presenza coloniale.

La tragedia dei palestinesi lascia senza parole, perché ci troviamo di fronte a un’evidente violazione dell’umanità, se si applicano i principi di giustizia e coscienza. Ma il nostro è un mondo di potere, di due pesi e due misure e di narrazioni fraudolente, il tutto aggravato dalla grottesca rivendicazione di una natura “civilizzata” da parte degli invasori, insieme alle infinite prediche sulla libertà, la democrazia e i diritti umani, che trasformano questi concetti in una propaganda priva di significato.

Il mondo non è composto solo da Europa e Stati Uniti. Mentre entrambe le regioni hanno goduto di una relativa tranquillità, pace e prosperità dopo la Seconda guerra mondiale, mantenendo il loro equilibrio grazie a leggi “umanitarie” e “internazionali” e a uno status economico globale privilegiato, le stesse circostanze non sono state estese al resto del mondo, che è stato lasciato a languire sotto varie forme di schiavitù, oppressione, intervento straniero e guerra.

Il significato e l’implicazione di termini come “superpotenze” richiede l’esistenza di “entità minori” nella sfera di controllo delle prime, non solo in un quadro politico-economico-militare, ma anche nel contesto dei media, della cultura, del linguaggio e della narrativa. Lo spettacolo del potere non si limita quindi alla violenza, ma può essere espresso sotto forma di narrazioni immaginarie.

La Palestina fa parte di questo “altro mondo”. È una tragedia evidente ma nascosta, rumorosa ma taciuta – una parodia spesso descritta come una “questione complicata”. Questa frase riduttiva dà via libera a coloro che si rifiutano di prendere posizione su una questione oltraggiosamente semplice: quella di un movimento nazionalista che si è sviluppato in Europa, si è fondato su un mito religioso e, nel contesto della colonizzazione britannica e francese del mondo arabo dopo la Prima guerra mondiale, ha iniziato a ripulire etnicamente un’intera regione, distruggendo la popolazione, la storia e le memorie locali, e stabilendo attraverso il terrorismo e la guerra una colonia in cima alle macerie.

Allontanati da casa
I palestinesi non possono essere incolpati del razzismo e dell’antisemitismo europei. Le comunità ebraiche arabe e sefardite sono rimaste solide fino alla fondazione di Israele, prosperando in periodi in cui alcuni dei loro membri si sono messi in luce in campi come la letteratura, la politica, la filosofia e il commercio.

Mentre gli ebrei in Europa hanno affrontato la persecuzione per secoli, le comunità ebraiche arabe hanno goduto di una relativa stabilità fino a quando il movimento sionista non li ha allontanati dalle loro comunità di origine in Yemen, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Libano, Siria e Iraq, gettandoli in una profonda perplessità. Il poeta ebreo marocchino Sami Shalom Chetrit, che ha viaggiato dentro e fuori Israele, coglie questo aspetto con grande sensibilità in una lettera al poeta palestinese Mahmoud Darwish intitolata “Un murale senza muro”:

Non ho una patria, né nella scrittura né sulla terra.
Ma non compatitemi – non è questo il punto. Quando si tratta di questo, sono io l’assassino.
E mille petizioni contro l’occupazione non mi aiuteranno, io sono il soldato
che uccide tre piccioni più e più volte con un solo colpo di pistola
Ed è una questione di abitudine –
Sono stato io a sparare al cavallo abbandonato, da solo accanto alla casa che è diventata la mia nuova dimora
E io che ho sigillato bene le sue finestre contro il lamento dei luttuosi che si lamentavano.
E io che ho sigillato il pozzo con cemento armato
Perché non vedessi né sentissi la vita da dentro l’acqua

Sono un poeta carceriere, non credete alle mie parole,
sono il carceriere di me stesso e delle mie parole
Le cui ali sono tagliate, e del mio sonno che vaga,
senza un indirizzo preciso dove riposare

Israele, questa “città sulla collina” a est del Mediterraneo, non è sorta dal vuoto. È solo la continuazione di una sanguinosa stirpe coloniale europea che ha portato scompiglio nel mondo. I suoi resti disastrosi riecheggiano ancora oggi, manifestandosi nella crisi dei rifugiati nel Mediterraneo, nei corpi inghiottiti dal mare e che muoiono congelati dietro recinzioni che accolgono esclusivamente “biondi dagli occhi azzurri”, coloro che “ci assomigliano”.

