Morire una mattina a Jenin

Articolo pubblicato originariamente da Invisiblearabs

Di Paola Caridi 11 Maggio 2022

“Per me Jenin non è una storia effimera nella mia carriera o persino nella mia vita personale. È la città che può sollevarmi il morale e aiutarmi a volare. Incarna lo spirito palestinese che talvolta trema e crolla e poi, oltre ogni immaginazione, si rialza per seguire le sue traiettorie e i suoi sogni”.

Shireen Abu Aqleh, This Week in Palestine, ottobre 2021

Cento chilometri. Appena cento chilometri separano Jenin da Gerusalemme. Jenin, in cui stamattina presto è stata uccisa con un colpo alla testa Shireen Abu Aqleh, la più nota giornalista televisiva palestinese, e Gerusalemme, la città in cui era nata, per la precisione nel quartiere di Beit Hanina, a est della linea verde, molto vicino a Ramallah. Eppure, per lei era proprio Jenin, in cui ha perso la vita, la città che aveva segnato la sua carriera professionale come il volto e la voce delle notizie sulla Palestina che, attraverso Al Jazeera, sono arrivate nell’ultimo quarto di secolo al pubblico arabo.

Per chi conosce la terra piccola e martoriata in cui si trovano, Jenin e Gerusalemme sono divise da una distanza siderale. È lo spazio che le separa a essere difficilmente comprensibile, per chi non ha mai visitato Israele/Palestina. I cento chilometri in linea d’aria sono, infatti, costellati dai frammenti diversi che costituiscono la Cisgiordania occupata: cittadine palestinesi, colonie israeliane illegali per il diritto internazionale, strade per i coloni, strade per i palestinesi, campi profughi, e una infinità di check-point.

Mondi a parte, nel quotidiano, uniti però dall’ultima ondata di violenze che – soprattutto nelle più recenti settimane – ha segnato la vita e la narrazione su Israele/Palestina. L’uccisione di Shireen Abu Aqleh, che indossava il giubbotto antiproiettile con la scritta “Press” e l’elmetto, durante un raid dell’esercito israeliano ha infatti solo portato tragicamente sotto i riflettori quello che già succede da mesi in un posto lontano, troppo lontano e invisibile per i nostri notiziari.

Cos’è successo, in questi mesi? Per fare anche una semplice cronistoria, occorre definire un punto, nell’arco temporale, che sappiamo essere del tutto arbitrario e tuttavia necessario. Il punto scelto cade nel settembre del 2021. Esattamente il 6 settembre del 2021, alla vigilia delle grandi festività ebraiche che, ogni anno, segnano la fine dell’estate e l’autunno.

È allora che Israele viene scossa da una notizia inquietante: una notizia che rompe, nell’immaginario del paese, il mito dell’essere protetti dal proprio sistema militare e di polizia. Una fuga dal carcere di massima sicurezza di Gilboa, in cui sono detenuti prigionieri con accuse di terrorismo e pene pesantissime, molte sono pene all’ergastolo. Sei detenuti palestinesi, tra cui uno dei nomi più noti delle fazioni armate, Zakaria Zubeidi, scavano addirittura un tunnel che parte dal pavimento della loro cella e arriva al di là del possente muro di recinzione. Tra gli strumenti usati per scavare, cucchiai di metallo e cocacola per intaccare la durezza del cemento.

Dopo i primi momenti di sconcerto e le immancabili polemiche sulle falle della sicurezza, parte la caccia all’uomo che, nel giro di due settimane, riporta in carcere tutti e sei i fuggitivi. Cinque di loro appartenenti al Jihad islamico, mentre Zubeidi è considerato il nome di punta delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, la fazione armata di Fatah, spesso, se non sempre, in contrasto con l’ala politica.

Cos’hanno in comune i sei protagonisti della fuga da Gilboa? Un luogo, una città, un’area. E un ruolo all’interno della storia recente palestinese. Sono tutti di Jenin. Cisgiordania settentrionale, poche decine di chilometri di distanza dal Muro di separazione che percorre da nord a sud il Territorio palestinese occupato. Dall’altra parte c’è Israele. E anche il carcere di Gilboa. Non è un caso che in uno dei suoi ultimi scritti, affidato a un piccolo ma diffuso settimanale in inglese, This week in Palestine, Shireen Abu Aqleh sottolinea che lei, a Jenin, ci era tornata dopo vent’anni proprio per seguire la vicenda della ‘fuga da Gilboa’.

Jenin non è un luogo qualsiasi. Per l’opinione pubblica palestinese è uno dei centri della resistenza. Per Israele una delle zone più difficili da controllare. Vent’anni fa, proprio di primavera, Jenin fu un vero e proprio campo di battaglia durante l’operazione Defensive Shield, decisa da Israele come reazione ai sanguinosi attentati suicidi nelle città israeliane in cui morirono decine di civili. Tra gli ufficiali israeliani che nel 2002 sono protagonisti di un’operazione che diventa, subito, anche un profondo danno d’immagine delle forze armate a livello internazionale, c’era anche il colonnello Aviv Kochavi, ora capo di stato maggiore e colui che ha organizzato, nel modo in cui l’abbiamo vista dispiegarsi, la guerra su Gaza del maggio-giugno 2021.

Vent’anni fa il campo profughi viene sostanzialmente distrutto. Jenin e Nablus diventano il simbolo di una operazione militare che per le organizzazioni di difesa dei diritti umani (tutte: internazionali, israeliane, palestinesi) è sinonimo di diritti violati, uccisioni di civili, punizione collettiva. Per Amnesty International, il bilancio di Defensive Shield attraverso il quale Israele ri-occupa tutta la Cisgiordania, comprese le aree urbane che erano sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, parla tra la fine di febbraio e giugno 2002 di circa 500 palestinese uccisi, di cui 70 bambini. Ottomila arresti. Più di tremila case distrutte. È la seconda intifada, è il tempo degli attentati suicidi: nello stesso periodo vengono uccisi 250 israeliani, di cui 164 civili, tra questi 32 bambini.

