Il caso della resistenza armata

Articolo pubblicato originariamente su The New Arab e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto

Di Emad Moussa*

Quando la violenza è radicata nel tessuto stesso del regime coloniale israeliano, condurre una lotta armata è moralmente giustificato nella lotta per la decolonizzazione e la liberazione palestinese.

Il Presidente palestinese Mahmoud Abbas ha costantemente rifiutato l’uso della violenza come parte della lotta contro l’occupazione israeliana, credendo fermamente che stesse danneggiando gli obiettivi nazionali palestinesi.

Membro di spicco dell’OLP nel 1977, Abbas dichiarò di non essere contrario ai negoziati con Israele per raggiungere una soluzione pacifica, emergendo in seguito come uno dei principali artefici degli Accordi di Oslo.

Come capo dell’Autorità Palestinese, aveva poche riserve nel condannare la lotta armata a favore di una versione morbida della resistenza popolare. Nel 2014 ha posto la “condanna della violenza” come precondizione per un governo di unità con Hamas.

Ma in un’intervista del mese scorso, ha lasciato intendere che la resistenza armata potrebbe essere ancora un’opzione, anche se come ultima risorsa.

“Non sostengo la resistenza armata, ma questo potrebbe cambiare in qualsiasi momento, naturalmente”, ha detto Abbas, avvertendo che “i palestinesi stanno perdendo la pazienza”.

La resistenza nonviolenta palestinese è sempre stata parte della lotta, fin dall’inizio del 20° secolo contro il sionismo e il Mandato Britannico. Ha perso slancio subito dopo la Nakba del 1948 con la disfatta della società palestinese. È riemersa come organizzazione popolare e culturale negli anni ’60 con il lancio della rivoluzione palestinese.

La Prima Intifada del 1987 fu un momento fatidico per il movimento. Boicottaggi, disobbedienza civile e proteste di massa, che presto si sono trasformate in attivismo e difesa popolare, hanno dominato la scena e aiutato i palestinesi a ottenere un notevole sostegno internazionale.

La Seconda Intifada (2000-2005) iniziò come una rivolta popolare, che ben presto si trasformò in resistenza armata in risposta all’impiego da parte di Israele di una forza militare in assetto da guerra. L’Intifada, tuttavia, ha visto l’emergere dell’attivismo in rete, che ha contribuito a far crescere il movimento di solidarietà con la Palestina a livello globale.

Le tattiche sviluppate durante quel periodo continuano a rivitalizzare la difesa della Palestina oggi e hanno ottenuto molteplici successi per la causa a livello globale.

Visto da questa prospettiva, ci sono prove a sostegno della visione del mondo di Abbas, specialmente se integrate dai (limitati) successi diplomatici dell’Autorità Palestinese nel ritenere Israele responsabile negli organismi internazionali.

Ma queste “prove” sono sufficienti per trarre conclusioni definitive?

Il rifiuto della resistenza armata da parte di Abbas è una questione di principio e, per lui, l’uso della violenza contro l’occupante deve essere scartato se ci sono le condizioni per un dialogo razionale. Ciò si basa sull’impopolare presupposto che possa ancora negoziare la sua strada verso la liberazione.

Da una posizione pacifista, il giudizio morale alla base di questa logica può essere valido. In questa logica, la violenza è vista come un divisore tra il bene e il male, e controproducente per le aspirazioni nazionali.

Arun Gandhi, nipote del Mahatma Gandhi, parlò di questa “filosofia” durante una visita in Palestina nel 2004. Disse che i palestinesi non avevano altra alternativa che perseguire metodi pacifici di resistenza a Israele a lungo termine, come aveva fatto suo nonno contro il colonialismo britannico in India.

Ma dopo la pulizia etnica della Palestina del 1948, che probabilmente rese illusoria la convinzione di Gandhi che si potesse raggiungere una vera convivenza tra i coloni sionisti e i palestinesi, la filosofia della nonviolenza che viene spesso proiettata sulla Palestina potrebbe non essere contestualmente corretta, se non del tutto moralmente errata.

Ci sono due ragioni per questo:

La prima, la resistenza nonviolenta palestinese è stata regolarmente accolta con una violenza israeliana sproporzionata. La resistenza ha contribuito in modo significativo al riconoscimento globale dei diritti umani dei palestinesi e proprio questo risultato si è dimostrato difficile da accettare per lo Stato israeliano.

Incitamento, antisemitismo, terrorismo e comportamenti distruttivi sono alcune delle molte etichette che le autorità di occupazione israeliane hanno assegnato alla dissidenza popolare, sul campo o in rete.

Ai palestinesi della Cisgiordania occupata, in particolare nell’area C controllata da Israele, è vietato partecipare a proteste e veglie. Gli è proibito esporre la bandiera palestinese e distribuire materiale politico.

