Cosa può imparare una nuova generazione di registi palestinesi da “Farha”?

Articolo pubblicato originariamente su +972mag e tradotto dall’inglese dalla redazione di Bocche Scucite

Il desiderio di dirigere un film sulla Nakba è una potente chiamata all’azione. Ma per trasmettere pienamente ciò che abbiamo perso, deve essere accuratamente radicato nella realtà storica.

Di Samah Bsoul*

Una foto del film “Farha”, diretto da Darin J. Sallam. (Talebox)

“Farha”, il nuovo film del regista Darin J. Sallam sulla Nakba, è stato recentemente distribuito su Netflix tra gli applausi e le proteste. La storia di una ragazza palestinese che assiste e sopravvive agli eventi catastrofici del 1948, ha portato l’ex ministro delle Finanze israeliano Avigdor Liberman a chiedere che il film venisse tolto dal servizio di streaming, mentre gli israeliani hanno postato pubblicamente di cancellare i loro abbonamenti a Netflix.

Liberman ha accusato “Farha” di diffondere un’immagine distorta dell’esercito israeliano e di travisare i fatti accaduti nel 1948. L’ex ministro si sbaglia, ovviamente, e si limita a ripetere le stesse linee hasbara che appaiono ogni volta che gli abusi militari israeliani vengono ritratti sullo schermo. Ma il film, nella vaghezza con cui ritrae il rapporto di Farha con la Nakba, sminuisce il suo messaggio e per molti versi rappresenta un passo indietro per il cinema palestinese.

Evitare le etichette
La protagonista del film, Farha (“Felicità”), è una ragazza di 14 anni con l’ambizione ardente di liberarsi dal suo piccolo villaggio palestinese e raggiungere la città per seguire un’istruzione. Ma le sue speranze si infrangono quando le milizie sioniste invadono il suo villaggio durante la Nakba, intrappolando Farha (interpretata da Karam Taher) in un magazzino di cibo per diversi giorni di buio. Farha è costretta ad assistere agli orrori che si consumano all’esterno attraverso un minuscolo buco nel muro: uomini radunati dalle milizie, un collaborazionista palestinese con un sacco di iuta in testa che guida le milizie e un’intera famiglia giustiziata da un plotone di esecuzione, lasciando un neonato. Il film si basa sulla testimonianza di una donna palestinese sopravvissuta alla Nakba, fuggita in Siria e che ha condiviso la sua storia con la madre del regista Sallam.

La decisione di Sallam di lasciare Farha e la sua vita nell’oscurità impedisce allo spettatore di comprendere appieno il mondo in cui vivevano i palestinesi prima della Nakba, un mondo che è stato loro sottratto. La “città” in cui Farha desidera portare avanti i suoi studi è senza nome e, nella rappresentazione di Sallam, la Palestina potrebbe essere qualsiasi altro Paese del mondo arabo. Farha, una ragazza coraggiosa e coscienziosa che desidera ritardare il suo matrimonio per studiare e creare una scuola nel suo villaggio, potrebbe essere una ragazza di qualsiasi nazione della regione. Anche l’inserimento di alcuni dialoghi in ebraico e di una stella di Davide sulle uniformi militari degli occupanti non ci fa comprendere appieno gli effetti devastanti che la Nakba ha avuto sulla vita dei palestinesi.

Soldati del Palmach siedono all’ingresso di un edificio nel villaggio palestinese spopolato di Bayt Nattif, vicino a Gerusalemme, ottobre 1948. (GPO)

Dopo aver visto il film, mi sono chiesto perché “Farha” eviti le etichette esplicite. Sallam teme forse di essere diretta e di parlare apertamente dell’ambientazione degli eventi? Intendeva forse umanizzare il soldato sionista raffigurandolo mentre piange e decide di non uccidere un bambino? Sbirciare dallo spioncino è un simbolo dell’impotenza palestinese o di una testimonianza vivente?

