E’ tempo che noi ebrei torniamo in esilio

Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto

Di B. Michael

I fedeli ebrei partecipano alla tradizionale preghiera di benedizione sacerdotale durante la Pasqua ebraica, presso il Muro Occidentale nella Città Vecchia di Gerusalemme in aprile Credit: Ronen Zvulun/ Reuters

Sono un orgoglioso ebreo esiliato. Sono un internazionalista e un cosmopolita. Sono anche libero da qualsiasi legame con il mio luogo di nascita geografico, e la “terra” per me è solo la terra in cui cresce il cibo e dove le persone vengono sepolte. Non possiede un solo briciolo di santità e non vale nemmeno una singola goccia di sangue.
La mia vera Patria, l’ho imparata a mie spese, si trova nelle parole, nei libri, nelle idee, nei valori e nei principi. So essere un buon valido cittadino di qualsiasi Paese in cui potrei vivere e ho accettato la mia incapacità di essere un patriota.
Soprattutto, sono appartenuto a un buon popolo. Per 2000 anni sono stato parte di un popolo, senza potere, senza un territorio, senza un esercito, senza un tempio. Sono molto orgoglioso della lunga storia del mio popolo. Sono particolarmente orgoglioso del fatto che questo popolo non abbia mai perpetrato un solo massacro o una singola atrocità genocida durante i suoi 2000 anni di esistenza. Non ci sono molti popoli che possono dire lo stesso.
Al contrario, contro di esso furono perpetrate non poche atrocità. Ma miracolo dei miracoli, i carnefici furono annientati e i perseguitati sopravvissero. Hanno dimostrato ancora una volta che il debole è superiore ai forti.
Ai giorni nostri, abbiamo imparato che dobbiamo la nostra sopravvivenza all’essere geograficamente sparsi piuttosto che geograficamente concentrati. Alla diversità piuttosto che all’unità. Alle comunità piuttosto che a uno Stato.
Siamo davvero terribili nell’essere una “nazione”. Siamo diventati subito molto arroganti, violenti e avidi come la maggior parte delle altre nazioni del mondo, e in breve tempo abbiamo portato la distruzione e l’esilio su di noi. Solo lì, in esilio, riacquistiamo il senso che abbiamo perso e riprendiamo ad essere un popolo che sopravvive.
Apparentemente, essere la maggioranza non ci si addice: governare, dirigere un esercito e uno Stato. Siamo bravi a essere una minoranza. Anche una piccola persecuzione ci si addice. Tira fuori il meglio di noi.
E ora, stiamo ancora una volta giocando ad essere una “nazione”. Apparentemente, questa è la nostra risposta eterna all’Olocausto che ci ha colpito. Ma in realtà è la continuazione dell’Olocausto. Non, ci mancherebbe il cielo, l’incenerimento dei nostri corpi, solo spezzando le nostre anime.
È la crescita di un altro germoglio dell’albero ebraico che fa del male a tutti quelli che lo circondano. Un fratello marcio e velenoso degli Zeloti, dei Sicarii, degli studenti ciechi del Rabbino Akiva e degli sciocchi discepoli di Simon bar Kochba. Dovrebbero essere chiamati ebrei-oidi. Sono come gli ebrei che hanno preso le parti triviali e malvagie dell’ebraismo e ne hanno fatto l’essenza.
Ed è così che siamo arrivati ​​al punto in cui siamo: una “nazione” piccola, arrogante, violenta e malvagia. Un pesciolino in un laghetto e un alleato dei reietti. Il visionario i cui sforzi hanno portato alla creazione dello Stato, se fosse risorto dalla tomba e avesse visto i risultati della sua visione, sarebbe tornato nella sua bara e avrebbe chiesto che le sue ossa fossero riportate a Vienna.
Non c’è più via d’uscita da questo pantano. Settantacinque anni di razzismo e violenza hanno completamente corrotto l’elettorato israeliano. Nessun governo sano di mente sarà più eletto qui. Di conseguenza, non c’è altra scelta che ammettere che il sionismo è stato un errore ingenuo, e tornare nuovamente all’esilio per riguadagnare le nostre forze e rinnovare i nostri valori.
Sono già stato esiliato. Anche l’esilio interno va bene, per ora. Attualmente sono un esiliato nella terra in cui sono nato. Sono ancora una volta una minoranza, ancora una volta un debole senza appartenenza, ancora una volta abbastanza impotente e un diverso. Proprio come piace a me.
E come gli ebrei in tutti i Paesi del loro esilio, mi prendo cura di diffamare il Paese in cui vivo, celebrare le mie feste piuttosto che le sue feste, disprezzare il suo governo e le sue azioni e, naturalmente, pugnalare la nazione alle spalle. In realtà, un coltello è un po’ troppo grande per me. Mi accontenterò dell’illusione di essere riuscito a infilare un ago nel sedere della nazione.
(Per quanto riguarda il controllo del denaro e dei media, nonché delle cabale segrete, temo di non aver soddisfatto le aspettative degli ebrei sionisti. Ma forse la dottrina che quegli ebrei antisemiti ci hanno infuso riempira quel vuoto.)

