No, l’apartheid di Israele non si ferma alla Linea Verde

Articolo pubblicato originariamente su +972 Magazine e tradotto dall’inglese dalla redazione di Bocche Scucite

Una vista del Muro di separazione israeliano e del complesso di Al-Aqsa a Gerusalemme, 2 febbraio 2020. (Olivier Fitoussi/Flash90)

La caduta del governo Bennett dimostra che il mantenimento della supremazia ebraica prevale su ogni altra considerazione nella politica israeliana.
Nell’ultimo anno e mezzo, gruppi internazionali e israeliani per i diritti umani hanno pubblicato diversi rapporti profondamente documentati che concludono che il regime israeliano dal fiume al mare equivale a un sistema di apartheid basato sulla supremazia ebraica – come i gruppi palestinesi e altri sostengono da tempo.

Questi rapporti, ovviamente, hanno provocato una forte reazione da parte dei leader israeliani, che si sono affrettati a etichettarli come antisemiti. Ma le critiche ai rapporti sono arrivate anche da segmenti della sinistra israeliana che vedono l’apartheid solo nella Cisgiordania occupata, dove Israele ha costruito sistemi legali separati per coloni e palestinesi. In Israele, sostengono, la situazione è fondamentalmente diversa.

Secondo loro, se Israele attua politiche discriminatorie e spesso razziste nei confronti dei cittadini palestinesi, ciò non è fondamentalmente diverso dal modo in cui altri Stati nazionali discriminano i gruppi minoritari. Questa posizione si riflette, ad esempio, in un rapporto pubblicato l’anno scorso dal gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din, che ha enumerato i molteplici modi in cui il crimine di apartheid viene perpetrato rigorosamente al di là della Linea Verde.

Quasi per ironia della sorte, sembra che l’Israele ufficiale sia quello che ha finalmente risolto la disputa tra questi due approcci nelle ultime settimane, con lo scioglimento del governo e l’inizio di un quinto ciclo elettorale in meno di quattro anni.

Nella sua decisione di sciogliere il governo per salvare le sue politiche di apartheid nei territori occupati, Naftali Bennett ha chiaramente illustrato sia che il regime di apartheid di Israele si estende su entrambi i lati della Linea Verde, sia che la logica della supremazia ebraica è la base su cui questo regime è stato costruito. In altre parole, l’Israele “ebraico e democratico” è completamente asservito al mantenimento dell’apartheid: questo è l’obiettivo primario del governo, che prevale su qualsiasi altra considerazione relativa agli interessi dei cittadini che vivono all’interno dei confini sovrani dello Stato.

Ma c’è anche un altro modo in cui la farsa politica in cui ci troviamo attualmente mina la posizione secondo cui l’apartheid è limitata a una sola parte di questa terra. I sostenitori di questa posizione indicano costantemente sia lo status di cittadini palestinesi di Israele sia il fatto che nell’ultimo anno un partito arabo sia entrato nel governo come prova di una reale partnership politica tra ebrei e arabi che annulla la pretesa di apartheid, almeno all’interno della Linea Verde.

Ma piuttosto che chiedersi se questa cosiddetta partnership sia riuscita, sarebbe prudente chiedersi come intendiamo il termine e se una vera partnership sia possibile in un regime suprematista.

Che cosa significa partenariato?

Il partenariato, nella sua accezione più elementare, è la capacità di tutte le parti al tavolo di partecipare in egual misura alla definizione delle regole del gioco. Questo è qualcosa che il regime sionista non ha mai offerto ai suoi cittadini arabi – nemmeno al partito Ra’am della coalizione di Bennett, al quale è stata data la possibilità di ottenere alcuni diritti fondamentali ed evidenti per i suoi elettori.

I palestinesi con cittadinanza israeliana partono da una posizione politica, economica e sociale intrinsecamente inferiore, ed è da questa posizione che contrattano i loro diritti civili in cambio della rinuncia alla loro identità nazionale, alla lotta contro l’oppressione del loro popolo e a qualsiasi aspirazione di giustizia e vera liberazione. Questo non è un partenariato, al massimo è un ricatto politico.

D’altro canto, l’opinione pubblica araba in Israele ha rivolto agli ebrei israeliani un invito di lunga data a un vero partenariato sotto forma di uno Stato per tutti i cittadini, che è stato ripetutamente accolto con indifferenza e noncuranza nel migliore dei casi, ed etichettato come estremo e pericoloso nel peggiore.

La visione di uno Stato per tutti i cittadini, avanzata dal partito Balad negli anni ’90, è un invito coraggioso a una vera partnership in cui sia gli ebrei israeliani che i palestinesi vedano riconosciuti i loro diritti individuali e collettivi e abbiano pari opportunità di plasmare l’identità di questo Paese. Anche il leader della Lista comune Ayman Odeh, che proviene dal partito socialista Hadash, offre all’opinione pubblica ebraica una vera forma di partenariato. Ma come Balad, Odeh è stato denunciato come estremista e traditore non appena l’opinione pubblica ebraica si è resa conto che non aveva intenzione di rinunciare alla sua identità di palestinese, né di accettare le regole del gioco, secondo le quali deve rimanere in silenzio mentre il regime opprime il suo popolo su entrambi i lati della Linea Verde.

I quattro documenti di visione pubblicati dai principali organismi della società civile palestinese in Israele tra il 2006 e il 2007 sono stati un altro chiaro appello per un partenariato che richiedeva ai cittadini arabi il diritto di partecipare alla formulazione delle regole del gioco nella loro patria, piuttosto che contrattare le briciole. È difficile sopravvalutare l’importanza di questi documenti, che avrebbero potuto costituire la base per un dialogo diverso, egualitario e democratico tra i cittadini arabi ed ebrei del Paese. Non sorprende che, come le proposte di Balad e Ayman Odeh, siano state accolte dalla quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica ebraica e dei suoi rappresentanti politici.

Oggi, ogni singolo cittadino israeliano, sia di destra che di sinistra, comprende la profondità del collasso del sistema politico israeliano. Per sradicare questo marciume patologico, dobbiamo innanzitutto riconoscere che tra il fiume e il mare c’è un unico regime di apartheid, che ha avuto origine e continua a essere sostenuto dalla menzogna di uno Stato “ebraico e democratico” all’interno della Linea Verde. All’interno di questi confini, Israele ha offerto ai suoi cittadini palestinesi solo un potere di contrattazione sul grado di oppressione.

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