Ogni secondo che vediamo sullo schermo è il messaggio del regista, e la scelta della Nakba come argomento è coraggiosa in un momento in cui pochi affrontano la catastrofe palestinese al cinema. Eppure, vedo un notevole fallimento nella definizione di questo messaggio. “Farha” lascia il pubblico con emozioni difficili, piuttosto che spingerlo a riflettere sulla coscienza e sul futuro dei sopravvissuti alla Nakba.

Al centro della lotta contro il sionismo
Per oltre sette decenni, il cinema palestinese è stato al centro della lotta contro il sionismo e l’occupazione. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), riconoscendo il potere del cinema e il suo potenziale nel documentare la storia e nel formare l’opinione pubblica, fondò negli anni ’60 un’unità cinematografica che riuniva fotografi e registi di talento, palestinesi e non.

L’unità ha prodotto una serie di film che rimangono una fonte vitale di ispirazione e conoscenza per lo studio, la pratica e l’evoluzione del cinema palestinese; e nonostante tutte le immense sfide, la produzione continua di film palestinesi fornisce un barlume di speranza a un popolo che è stato esiliato per tre quarti di secolo e sottoposto a un regime militare per più di 50 anni.

In questo contesto, il desiderio di dirigere un film sulla Nakba è una potente chiamata all’azione, che non può e non deve essere ignorata. È una sfida che deve essere raccolta dai registi palestinesi di oggi, una chiamata ad andare oltre la semplice scelta di un tema attraente che sia abbracciato dai finanziatori arabi o europei e che prometta alti tassi di spettatori associati alla popolarità e al sostegno del pubblico.

Cosa possono imparare i registi dalle precedenti rappresentazioni cinematografiche della Nakba? Come possono usare il mezzo cinematografico per raccontare la storia della Nakba in un modo che non solo catturi l’attenzione del pubblico, ma che lo ispiri e lo spinga all’azione?

Una narrazione magistrale
Il cinema palestinese ha prodotto numerosi esempi di film che ritraggono efficacemente la Nakba, con la specificità necessaria a comunicare quanto i palestinesi hanno perso. Il regista Michel Khleifi, ad esempio, ha rappresentato la Nakba e le sue ripercussioni sui palestinesi creando un forte contrasto, suggerito dal titolo del film: “Ma’aloul celebra la sua distruzione”.

Questo cortometraggio del 1998 mostra un dialogo tra Khleifi e un abitante sfollato del villaggio spopolato di Ma’aloul, in cui discutono del rapporto di quest’ultimo con la Dichiarazione Balfour del 1917, la dichiarazione del governo britannico che annunciava il sostegno a una patria ebraica in Palestina. Lo scontro tra il destino del villaggio e le emozioni degli sfollati, mentre si celebrano i festeggiamenti per l’indipendenza israeliana, viene messo in forte risalto.

Palestinesi fuggono dal loro villaggio in Galilea dopo l’ingresso delle forze sioniste, 1948. (GPO)

Elia Suleiman, l’acclamato regista nato a Nazareth, ritrae la Nakba nei suoi film con una chiarezza e una schiettezza senza pari. In “The Time That Remains”, utilizza una narrazione magistrale per sottolineare la legittimità della resistenza armata, creando una narrazione che collega il passato e il presente e che riflette accuratamente le esperienze di quei palestinesi che sono rimasti nella loro terra. In altre sue opere, Suleiman arricchisce questa narrazione con un simbolismo che invita lo spettatore a comprendere l’intero contesto del conflitto. Il regista lancia un messaggio potente: l’oppressore e l’oppresso possono unirsi e trovare un terreno comune basato sui valori della libertà e della giustizia, e questo è l’unico modo per garantire una vita libera e dignitosa in Palestina.