Un tempo questo razzismo era una bestia dormiente, addormentata all’estrema destra e testimoniata da “singoli” atti di violenza letale della polizia contro i neri; ma oggi, nel “civilizzato” XXI secolo, si esprime nel mainstream.

Atrocità coloniali
La Palestina di oggi è l’America di ieri, dove la Terra Promessa era arida e selvaggia, in attesa di essere abitata, con gli indigeni ridotti a elementi della natura, mostri, ombre o fantasmi. Tutte le atrocità commesse dai colonizzatori sionisti bianchi sono scritte nel passato coloniale dell’Europa e sono comprese, accettate e normalizzate come tali.

Come è tipico della storia coloniale europea, le sue conseguenze sono state ignorate – e persino celebrate. Ciò è stato particolarmente evidente nella celebrazione ufficiale da parte della Gran Bretagna del centenario della Dichiarazione Balfour, una dichiarazione che ha portato scompiglio, omicidi e sfollamenti tra i palestinesi.

Nel suo discorso alla cena per il centenario, l’allora primo ministro Theresa May ha detto che la Gran Bretagna era “orgogliosa del nostro ruolo pionieristico nella creazione dello Stato di Israele”, senza il minimo riferimento a come l’illegittimo diritto coloniale della Gran Bretagna a diritti che non le spettano abbia influenzato enormemente il destino di molte persone indifese, distruggendo le loro vite. I palestinesi, come i loro parenti indigeni nelle colonie europee, non esistono agli occhi dei colonizzatori, che non danno alcun valore o considerazione alle loro lotte o alla loro stessa esistenza.

Il “fardello dell’uomo bianco” è quindi vero e reale. È il fardello di una storia piena di omicidi e schiavitù, testimoniata dalle capitali economicamente e culturalmente prospere del Nord globale che traboccano di sangue e lacrime del Sud globale, la cui gente è stata lasciata a marcire – sottoprodotti trascurabili della battaglia per la civiltà su terre saccheggiate, bruciate, incatenate e incrostate di basi militari, scorie nucleari e sviluppo impedito.

Il discorso sulla Palestina è un discorso sulla storia del colonialismo bianco europeo e sulle sue conseguenze sulle ex-colonie, nonché sulla storia delle invisibili comunità indigene rapite e calpestate per costruire la “civiltà” occidentale. Israele è nato da quella storia e ha abbracciato il proprio progetto coloniale indipendente dopo il 1948, che rimane attivo ed efficace nel XXI secolo grazie – e qui sta la tragedia e la speranza – alla continua resistenza indigena di generazioni che si rifiutano di lasciare la propria terra.

Se non fosse stato per questa resistenza, il colonialismo in Palestina sarebbe diventato una macchia dimenticata sul volto di un’umanità che ha vergognosamente fatto i conti con le precedenti atrocità coloniali.

Classismo e razzismo
I palestinesi di oggi sono la somma di una lunga storia alla quale hanno partecipato dagli albori della “civiltà” in Mesopotamia, nel Levante e nell’antico Egitto, fino ai giorni nostri. Sono, come tutti noi, il risultato di una storia umana estesa e collettiva. La variegata esistenza palestinese di musulmani, cristiani, drusi, bahai, ebrei e curdi, tra gli altri, mette a nudo il vero scandalo della natura escludente di Israele, derivata dall’eurocentrismo bianco.

Classismo e razzismo sono caratteristiche fondamentali dell’Israele di oggi; in cima alla piramide razziale siedono gli ebrei bianchi europei Ashkenazi. Seguono gli ebrei arabi e quelli di origine “orientale” e, nei ranghi più bassi, gli ebrei neri africani.

Le popolazioni indigene sono invisibili da quando i colonizzatori hanno dichiarato che stavano conquistando una “terra senza popolo, per un popolo senza terra”. È per questo che il “popolo senza terra” ha sradicato attivamente questa esistenza diversificata e ricca, a favore della propria narrazione esclusivista.

