A chi importa se i palestinesi vivono o muoiono?

Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto

Di Gideon Levy

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Una famiglia viene informata che il loro figlio è caduto in battaglia. Un’altra famiglia, della stessa comunità, viene informata che il loro figlio è stato ferito e catturato, e ora giace nell’ospedale del nemico oltre il confine. Da oltre un mese questa famiglia cerca di far visita al proprio figlio, mentre l’altra è addolorata per la morte del proprio caro, di cui non si conosce il luogo di conservazione. Alla fine arriva il tanto atteso permesso e la madre si reca a visitare il figlio ferito. Non appena entra nella sua stanza d’ospedale, il suo mondo crolla: il giovane nel letto non è suo figlio. È il figlio dei suoi vicini che si credeva fosse morto, i quali hanno già onorato i 40 giorni di lutto rituale.

È quanto è accaduto nelle ultime settimane nel campo profughi di Aqabat Jabr, situato alla periferia di Gerico. Tayer Aweidat fu dichiarato morto; si diceva che Alaa Aweidat fosse stato ferito. Quando la madre, Nawal, si recò all’Ospedale Hadassah di Gerusalemme per visitare suo figlio, dopo un mese di tentativi per ottenere un permesso, fu stupita di trovare un uomo ferito che non era suo figlio. Da allora, lei e la sua famiglia sono fuori di sé. Vogliono sapere solo una cosa: che fine ha fatto il loro figlio?

Lo Stato ha effettivamente risposto: “La persona in questione apparentemente è deceduta e il suo corpo è conservato presso l’Istituto Nazionale di Medicina Legale. Questo pone fine al nostro coinvolgimento”, ha scritto l’avvocato Matanya Rosin, un Vice Procuratore dell’Ufficio della Procura di Stato, Dipartimento dell’Alta Corte di Giustizia. L’avvocato è stato risoluto: il figlio è “apparentemente” morto e quella era “la fine del loro coinvolgimento”. Questa è un’informazione sufficiente per voi subumani, continuate a convivere con i vostri dubbi e non osate disturbarci più. Il Procuratore ha anche comunicato alla famiglia, con l’umanità che tanto caratterizza il nostro illuminato Paese, che la famiglia può recarsi presso l’Istituto di Medicina Legale per identificare quello che si suppone sia il corpo del figlio.

Da allora la famiglia, con l’aiuto di Hamoked, il Centro per la Difesa della Persona, sta cercando di ottenere un permesso di ingresso per visitare il defunto, ma finora senza successo. Che fretta c’è? Nel frattempo, accontentatevi della flebile speranza che il corpo nel congelatore non sia quello di vostro figlio. In ogni caso la famiglia non riceverà la salma. Israele l’ha sequestrata, come ha fatto con centinaia di corpi che ha trattenuto come rappresaglia, disonorando i morti e abusando dei vivi. Non ha intenzione di restituire il corpo, ma accetta solo gentilmente di concedere alla famiglia di dare una rapida occhiata. Onorare i morti, un importante valore ebraico, richiede di portare i defunti alla sepoltura ebraica, non a una tomba palestinese.

Chiunque desideri una prova del livello a cui è scesa la disumanizzazione dei palestinesi, e di quanto poco valore abbia la loro vita e la loro morte, deve solo recarsi al campo di Aqabat Jabr. Lì, tra le case in lutto e le baracche della disperazione, si può vedere un nuovo modello di mancanza di rispetto per i vivi e per i morti. Sono palestinesi, quindi che importanza ha se sono vivi o morti? Chi è stato ucciso e chi ferito? Dopotutto, sono tutti terroristi, e questo è il destino loro e delle loro famiglie.

Quando un avvocato che rappresenta lo Stato scrive “apparentemente” riguardo a una vittima la cui identità può essere facilmente stabilita, chiedendo che la famiglia non lo infastidisca più, sta dicendo ciò che Israele dice da molto tempo: che valore hanno le vite dei palestinesi, la loro dignità, il loro lutto e le loro emozioni? Dopotutto, non amano i loro figli. Le famiglie delle cinque persone uccise dall’IDF nella sua recente incursione in questo campo sono marginali. I vicoli del campo sono inondati di voci e nessuno sa chi è morto e chi è vivo. In Israele nessuno ne ha sentito parlare.

Questi sono i giorni che precedono le nostre festività nazionali onorate e cariche di ricorrenze, giorni che celebrano il culto della morte e dell’eroismo. Presto avremo una serie di commemorazioni, infinita emozione per i nostri figli vivi e morti, sui sacrifici fatti e sulla giustizia del nostro cammino; tra il Monte Herzl e lo Yad Vashem (Museo dell’Olocausto), assumeremo di nuovo la posizione delle vittime fino alla nausea, piangendo i nostri morti; tra la Residenza del Presidente e la Knesset (Parlamento), racconteremo di nuovo le storie del loro coraggio. A meno di un’ora di auto, le famiglie che possono essere o meno famiglie in lutto rimarranno nella loro incertezza, forse per sempre. “Che Israele si ricordi dei suoi figli e delle sue figlie leali e coraggiosi”, recita la preghiera che verrà recitata. Solo i nostri, esclusivamente, al di sopra e superiori ai figli di qualsiasi altra nazione.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

Fonte: https://www.haaretz.com/…/00000187-3e8b-db91-adcf…

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