La vera catastrofe è la frammentazione del territorio palestinese

Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto in italiano da Beniamino Rocchetto

Attraverso il suo comportamento dopo gli Accordi di Oslo, Israele ha dimostrato ciò che i palestinesi hanno affermato per più di 100 anni: che l’obiettivo del sionismo è quello di espropriarli ed espellerli dalla loro Patria.
Di Amira Hass*
Le frenetiche elezioni che in Israele si svolgono con frequenza “italiana” contrastano con la stabilità della politica israeliana in Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est). Con questo, intendo la politica che, fin dall’inizio dell’occupazione nel 1967, ha suddiviso il territorio palestinese in quante più piccole enclavi possibili, ciascuna circondata e disconnessa l’una dall’altra da quanti più blocchi di insediamenti per soli ebrei possibile. Questi insediamenti si stanno espandendo e sono sempre più collegati a Israele da una rete di strade che viene ampliata continuamente.
La frammentazione del territorio palestinese è la prima e più importante catastrofe annunciata in tutti i piani del governo. Ogni palestinese ne è testimone e lo sperimenta personalmente. Gli israeliani lo ignorano, per ignoranza elettiva, indifferenza e perché ne traggono profitto.
Questa è la madre di tutte le catastrofi, di cui ogni diplomatico dell’Unione Europea o dell’Ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme riceve rapporti regolari. Ma nelle parole dei loro capi ai ministeri degli esteri di queste nazioni, si traduce in luoghi comuni come “sosteniamo il diritto di Israele di difendersi”. Anche il cinismo diplomatico sta crescendo.
I nostri media sono entusiasticamente ossessionati da questioni minori e transitorie come l’ultimo sondaggio elettorale e ripetono fino alla nausea il mantra dei militari e dei coloni sull’intensificazione degli scontri a Jenin. La sua missione più importante è evitare di affrontare ciò che è veramente importante: la pianificata e minuziosa dissezione territoriale che molti israeliani stanno portando avanti con fredda, giuridica e chirurgica efficenza, avvolta in una propaganda astuta e sofisticata e devozione attentamente calcolati. La mutilazione geografica, demografica ed estetica del territorio palestinese avviene in piena luce.
L’israelizzazione sta avanzando. Lussuosi sobborghi immersi nel verde, cartelli a ogni incrocio con annunci per case unifamiliari a prezzi accessibili, nuove rotatorie e centri commerciali che vantano un’atmosfera di vicinato hanno trasformato le comunità palestinesi in uno scenario bidimensionale o le hanno nascoste completamente dietro cancelli di ferro, tangenziali, strade chiuse e segnali israeliani che annunciano che è vietato entrare per gli israeliani. La pianificazione territoriale di Israele dichiara l’insignificanza dei palestinesi e l’inattaccabile superiorità dei residenti delle colonie ebraiche, ora e in futuro.
Qua e là, Haaretz o il sito web +972 Magazine riportano atti di stupro territoriale perpetrati da Israele. Ma due o tre articoli al mese, o anche alla settimana, non ne riflettono la portata, il ritmo e la natura seriale. Per comprendere la distruttività della pianificazione israeliana in questo territorio palestinese e lo scrupoloso lavoro di smantellamento, bisogna continuare a tirare le linee che collegano migliaia (ho detto migliaia? Sono milioni) di punti, i fatti sul campo creati da tutti i i governi israeliani nel corso degli anni.
È iniziato con un ordine militare del 1971 che ha abolito l’autorità di pianificazione delle città palestinesi. Questo ordine rimane valido oggi in circa il 60% della Cisgiordania.
Prosegue con l’esproprio di terreni per scopi militari e il successivo trasferimento agli insediamenti, in violazione del diritto internazionale; vietare la costruzione e lo sviluppo palestinese; strade che consumano l’ambiente; terreni agricoli espropriati (“per uso pubblico”) a beneficio di ogni insediamento isolato; autostrade in stile californiano che collegano gli insediamenti a Israele; nuove strade asfaltate illuminate che collegano il cuore di ogni insediamento con i suoi nuovi quartieri e avamposti, costruiti a diversi chilometri di distanza, e nel processo inghiottono altre riserve di terra e pascoli dei vicini villaggi palestinesi; un divieto di costruzione palestinese vicino a queste strade; e non dimentichiamo la barriera di sicurezza che circonda ogni insediamento.
