Articolo originariamente pubblicato su Lungo la rotta balcanica
Sono qui da sette anni. La mia famiglia da sei. Siamo scappati dalla Siria quando mia figlia più piccola aveva solo due mesi. I militari turchi ci hanno sparato addosso mentre cercavamo di attraversare il confine di nascosto. A noi come a tanti altri. Abbiamo vissuto in un campo profughi in Turchia per quasi un anno. Un campo solo per palestinesi. Per apolidi, che è come ci definiscono qui in Germania. Ma noi uno Stato lo abbiamo. Siamo palestinesi. Veniamo dalla Palestina. Mio papà è stato costretto ad andarsene nel 1967 quando Israele ha occupato la Striscia di Gaza. È andato prima in Giordania, poi in Libano infine in Siria. Lì sono nato io, a Dar’aa, in un campo profughi palestinese. Nella città che nel 2011, allo scoppio della rivoluzione in Siria, è diventata uno dei principali centri di mobilitazione. Noi palestinesi non c’entravamo con la guerra, ma alla fine ci hanno costretto a prendere posizione. O da una parte o dall’altra.
Sono stato in prigione, sono stato torturato. Hanno bombardato la città, quel figlio di un cane puntava a sfinirci fisicamente e psicologicamente.
Un giorno hanno bombardato la casa vicina alla nostra. Sapevo bene che non mi sarei dovuto muovere. Che la tecnica del massacro prevede dopo il primo bombardamento almeno uno o due nello stesso posto per ferire e uccidere va in soccorso. E così è stato. Ma dopo il primo colpo non potevo non provare ad andare a salvare la mia vicina e sua figlia. Invece era già troppo tardi. Erano già morte. Ho visto solo il sangue colare dalle pareti, ormai ripiegate su se stesse. Il secondo bombardamento è arrivato subito. Mi hanno salvato un auto e un muretto. Due schegge mi hanno lacerato la carne sulle gambe, altre due mi hanno colpito in volto. Una è ancora lì, ferma, irremovibile. La seconda si è infilata sullo zigomo recidendomi il nervo ottico. Da quel momento ho smesso di vedere con l’occhio destro. Ma per fortuna sono vivo. Nella mia famiglia siamo tutti vivi.
Sono arrivato in Germania nel 2015, prima che venisse aperto il corridoio umanitario lungo la rotta balcanica. Non volevo venire in Europa, non ci avevo mai pensato. Sognavo di tornare in Siria non appena la guerra fosse finita. Ma così non è stato. Ci ho messo quattro mesi per arrivare, ho speso circa 4000 euro. I soldi me li ha dati mio fratello ingegnere. Senza quei soldi non sarei mai potuto partire. E senza il GPS non sarei mai arrivato. Eppure la gente ancora oggi chi chiede perché chi si muove ha uno smartphone moderno e tecnologico. Di quale ignoranza si deve soffrire per pensare che in altre parti del pianeta non ci siano cellulari? Ma voi come mi muovete? E se doveste attraversare dei confini senza sapere la strada che cosa usereste?”
Faccio mia la Preghiera del patriarca di Gerusalemme, sperando che le sue parole vengano ascoltate e accolte.
Senza parole. Siamo tutti responsabili....se c'è ne laviamo le mani....complici!
Signore Padre d'amore, ti prego ascolta il grido di dolore di tutte queste anime innocenti che stamno pagando con la…
Una preghiera
Mi è insopportabile la morte di un solo bambino, di una sola donna, di un solo uomo, tanto più se…