In “Bride of Galilee”, il regista Basil Tanous comunica l’importanza di essere solidali con gli oppressi. In questo film, avviene un incontro straordinario tra Fatima Hawwari, rimasta paralizzata dagli attacchi aerei israeliani sul suo villaggio di Tarshiha durante la guerra del 1948, e Abe Nathan, il pilota ebreo che ha bombardato la sua casa. Il film di Tanous è una chiamata all’azione, un invito ad abbandonare il vittimismo, a reclamare la nostra dignità e a riaffermare il nostro diritto alla vita in Palestina.

Rimanere sul messaggio
Ma la regia da sola non è sufficiente per creare film sulla Nakba nel 2023 che rimangano fedeli alla storia e al presente della condizione palestinese. L’industria cinematografica palestinese deve anche esercitare sensibilità e attenzione nel processo di scrittura, compreso uno studio approfondito della storia, la conoscenza dei nomi e delle capacità degli attori palestinesi, la familiarità con le fonti che hanno documentato e conservato le storie orali, e la capacità di vagliare le informazioni e metterle in ordine. Il dialogo deve essere fedele alla narrazione collettiva e aderire a un discorso credibile e paritario, e ci deve essere un solido impegno per l’alta qualità e l’attenta selezione di ogni dettaglio.

Come per la musica e l’arte, i film palestinesi devono stare al passo con l’evoluzione del cinema: devono essere aggiornati con i metodi cinematografici contemporanei per attirare gli spettatori internazionali e competere con i film che ritraggono i palestinesi come il nemico o ignorano del tutto la loro storia. Con immagini e regia obsolete, lo sviluppo dei film palestinesi sarà limitato e non avrà il potenziale per avere successo su scala globale. I registi di oggi devono tenere a mente la causa politica, poiché i film hanno un ruolo importante nel progetto nazionale – piattaforme come Netflix offrono nuovi modi per mobilitare la solidarietà e raccontare la storia palestinese.

Inoltre, i registi devono essere consapevoli del tentativo in corso di minare e annientare la narrazione palestinese. Stabilire una base solida è fondamentale, poiché è impossibile plasmare l’opinione pubblica, sia in Israele che a livello globale, sulla Nakba e sulle sue conseguenze attraverso film superficiali, che si limitano a ripetere opere già esistenti o che menzionano la Nakba solo di sfuggita.

Una nuova generazione di registi palestinesi, tra cui Maha Haj, Mahdi Flefel, Annemarie Jacir, Basel Khalil, Najwa Najjar e Shadi Habib Allah, ha compiuto passi coraggiosi per sollevare questioni sociali e politiche all’interno della società palestinese. Questi temi sono stati la forza trainante di molti film palestinesi dell’ultimo decennio, con una serie di documentari e lungometraggi narrativi che hanno partecipato a festival internazionali e vinto premi. Nonostante le lotte che la società palestinese deve affrontare, questa nuova generazione deve rimanere concentrata sulla causa politica più importante e ricordare che la Nakba è ancora una sfida presente e quotidiana.

I fondi per il cinema palestinese possono essere carenti, ma c’è uno spirito incrollabile di perseveranza e determinazione a mantenere viva la questione. Nonostante gli ostacoli, i registi sono determinati a portare le storie palestinesi nel mondo e a creare migliori opportunità per la loro cultura. L’ascesa di servizi di streaming come Netflix, con la collezione “Storie palestinesi” lanciata nel 2021, fornisce una piattaforma per raccontare la nostra storia dal nostro punto di vista e mobilitare maggiore solidarietà.

È chiaro che, anche in presenza di motivi di lucro, il regista palestinese medio è deciso a usare il cinema come strumento di lotta per il proprio progetto nazionale. Con la forza e la resilienza del popolo palestinese e il crescente sostegno delle piattaforme digitali, la storia palestinese continuerà a essere raccontata per molte generazioni a venire.

*Samah Bsoul è giornalista, critica e ricercatrice nel campo del cinema. Ha conseguito una laurea in letteratura comparata e un master in cultura cinematografica, e attualmente sta studiando per un master in letteratura.

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