Continua impedendo per anni ai palestinesi di accedere alle loro terre, con vari pretesti e con vari mezzi; limitando la quantità di acqua assegnata ai palestinesi e le escavazioni per trovare acqua; dichiarando che centinaia di migliaia di chilometri di terra palestinese sono “terra statale”; assegnando queste terre statali esclusivamente agli ebrei; creando zone di tiro dell’esercito per bloccare lo sviluppo rurale naturale dei palestinesi; appropriandosi di terreni tramite documenti di vendita contraffatti; costruendo avamposti che iniziano con case mobili e si trasformano in ville permanenti; bloccando le uscite dai vicini villaggi palestinesi per la sicurezza di questi avamposti; avamposti agricoli che piantano vigneti su terra palestinese apparentemente “abbandonata”; e avamposti di pastorizia, che sono l’ultima novità, finora i più avidi divoratori di terra palestinese.
E si conclude con le decisioni del governo di legalizzare il tutto, così come il muro di separazione, che imprigiona vaste aree di fertile terra palestinese a Ovest. I proprietari di questa terra imprigionata possono ottenere i permessi per accedervi in ​​determinati momenti solo con grande difficoltà, ma qualsiasi israeliano può usufruirne a suo piacimento, e talvolta anche appropriarsene.
Dobbiamo unire i punti. Ogni fatto deve essere collegato a tutti gli altri. Altrimenti, è impossibile capire ciò che succede e le sue implicazioni. Altrimenti, non possiamo vedere l’intero progetto di esproprio.
Possiamo quantificare l’enorme numero di acri occupati dagli avamposti di pastorizia più e più volte. Possiamo calcolare quanti acri sono stati espropriati dalle aree palestinesi, giuridicamente o fattualmente. Si possono descrivere i denti dei bulldozer che sradicano uliveti antichi e recenti. E possiamo misurare quasi al centimetro quanto chiaramente la terra agricola palestinese, con antichi pozzi e sorgenti gorgoglianti, sia stata convertita in un tesoro immobiliare per ebrei o polmoni verdi liberi dagli arabi (tranne che per i lavoratori), o destinati a diventare per soli ebrei.
Ma è necessario collegare tutti questi fatti ancora e ancora per capire come la terra è stata riempita con blocchi di insediamenti: il blocco di Shiloh, i blocchi di Etzion orientale, occidentale e settentrionale, il blocco di Reihan, l’enclave di Latrun, il blocco di Talmonim, il blocco di Ariel, il blocco Rimonim, il blocco composto dalla Città Vecchia di Hebron più Kiryat Arba. A questi si uniranno presto il blocco settentrionale della Valle del Giordano, il blocco Shima nelle colline Sud-occidentali di Hebron e il blocco di Susya nella Cisgiordania Sud-orientale. E la brama di Israele è ancora grande.
Non c’è dubbio che la speranza/piano del Primo Ministro Yitzhak Rabin del 1995 si sia realizzata. Un mese prima di essere assassinato, disse alla Knesset che uno dei fondamenti di qualsiasi accordo sullo status permanente sarebbe stato “stabilire blocchi di insediamenti come Gush Katif, e che fossero stabiliti insediamenti simili anche in Cisgiordania”. Gush Katif, che si trova nella Striscia di Gaza, è stato certamente smantellato. Ma al suo posto, sempre più blocchi di insediamenti e avamposti sono stati e si stanno ancora stabilendo in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, numerosi come i granelli di sabbia su una spiaggia.
Oltre ai resoconti pubblicati sulla stampa palestinese, organizzazioni israeliane come Kerem Navot, Bimkom, Ir Amim, Peace Now, Emek Shaveh, B’Tselem e Yesh Din, così come Arij e l’Istituto di Ricerca Applicata Palestinese di Gerusalemme, forniscono informazioni su tutto questo, avvisi in tempo reale e analisi periodiche approfondite. Tuttavia, chiunque non abbia vissuto questo processo o non lo abbia visto con i propri occhi avrà difficoltà a cogliere la violenza e la distruttività di queste misure di pianificazione.
Avvocati dedicati, sia indipendenti che di organizzazioni come Haqel, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele e Hamoked – Centro per la Difesa della Persona, insieme ad attivisti palestinesi e israeliani di varie organizzazioni cercano di fermare questo stupro seriale, o almeno informare. Ma queste organizzazioni, che sono poche e piccole, sono sempre più perseguitate ed emarginate.
I media di destra e gli organi dei coloni pubblicano spesso rapporti vittoriosi su un altro glorioso successo immobiliare sionista. Gli utenti di questi media sperimentano la distruzione e la frammentazione, e la compressione dei palestinesi nelle enclavi d’insediamento come redenzione della terra, adempimento di un comandamento divino e un balzo in avanti nella loro qualità di vita e conquiste materiali.
La violenza dei coloni e la loro acquisizione della terra palestinese, al di là di quella dei piani generali ufficiali pubblicati, sono parte integrante del sistema. La violenza ha maggiore risalto, perché è una storia con una trama. Tuttavia, nonostante occasionali espressioni di stupore, le forze della “legge” e dell’ordine hanno permesso e continuano a consentire questa violenza sistematica, legittimandola e incoraggiandola.
