Il sionista laico David Ben-Gurion, l’ebreo messianico

Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto

David Ben-Gurion ha piantato le radici di uno Stato laico ma allo stesso tempo ha gettato i semi della sua distruzione, i semi del male religioso-messianico.

DI Odeh Bisharat

Ben-Gurion era un politico pragmatico e per realizzare l’ambizione della sua vita, l’istituzione dello Stato di Israele, ha arruolato il messianismo religioso perché il nazionalismo da solo è un guscio vuoto che ha bisogno di qualcosa di succoso dentro per suscitare entusiasmo. Senza dubbio pensava di poter controllare le erbacce selvatiche che sarebbero cresciute nel suo giardino.

Inoltre, credo che, contrariamente alla sua apparenza laica, Ben-Gurion, in fondo, fosse affascinato da idee religiose, persino messianiche. Non è stato solo il suo dire che la Bibbia è “il nostro atto di proprietà”, che ha giustificato l’esproprio di massa delle terre arabe all’interno di Israele e dei Territori Occupati. Nella guerra del 1956 e in una lettera all’Ordine della Vittoria dell’Esercito, scrisse: “Yodefet, noto come Tiran, farà ancora una volta parte del Terzo Regno di Israele”.

Ben-Gurion rifiutava le correnti nazional-religiose e ultra-ortodosse probabilmente perché pensava che fossero troppo moderate (e in effetti la visione religiosa del mondo a quei tempi era moderata), e che avrebbero indebolito la militanza del movimento sionista laico. Presumeva, a quanto pare, che i religiosi avrebbero continuato a difendere quella saggia politica di evitare di “turbare i Gentili” (non ebrei). Era un approccio che aiutava gli ebrei a sopravvivere in tempi difficili; il problema era che mentre era una strategia adatta a una minoranza perseguitata, non era adatta a una maggioranza che detiene il potere.

Allora cosa fare? La storia è tragica. Quando Ben-Gurion pensava che fosse giunto il momento di frenare la brama di Occupazione, Moshe Dayan la pensava diversamente e non si prese nemmeno il tempo di aggiornarlo sui suoi piani alla vigilia della guerra del 1967.

Ben-Gurion era decisamente contrario alla guerra e quando finì esortò Israele a ritirarsi dalla Cisgiordania, ad eccezione di Gerusalemme Est ed Hebron. Si rese conto del potenziale distruttivo insito nel controllo di masse di persone prive di diritti civili sotto un’Occupazione militare.

Oggi le erbacce selvatiche, cioè l’estremismo religioso combinato con l’estremismo nazionalista, prosperano. I fanatici messianici e ultranazionalisti si sono uniti e operano su due fronti. Da una parte, stanno cercando di “liberare” la terra dei loro antenati, e dall’altra stanno lavorando per “liberare” le persone dal loro laicismo. Sognano una polizia morale come in Iran e istigano all’odio contro il 20% dei cittadini israeliani che fanno parte del popolo palestinese, che questi razzisti vedono come un nemico e i cui rappresentanti vedono come terroristi.

La buona notizia derivante da tutto ciò è che gli israeliani sani di mente, insieme ai palestinesi in Cisgiordania, condividono la consapevolezza che l’Occupazione è contro i loro interessi. I palestinesi in Cisgiordania stanno combattendo l’Occupazione, e gli israeliani sani di mente stanno combattendo i frutti di quell’Occupazione, vale a dire la crescita delle forze antidemocratiche all’interno di Israele.

Ma contro questo, c’è un altro conflitto che riguarda i rapporti con la società araba in Israele. Gli arabi in Israele sono cittadini con pari diritti e partecipanti a pieno titolo nella vita dello Stato? Il loro status rimane incerto, e nemmeno loro stessi sono riusciti a chiarirlo.

E mentre in linea di principio il conflitto israelo-palestinese è, nonostante tutto, risolvibile, lo status degli arabi israeliani e il rapporto che avranno con la maggioranza ebraica rimane avvolto nella nebbia. È facile capire perché: mentre il percorso dei palestinesi in Cisgiordania e Gaza è quello della separazione da Israele, il percorso per i cittadini ebrei e arabi di Israele è quello della convivenza. Possiamo farlo?

Non è una domanda facile. Ma con la consapevolezza che l’alternativa sarà disastrosa per entrambe le parti, dovremmo essere in grado, con un po’ di ottimismo e determinazione, di riuscire a trovare un giusto compromesso.

Oggi, mentre il Paese è in subbuglio, la questione è come trasformare la lotta per la democrazia, una lotta che dovrebbe riguardare il volto della società israeliana, in una lotta comune dei due popoli. Questa è una questione che non è meno importante della lotta per la democrazia. In realtà, ne è una parte inscindibile.

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