Le proteste pacifiche sono affrontate con proiettili di gomma e munizioni letali, gas lacrimogeni e granate stordenti, uccidendo migliaia di persone. Molti di coloro che sfuggono alle ferite subiscono irruzioni notturne, intimidazioni e detenzione.

A Gaza, durante la Grande Marcia del Ritorno tra il 2018 e il 2020, l’esercito israeliano ha ucciso oltre 200 manifestanti.

Nel frattempo, metodi pacifici di pressione politica come il BDS sono stati demonizzati come antisemiti. Diversi attivisti per i diritti umani e giornalisti palestinesi e stranieri sono stati incarcerati, deportati o gli è stato negato l’ingresso in Palestina. Coloro che espongono la verità e la brutalità del regime israeliano vengono uccisi.

La seconda, il colonialismo è intrinsecamente un processo violento, creato e sostenuto dalla violenza. Può sopravvivere solo mantenendo un ordine sociale repressivo e gerarchico, basato principalmente sulla forza bruta e sulla sottomissione.

Ciò limita la capacità della nonviolenza di agire da stabilizzatore per scoraggiare l’uso della violenza da parte del colonizzatore.

Un modo elementare per liberarsi da quell’ordine è rendere il suo mantenimento costoso, doloroso e insostenibile. La resistenza armata, quindi, può essere intrapresa in nome della libertà e della sopravvivenza nazionale, certamente quando per la società il peso dell’ordine repressivo diventa insostenibile.

Certo, la resistenza armata spesso esige un prezzo pesante per i colonizzati, come è stato per algerini, vietnamiti, iracheni e ora ucraini, tra molti altri nella storia della lotta anticoloniale. Ma se questa storia prova qualcosa, è che la continuazione dell’ordine repressivo esige un prezzo molto più alto.

Dopotutto, il ricorso alla violenza nel contesto coloniale è una risposta a una violenza già esistente da parte del colonizzatore. E a causa di ciò, i colonizzati sono moralmente, e naturalmente, giustificati nell’usare la violenza per ottenere la loro liberazione.

Legalmente, il diritto internazionale garantisce alle persone il diritto di lottare per “la liberazione dal dominio coloniale e dalla sottomissione stranieri con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.

Il processo trae gran parte della sua forza morale dal diritto all’autodifesa, la legge naturale più antica dell’umanità. Negare tale diritto, etichettarlo come terrorismo o concederlo in modo selettivo cancella questioni fondamentali nella lotta per la libertà e pone seri dilemmi morali.

Il calcolo per la maggior parte dei palestinesi, quindi, è semplice. È una scelta tra la costosa resistenza armata e il male più grande dell’oblio nazionale.

Qualsiasi opzione intermedia, ad esempio sostituendo l’autodeterminazione e la sovranità con incentivi economici minimalisti, senza porre fine all’occupazione, è insostenibile. Sarà sempre una condizione di sofferenza, né di qua né di là, ma comunque disumanizzante e continuamente sull’orlo dell’implosione.

Quindi, contro il miglior giudizio di Abbas, quando la sola nonviolenza è stata impiegata contro il militarismo e l’intransigenza politica israeliana, si è rivelata insufficiente. Potrebbe aver ottenuto più vittorie raccogliendo il riconoscimento della giustizia palestinese a livello internazionale.

Ma all’interno della Palestina Occupata, il sostegno morale e legale rimane insufficiente per forzare la mano a Israele e attuare un percorso verso la liberazione.

Questo è esattamente il motivo per cui la maggioranza dei palestinesi pensa che la resistenza armata non dovrebbe mai essere una questione di alternativa, ma una scelta nazionale fondamentale contro Israele, colmando il vuoto in cui la resistenza popolare è stata inefficace.

Da un punto di vista strategico, alcune tattiche si sono dimostrate più efficaci di altre, e il movimento di resistenza armata si è evoluto nello schieramento e nei metodi di attuazione, così come nella natura degli obiettivi, concentrandosi principalmente sui militari israeliani e sui coloni illegali.

L’emergere di Areen al-Usud (La Tana dei Leoni) di Nablus e della Sala Operativa Congiunta di Gaza suggeriscono che i palestinesi potrebbero anche aver tentato di smantellare la resistenza armata e creare un fronte tattico coordinato e unificato contro Israele.

Resta da vedere se lo sforzo unificato maturerà in una strategia nazionale completa e ben definita. Il fatto che molti alti funzionari dell’Autorità Palestinese restino fermamente contrari alla lotta armata, timorosi di ritorsioni israeliane, mostra quanto siano lontani dai movimenti di resistenza popolare.

*Emad Moussa è un ricercatore e scrittore specializzato in politica e psicologia politica di Palestina/Israele.

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