Tutto si svolge davanti agli occhi dei soldati, che tuttavia si fanno da parte o sparano ai palestinesi che si precipitano in aiuto dei loro fratelli. Le vittime degli attacchi vengono arrestate, gli assalitori ebrei presentano denunce contro le vittime, la polizia o non riesce a individuare eventuali sospetti ebrei o non li interroga, il caso viene archiviato per mancanza di interesse pubblico e l’accusa non sporge denuncia. È quello che succede mese dopo mese, anno dopo anno.
La violenza ebraica che accompagna ogni nuovo avamposto era ed è come l’urina che un cane usa per marcare il suo territorio. Dopo arriva l’esercito, i pianificatori, il Consiglio Regionale degli Insediamenti e gli avvocati. Poi finiscono il lavoro con case mobili, seguite da allacciamenti alla rete idrica ed elettrica, e molto probabilmente rilevando una sorgente e/o impedendo ai palestinesi di accedere ai loro uliveti. I proprietari delle coltivazioni possono andarci solo due volte l’anno, con un coordinamento anticipato e una scorta militare, se i coloni sono così gentili da permetterlo.
Ma questo non è mai un confine definitivo e permanente. Più violenza espande ulteriormente il territorio, anche se solo di pochi acri ogni volta. E in mezzo a ciò, gli appezzamenti destinati ai palestinesi vengono inghiottiti. Più piccoli, più numerosi e più isolati sono da altri appezzamenti simili, meglio è.
Distruggere il territorio va ben oltre “ostacolare la creazione di uno Stato palestinese”. È un abuso deliberato e istituzionalizzato di ciascuno dei cinque milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est) e nella Striscia di Gaza (la separazione della popolazione di Gaza da quella della Cisgiordania fa parte di questa segmentazione territoriale). Questo abuso prende di mira la proprietà e il reddito, la tradizione e la vita familiare, la possibilità di un’istruzione, i legami sociali, la libertà di movimento, ogni possibilità di futuro.
Il furto istituzionalizzato e sofisticato del territorio aggredisce sia il presente che la storia di ogni luogo, città, villaggio e famiglia e danneggia la salute fisica e mentale di ogni palestinese. Il problema con questa spartizione territoriale non è che indebolisce l’Autorità Palestinese, ma che inevitabilmente e intenzionalmente sabota la collettività che vive a Gaza e in Cisgiordania.
Il mondo una volta ha promesso che il diritto all’indipendenza e alla libertà di questo collettivo si sarebbe realizzato. Ha promesso e tradito la sua promessa. Solo l’impressionante radicamento e resistenza dei palestinesi hanno leggermente sconvolto il piano generale israeliano.
Alcune persone criticano il governo uscente (anti-Netanyahu), che è stato in carica nell’ultimo anno, dicendo che è peggio dei suoi predecessori per quanto riguarda la sua politica in Cisgiordania: l’alto numero di palestinesi uccisi dai soldati; gli attacchi perpetrati dai coloni con il beneplacito della polizia, della procura e dell’esercito; i piani per legalizzare gli avamposti; e così via. Questa accusa è sia corretta che errata.
Poiché la frammentazione del territorio palestinese è un processo pianificato e calcolato che abbraccia vari governi, è naturale che ogni sua fase sia più sofisticata e più distruttiva del suo predecessore e oltrepassi una linea che non è stata superata nella fase precedente. Questa è una catastrofe annunciata che sta avvenendo davanti ai nostri occhi e il governo di centrodestra formato da Naftali Bennett, Yair Lapid e Benny Gantz (con l’aiuto di Merav Michaeli e Nitzan Horowitz) non l’ha fermata né intendeva farlo.
Ma è solo un caso che l’attuale governo abbia svolto questo ruolo nel 2022. Nel 2023, l’intensificazione della pianificazione continuerà, perché, disastrosamente per noi, non c’è alcuna possibilità che il mondo si svegli presto ed eserciti una pressione significativa su Israele e gli israeliani per fermarla.
Questa devastazione ed espropriazione non è una nuova invenzione; Israele ha sia competenza che esperienza in questo campo. Ora sta facendo in Cisgiordania quello che ha fatto all’interno dei suoi confini riconosciuti (“la Linea Verde”) fin dal 1948.
All’inizio degli anni ’90, quando fu avviato il processo diplomatico tra Israele e l’OLP, la logica aspettativa, da parte dei palestinesi; il campo di pace israeliano, che una volta esisteva ma non esiste più; e i Paesi che hanno prestato il loro patrocinio al processo di Oslo, era che Israele avrebbe fermato questo processo di spartizione e furto di terre nel 22% della Palestina storica. Ma sotto la copertura dei colloqui di pace, Israele ha effettivamente accelerato questo processo e ha sviluppato una frenesia sempre maggiore per il settore immobiliare.