Questo e altri innumerevoli esempi possono essere aggiunti a un enorme mucchio di prove che smentiscono le affermazioni coloniali sulla fondazione della “civiltà”.

La creatività letteraria rivela una saldezza, una sopravvivenza e una persistenza profonde e radicate – un accumulo storico di lingua, cultura, società e letteratura che nega confini, frontiere, divisioni e steccati religiosi, culturali e storici. I residenti della Palestina, prima che i colonizzatori arrivassero e forgiassero i confini degli “Stati nazionali” – abbandonandoli poi, deboli e dipendenti – fanno parte del tessuto del “Medio Oriente”, chiamato così dagli europei con una visione centralizzata, poiché si trova a est del loro continente centrale, ma più vicino a loro dell'”Estremo Oriente”.

La letteratura è la prova di una vita in corso; una mano del passato che scrive nel presente, per il futuro. L’attività degli oppressi non si limita alla vita politica, ma si manifesta più profondamente attraverso l’innovazione e la scrittura creativa. Questi fantasmi e selvaggi percepiti esistono nell’azione e nella pratica, all’interno di eventi storici che li collegano alla continuità umana, base ed essenza di tutta l’arte.

Una mano tocca un’altra, e un’altra ancora, finché tutte le mani si fondono in una sola; perché l’arte, come la giustizia, è un vero valore universale. È una strada aperta a tutti, che ha chiamato molti al di fuori della Palestina: attivisti come Rachel Corrie, Tom Hurndall, Roger Waters e Susan Sarandon, e anche coloro che si sono liberati dalle catene del colonialismo, come Yoav Bar, Felicia Langer, Ariella Aisha Azoulay e altri.

Storie di Palestina
L’anno scorso ho curato un portfolio speciale di racconti dalla Palestina per la rivista letteraria The Common dell’Amherst College. Al centro di questo portfolio c’è l’umanità e il contatto umano, avvolti in storie delicate sulla realtà attuale: aree colonizzate del 1948 con le loro poche comunità indigene rimaste, che sono viste come “minoranze” nella loro stessa terra; altre aree sottoposte a un’occupazione attiva o a un assedio soffocante, note come “Cisgiordania e Gaza”; e palestinesi sfollati con la forza e rifugiati in tutti gli angoli della Terra, a cui viene negato il diritto al ritorno.

La storia di Samira Azzam si svolge in Iraq, dove l’autrice ha vissuto e lavorato come insegnante per parte della sua vita dopo essere stata sfollata dalla sua città, Akka, nell’anno della Nakba. Nella sua storia c’è un’implicita e singolare connessione tra i fili intrecciati del colonialismo nella regione araba e le dinamiche di potere accompagnate dalla disinformazione.

Le storie di Abeer Khshiboon, che vive a Berlino, e di Suhail Matar, che vive negli Stati Uniti, esemplificano i pesanti effetti del colonialismo sui palestinesi che sono rimasti a vivere nella loro terra, ora chiamata Israele, al centro del progetto coloniale.

La storia di Khshiboon si svolge ad Amman e racconta l’incontro tra un palestinese del ’48 (termine che si riferisce ai palestinesi rimasti nella terra colonizzata da Israele dopo la Nakba del 1948) e un siriano durante un concerto del cantante libanese Fairouz. Guardando i loro passaporti, i protagonisti sono cittadini di due entità in stato di guerra – ma nel profondo appartengono a un’unica comunità allargata, naturalmente unita e che rifiuta la cancellazione causata dai confini artificiali. La storia ricorda in modo semplice e organico le pratiche quotidiane di unificazione umana in una regione politicamente divisa dal colonialismo.

Il racconto di Matar descrive un altro incontro “proibito” tra un palestinese del ’48 e un palestinese di Gaza – un incontro che può avvenire solo in un altro Paese. Mentre i protagonisti di Khshiboon sono uniti dalla gioia, quelli di Matar sono uniti dal dolore e da un profondo sentimento di tragedia, realizzando così il ciclo delle circostanze condivise e del comune destino umano.

