Le lenti della pace sull’economia di guerra

Articolo pubblicato originariamente sul Manifesto

Di Antonio De Lellis

Giovani lavoratori palestinesi al lavoro in un’azienda agricola israeliana nei pressi di Gerico, in Cisgiordania. (foto Yaniv Nadav/Flash90)

Che cos’è una economia di pace in un mondo abitato da economie di guerra?
Insieme a Clara Capelli, economista dello sviluppo esperta di Medio Oriente e
Nord Africa, e insegnante presso l’università di Betlemme, ho provato ad
integrare ciò che credo debba essere sempre più il centro degli interessi dei
movimenti sociali. Studiare una economia di guerra ci può aiutare a
comprendere meglio cosa non deve essere una economia di pace. Dal 1967 i
sistemi economici israeliano e palestinese si sono legati e intersecati, ma in un
rapporto di dipendenza e subordinazione dell’economia palestinese a quella
israeliana.

In primo luogo, a beneficiare dei miglioramenti di produttività sono state le
attività israeliane, mentre i palestinesi sono stati mercato di sbocco di beni,
servizi e forza lavoro a basso costo.
Questa asimmetria strutturale è stata ‘istituzionalizzata’ e approfondita con gli
Accordi di Oslo, i quali, non ribilanciando i rapporti di potere, hanno contribuito
a consolidare un’economia di guerra. Un annesso agli Accordi di Oslo, il
Protocollo di Parigi, sancisce fra le varie cose:

a) rigidi vincoli commerciali per la Palestina (es. controllo dei confini e dei porti
d’ingresso delle merci, limitazioni sulle caratteristiche dei beni importabili ed
esportabili, applicazione dei dazi doganali israeliani);
b) azzoppamento della politica fiscale (due terzi delle entrate fiscali dell’Autorità
palestinese provengono da dazi e Iva sulle importazioni, che sono raccolti e
trasferiti da Israele e possono essere trattenuti a ogni occasione di screzio
politico);
c) assenza della politica monetaria (la Palestina utilizza lo shekel israeliano).
Molto si potrebbe dire anche di Gaza, sotto blocco terrestre, marittimo e aereo
dal 2007. Questa subordinazione si traduce in un sottosviluppo strutturale
dell’economia palestinese (alcuni autori parlano di de-sviluppo, senza contare
come confische e acquisizioni forzate di terre e risorse generino una
stagnazione/recessione cronica della Palestina) e quindi di dipendenza.

Le dipendenze sono:
a) da importazioni, perché molti beni provengono da Israele;
b) di capitali, perché per molti esponenti del settore privato palestinese è piùremunerativo prendere commesse e assecondare delocalizzazioni da parte delle
imprese israeliane;
c) di lavoro, dato che oltre 200.000 palestinesi lavorano in Israele e negli
insediamenti israeliani. Per altro, il rapporto fra Pil pro capite israeliano e Pil
pro capite palestinese é il più diseguale fra economie confinanti al mondo, molto
più elevato rispetto a Stati uniti-Messico e Germania-Polonia.

Questa subordinazione crea delle gerarchie di ingiustizia e disuguaglianza feroci
all’interno delle due società. Nel caso di Israele, la forza lavoro palestinese, e per
certi versi anche la forza lavoro dei palestinesi con cittadinanza israeliana, si
trova a competere con quella israeliana; nel caso palestinese, si creano situazioni
tipiche dell’economia di guerra con stratificazioni di privilegi e situazioni in cui
caporali e imprenditori palestinesi finiscono per approfondire lo sfruttamento
dei loro connazionali per denaro e altri favori.
Una economia di pace nonviolenta è una economia in cui gli stati o gli organismi
sovranazionali non sono subordinati fra loro, non asimmetrici soprattutto negli
scambi commerciali e indipendenti tra loro in quanto a beni e servizi essenziali.
Dovremmo sempre più convincerci che al momento la prima e più urgente cosa
da fare sia (ri-)trovare le lenti della pace per leggere ciò che accade ogni giorno
su questa terra.

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