Ha quindi dimostrato l’accuratezza dell’analisi e delle affermazioni dei palestinesi per più di 100 anni, che l’obiettivo, e l’essenza, del sionismo è la loro espropriazione ed espulsione dalle loro terre e dalla loro Patria.
L’accordo di Oslo è stato formulato in modo abbastanza vago da consentire di perdere tempo in argomentazioni interpretative sulle date, la quantità di territorio da trasferire all’autorità civile palestinese in ogni ridistribuzione militare, il collegamento tra Gaza e la Cisgiordania, il ritorno del Palestinesi sradicati nel 1967, la costruzione negli insediamenti, il diritto all’acqua e l’economia. Dato l’evidente squilibrio di potere, le interpretazioni e gli interessi della parte più forte, Israele, ovviamente hanno avuto la meglio e si sono riflessi nella politica attuativa.
Il periodo transitorio previsto da tale accordo doveva durare cinque anni e terminare nel maggio 1999. Entro tale data,le parti avrebbero dovuto raggiungere un’intesa su un accordo permanente che avrebbe dovuto essere attuato immediatamente.
La dirigenza palestinese e i vertici del Partito Fatah, che guidava l’OLP, così come i pacifisti israeliani e i Paesi arabi e occidentali, hanno tutti concluso che l’accordo permanente si sarebbe basato sulla creazione di uno Stato palestinese indipendente nel territorio occupato da Israele nel 1967, nonostante la forte opposizione a tale Stato da parte dei leader israeliani garanti degli accordi di Oslo, Yitzhak Rabin e Shimon Peres. La convinzione dei negoziatori palestinesi, guidati da Yasser Arafat, che Israele avesse effettivamente deciso di cambiare posizione e smettere di impossessarsi delle terre palestinesi occupate è oggetto di ricerca storica, psicologica e politica.
In cambio di una graduale riduzione dell’occupazione durante il “periodo intermedio”, che doveva concludersi 23 anni fa con il trasferimento della maggior parte della Cisgiordania all’Autorità Palestinese (cioè di quella che l’Accordo di Oslo chiamava Area A), la dirigenza palestinese ha accettato di avviare il coordinamento della sicurezza e la cooperazione con i principali meccanismi dell’occupazione: il servizio di sicurezza Shin Bet e l’esercito. Ha accettato di agire contro i membri del suo stesso popolo che hanno usato o sostenuto l’uso delle armi per opporsi all’accordo con Israele. Le ragioni addotte erano che solo l’Autorità Palestinese aveva il diritto di portare armi e che il coordinamento della sicurezza era essenziale per il successo della fase provvisoria di cinque anni, e quindi per l’istituzione dello Stato palestinese.
Sono passati quasi 30 anni da allora e la promessa incarnata dall’Accordo di Oslo, che i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania sarebbero stati liberati dall’occupazione israeliana, non è stata mantenuta. Tuttavia, Israele chiede che il Presidente palestinese Mahmoud Abbas e i servizi di sicurezza palestinesi continuino a proteggere l’occupazione: i coloni e l’esercito. E Abbas e i servizi di sicurezza obbediscono. Questo comportamento ha raggiunto il culmine due settimane fa, quando, sotto la pressione dell’apparato di sicurezza israeliano, i servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese hanno agito come un esercito di occupazione e hanno arrestato a Nablus un palestinese sospettato di aver sparato a obiettivi militari israeliani e coloni.
Quale vantaggio o significato ci siano in accordi che non fanno nulla per fermare la macchina israeliana di distruzione e spossessamento e lasciare decine di migliaia di palestinesi preda della violenza dei coloni è una domanda per un altro articolo. Ma l’assurdità è chiara. L’esercito israeliano e lo Shin Bet hanno un subappaltatore palestinese. Continuano a chiedere che mantenga la sua parte di un accordo scaduto molto tempo fa mentre Israele, fin dal primo momento, ha violato ogni rispetto dei diritti dei palestinesi, che si tratti dei diritti umani o dei loro diritti come popolo. Per quanto tempo gli alti funzionari di Fatah e i servizi di sicurezza palestinesi continueranno a collaborare con questa espropriazione e umiliazione israeliana? Solo il tempo lo dirà.
*Amira Hass è corrispondente di Haaretz per i territori occupati. Nata a Gerusalemme nel 1956, Amira Hass è entrata a far parte di Haaretz nel 1989, e ricopre la sua posizione attuale dal 1993. In qualità di corrispondente per i territori, ha vissuto tre anni a Gaza, esperienza che ha ispirato il suo acclamato libro “Bere il mare di Gaza”. Dal 1997 vive nella città di Ramallah in Cisgiordania. Amira Hass è anche autrice di altri due libri, entrambi i quali sono raccolte dei suoi articoli.

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