Nel frattempo, i racconti di Khaled al-Jebour e Ziad Khaddash approfondiscono gli aspetti problematici della vita quotidiana dei colonizzati. Il testo di Jebour racconta la storia di lavoratori palestinesi che entrano clandestinamente in Israele, nelle loro terre occupate, per costruire illegalmente gli insediamenti israeliani; si nascondono ogni giorno nei sotterranei e alla fine vengono catturati da un’unità speciale israeliana che dà la caccia ai lavoratori non autorizzati.

Si tratta di una narrazione di forti contraddizioni e di una struttura complessa e surrealista? No; è semplicemente la realtà quotidiana di molti lavoratori palestinesi stretti tra il martello del colonialismo israeliano e l’incudine della povertà e della disoccupazione, quest’ultima diretta conseguenza del primo.

I brevi testi di Khaddash aumentano la complessità paradossale, esponendo l’umiliazione implicita in un processo di “pace” che ha trasformato l'”Autorità Palestinese” in uno strumento nelle mani dell’occupazione – o, nel migliore dei casi, in un semplice osservatore impotente dei crimini dell’occupazione. Un altro cerca una soluzione a un problema tragico: cosa fare di uno studente che si sente male ogni volta che ride, a causa delle cicatrici da ustione che si è procurato durante i bombardamenti di Israele su Gaza?

Arte e umanità
La storia di Izzat al-Ghazzawi evidenzia un’altra tragedia tra le tante che i palestinesi subiscono: la detenzione nelle carceri dell’occupazione, dove oggi sono detenuti più di 4.400 prigionieri, tra cui 160 bambini. Le protagoniste sono donne, che svolgono un ruolo eroico, centrale e attivo in Palestina. Questo aspetto si riflette anche nella storia di Suheir Abu Oksa Daoud e delle sue eroine, in cui l’acqua piovana gioca un ruolo fondamentale; e nei testi di Khaddash, in cui le donne sono ritratte come ulivi profondamente radicati.

Il racconto di Mahmoud Shukair richiama l’attenzione sul ruolo fallimentare delle Nazioni Unite, controllate dagli interessi delle superpotenze e dai loro veti in seno al Consiglio di Sicurezza quando si tratta della situazione dei palestinesi. La storia di Eyad Barghuthy mostra un’intensa lotta con il colonizzatore, che si espande oltre la sfera spaziale e temporale, quando la celebrazione del Ramadan si trasforma in un’occasione per la tirannia e la confisca delle terre, insieme a sottili allusioni ai diversi temperamenti umani uniti dall’oppressione e in movimento verso la solidarietà.

Infine, la storia di Sheikha Hussein Helawy completa il cerchio dell’esistenza umana attraverso il racconto di una donna intrappolata in coma mentre la sua mente vaga liberamente, osservando il mondo circostante: la televisione, le tende, le infermiere e il numero sempre minore di visitatori. Le realtà mondane di una piccola stanza d’ospedale si trasformano in un mondo mutevole e in trasformazione, senza possibilità di deviare dalla rotta – riassumendo inavvertitamente il cupo orizzonte della Palestina in un mondo ingiusto governato da dinamiche di potere.

La Palestina potrebbe non esistere sulla mappa politica del mondo, nelle risoluzioni delle Nazioni Unite o nei piani futuri di ipocrite superpotenze – ma può essere trovata in tutti coloro che celebrano la giustizia e l’uguaglianza come alti valori umani universali e cercano di raggiungerli.

Si può trovare nel bambino che affronta i carri armati del colonizzatore, con il sasso in mano, chiamato “terrorista” dal mondo “civilizzato”; e nella persistenza dei palestinesi legati all’umanità attraverso l’arte e la letteratura, come espresso dal grande Darwish: “Non chiedete agli alberi i loro nomi / Non chiedete alle valli chi è la loro madre / Dalla mia fronte scoppia la spada di luce / E dalla mia mano sgorga l’acqua del fiume / Tutti i cuori del popolo sono la mia identità / Quindi toglietemi il passaporto”.

Questa è la Palestina espressa nella sua ricca e variegata letteratura. Benvenuti in Palestina.

Questo pezzo è stato tradotto dall’arabo da Nour Jaljuli.

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