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E’ tempo che noi ebrei torniamo in esilio

Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto

Di B. Michael

I fedeli ebrei partecipano alla tradizionale preghiera di benedizione sacerdotale durante la Pasqua ebraica, presso il Muro Occidentale nella Città Vecchia di Gerusalemme in aprile Credit: Ronen Zvulun/ Reuters

Sono un orgoglioso ebreo esiliato. Sono un internazionalista e un cosmopolita. Sono anche libero da qualsiasi legame con il mio luogo di nascita geografico, e la “terra” per me è solo la terra in cui cresce il cibo e dove le persone vengono sepolte. Non possiede un solo briciolo di santità e non vale nemmeno una singola goccia di sangue.
La mia vera Patria, l’ho imparata a mie spese, si trova nelle parole, nei libri, nelle idee, nei valori e nei principi. So essere un buon valido cittadino di qualsiasi Paese in cui potrei vivere e ho accettato la mia incapacità di essere un patriota.
Soprattutto, sono appartenuto a un buon popolo. Per 2000 anni sono stato parte di un popolo, senza potere, senza un territorio, senza un esercito, senza un tempio. Sono molto orgoglioso della lunga storia del mio popolo. Sono particolarmente orgoglioso del fatto che questo popolo non abbia mai perpetrato un solo massacro o una singola atrocità genocida durante i suoi 2000 anni di esistenza. Non ci sono molti popoli che possono dire lo stesso.
Al contrario, contro di esso furono perpetrate non poche atrocità. Ma miracolo dei miracoli, i carnefici furono annientati e i perseguitati sopravvissero. Hanno dimostrato ancora una volta che il debole è superiore ai forti.
Ai giorni nostri, abbiamo imparato che dobbiamo la nostra sopravvivenza all’essere geograficamente sparsi piuttosto che geograficamente concentrati. Alla diversità piuttosto che all’unità. Alle comunità piuttosto che a uno Stato.
Siamo davvero terribili nell’essere una “nazione”. Siamo diventati subito molto arroganti, violenti e avidi come la maggior parte delle altre nazioni del mondo, e in breve tempo abbiamo portato la distruzione e l’esilio su di noi. Solo lì, in esilio, riacquistiamo il senso che abbiamo perso e riprendiamo ad essere un popolo che sopravvive.
Apparentemente, essere la maggioranza non ci si addice: governare, dirigere un esercito e uno Stato. Siamo bravi a essere una minoranza. Anche una piccola persecuzione ci si addice. Tira fuori il meglio di noi.
E ora, stiamo ancora una volta giocando ad essere una “nazione”. Apparentemente, questa è la nostra risposta eterna all’Olocausto che ci ha colpito. Ma in realtà è la continuazione dell’Olocausto. Non, ci mancherebbe il cielo, l’incenerimento dei nostri corpi, solo spezzando le nostre anime.
È la crescita di un altro germoglio dell’albero ebraico che fa del male a tutti quelli che lo circondano. Un fratello marcio e velenoso degli Zeloti, dei Sicarii, degli studenti ciechi del Rabbino Akiva e degli sciocchi discepoli di Simon bar Kochba. Dovrebbero essere chiamati ebrei-oidi. Sono come gli ebrei che hanno preso le parti triviali e malvagie dell’ebraismo e ne hanno fatto l’essenza.
Ed è così che siamo arrivati ​​al punto in cui siamo: una “nazione” piccola, arrogante, violenta e malvagia. Un pesciolino in un laghetto e un alleato dei reietti. Il visionario i cui sforzi hanno portato alla creazione dello Stato, se fosse risorto dalla tomba e avesse visto i risultati della sua visione, sarebbe tornato nella sua bara e avrebbe chiesto che le sue ossa fossero riportate a Vienna.
Non c’è più via d’uscita da questo pantano. Settantacinque anni di razzismo e violenza hanno completamente corrotto l’elettorato israeliano. Nessun governo sano di mente sarà più eletto qui. Di conseguenza, non c’è altra scelta che ammettere che il sionismo è stato un errore ingenuo, e tornare nuovamente all’esilio per riguadagnare le nostre forze e rinnovare i nostri valori.
Sono già stato esiliato. Anche l’esilio interno va bene, per ora. Attualmente sono un esiliato nella terra in cui sono nato. Sono ancora una volta una minoranza, ancora una volta un debole senza appartenenza, ancora una volta abbastanza impotente e un diverso. Proprio come piace a me.
E come gli ebrei in tutti i Paesi del loro esilio, mi prendo cura di diffamare il Paese in cui vivo, celebrare le mie feste piuttosto che le sue feste, disprezzare il suo governo e le sue azioni e, naturalmente, pugnalare la nazione alle spalle. In realtà, un coltello è un po’ troppo grande per me. Mi accontenterò dell’illusione di essere riuscito a infilare un ago nel sedere della nazione.
(Per quanto riguarda il controllo del denaro e dei media, nonché delle cabale segrete, temo di non aver soddisfatto le aspettative degli ebrei sionisti. Ma forse la dottrina che quegli ebrei antisemiti ci hanno infuso riempira quel vuoto.)

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