Quel tempo è finito, ma quello che sta succedendo in questi mesi accade in un posto che ha vissuto la seconda intifada in quel modo. E che non è uscito indenne, né da quella stagione né dalla crescita pervasiva e sempre più veloce delle colonie israeliane nell’area. Dal settembre scorso, la presenza delle forze armate israeliane nella Cisgiordania settentrionale è aumentata. Certo per rispondere alla falla della prigione di Gilboa, ma non solo. La tensione tra i coloni israeliani e gli abitanti palestinesi ha raggiunto punte altissime. I palestinesi, ma anche settori della sinistra israeliana, accusano le forze armate israeliane d’occupazione presenti in Cisgiordania di sostenere i coloni.  Fungono da supporto  nella sicurezza degli insediamenti illegali, e anche dei piccoli avamposti radicali che nascono in pochi giorni e poi altrettanto rapidamente crescono. Le denunce delle organizzazioni internazionali e di quelle palestinesi e israeliane, da questo punto di vista, sono continue, da anni. Soprattutto quando si concentra l’attenzione sulla Cisgiordania settentrionale e sui due poli urbani più importanti, Nablus e – appunto – Jenin, attorno ai quali Israele ha fatto sorgere una rete di colonie e di insediamenti che rendono impossibile la vita, l’economia, la sicurezza della popolazione palestinese.

Nell’ultimo anno e mezzo, le unità speciali israeliane hanno condotto frequentemente raid contro sospetti appartenenti alle fazioni armate palestinesi: il risultato non è stato solo un numero altissimo di arresti, ma anche un aumento esponenziale delle vittime. Le cifre fornite dall’Ufficio dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari nel Territorio Palestinese occupato (Ocha Opt), tra l’inizio del 2021 e maggio 2022 ci sono stati, solo in Cisgiordania e a Gerusalemme est, circa 120 uccisi e oltre ventimila feriti dai militari israeliani o dai coloni israeliani. Sono comprese anche le esecuzioni extragiudiziali condotte dalle unità speciali israeliane, come quelle in pieno giorno a Nablus in cui sono stati uccisi lo scorso 8 febbraio tre sospetti appartenenti alle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, perché ritenuti responsabili degli attacchi contro militari e coloni israeliani in Cisgiordania.

L’obiettivo di fondo è sempre stato chiaro: occorre controllare un territorio come Jenin e il suo campo profughi, perché neanche l’Autorità Nazionale Palestinese riesce a entrarvi e imporre la sua autorità. E l’accordo di collaborazione tra le forze di sicurezza dell’ANP e l’apparato militare israeliano è sempre in vigore, come ribadito dalla visita recente che il presidente Mahmoud Abbas ha fatto al ministro della difesa israeliano Benny Gantz, in tempi in cui qualsiasi abboccamento sul piano politico è congelato.

I raid, le operazioni militari israeliani a Jenin e soprattutto nel campo profughi della città palestinese, sono state sempre più frequenti negli scorsi mesi, prima che cominciasse l’ondata di uccisioni di civili nel cuore delle città israeliane a opera di palestinesi. Da marzo, però, la situazione è ulteriormente cambiata: la serie di attentati nelle città israeliane ha scosso un paese che, almeno nelle aree urbane, pensava di aver voltato pagina e di non dover più affrontare le azioni terroristiche di vent’anni fa. Anche in questo caso, comunque, le dinamiche sono diverse. Non più attentati suicidi, ma azioni che sembrano all’apparenza – solo all’apparenza – quelle di lupi solitari. Chi le commette è molto giovane, talvolta appena ventenni, armati di coltelli o asce o, più raramente, armi da fuoco. Colpiscono in città diverse, da nord a sud, a Beersheva, Hadera, Bnei Brak, Tel Aviv, El’ad, e anche la colonia di Ariel, in cui in totale sono state uccise 19 persone e ferite oltre venti.

Gli attentatori venivano in massima parte proprio da Jenin. Alcuni appartenevano al Jihad islamico, segnalando una maggiore presenza dell’altro movimento islamista palestinese, più piccolo rispetto a Hamas. La reazione militare israeliana si è innestata su una presenza a Jenin e nella Cisgiordania settentrionale già rafforzata, trasformando i raid – come quello in cui è stata uccisa Shireen Abu Aqleh – pratica quotidiana, tra arresti, demolizioni, e anche scontri.

Shireen Abu Aqleh non è la prima giornalista a essere uccisa nel Territorio Palestinese Occupato. È però il suo peso specifico nell’informazione araba a segnare la differenza. Da quasi un quarto di secolo era il volto e la voce delle notizie sulla Palestina, per tutto il pubblico arabo. Non solo perché era la corrispondente di Al Jazeera, ma perché lo era stata in anni nei quali l’informazione nazionale, nei singoli Stati arabi, era imbrigliata nelle maglie della tv di stato. A cavallo dei due millenni, Shireen Abu Aqleh ha inaugurato la stagione delle giornaliste sui teatri di guerra e di crisi, lei palestinese raccontava la questione israelo-palestinese, la seconda intifada, l’occupazione, Gerusalemme a generazioni che si sono formate sui suoi reportage, trasformandola in una icona del giornalismo sul campo. L’indignazione va dunque ben oltre la Palestina, si irraggia in tutta la regione. Ne tasteremo lo spessore nei giorni a venire.

Il ritratto è di Gianluca Costantini, @channeldraw, per gentile e generosa concessione. Grazie!

 

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