Reportage. L’agonia della Cisgiordania, soffocata dalle barriere

Articolo pubblicato originariamente su Avvenire

Di Lucia Capuzzi 

Una famiglia tra le macerie di una casa di Jenin distrutta nell’ultima incursione israeliana

Con i permessi di lavoro a Israele ancora congelati e 600 blocchi che frenano la circolazione interna, la disoccupazione è schizzata al 30% e l’economia si è contratta di un terzo

Nilin sembra addormentato. Circondato dagli uliveti, questo villaggio incastonato tra Ramallah e al-Bireh è una sfilza di serrande abbassate. È chiuso l’emporio con le insegne in ebraico e in arabo, chiuso il ferramenta, chiusa l’autorimessa. È un sonno agitato, però, quello di Nilin. Perché i 6.400 abitanti si sentono intrappolati nella comunità svuotata della propria quotidianità. Oltre il 30 per cento di loro, ogni mattina, era solito attraversare il check-point vicino, lasciarsi la Cisgiordania alle spalle ed entrare ad Israele dove era impiegato, soprattutto nel settore delle costruzioni. Poi il 7 ottobre si è abbattuto sul Sud dello Stato ebraico ed è rimbalzato sui Territori. Dal giorno dopo il massacro perpetrato da Hamas, Tel Aviv ha congelato i permessi per i circa 200mila lavoratori palestinesi in servizio nel Paese vicino. Solo i 5mila assunti in settori chiave – come ospedali, fabbriche alimentari e per le uniformi militari – hanno ottenuto una deroga. Per gli altri, 145 giorni dopo, le autorizzazioni sono ancora sospese.

Il posto di controllo di Nilin è sbarrato come gli altri 399 che operano lungo il confine. Blocchi di cemento ostruiscono molte delle vie intorno in modo da garantire la sicurezza degli insediamenti dei coloni che, spesso, prima della guerra, erano solito recarsi nei negozi di Nilin i cui costi erano molto più bassi di quelli israeliani. Ora non è più così: i pochi aperti hanno dovuto quasi raddoppiare i prezzi. Nel frattempo, il Pil cisgiordano si è contratto di un quinto nell’ultimo quadrimestre del 2023. Nei successivi due mesi si è ridotto ulteriormente, per un totale di oltre un terzo dell’economia andato in fumo secondo i dati dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Le disoccupazione è schizzata dal 13 al 30 per cento; le perdite giornaliere sfiorano i 25 milioni di dollari. A Nilin addirittura è collassato il 40 per cento. Con i mancati introiti dei palestinesi che hanno perso il lavoro a Israele – circa 5,5 miliardi l’anno –, ovunque la domanda interna è colata a picco.

A questo si somma lo stop di oltre quattro mesi ai trasferimenti delle tasse riscosse da Tel Aviv per l’Anp – un miliardo al mese che rappresentano i due terzi delle entrate di quest’ultima –, bloccandone di fatto la macchina amministrativa. L’esecutivo ha accumulato debiti con gli ospedali privati e i fornitori dei servizi di base per oltre 600 milioni di euro. Perfino pagare gli stipendi dei propri 143mila impiegati è diventato un problema. Il salario di ottobre è saltato, quello di novembre è stato dimezzato, a dicembre e gennaio hanno ricevuto il 60 per cento. Una catastrofe per una popolazione il cui reddito pro-capite sfiora i 4.500 dollari l’anno secondo la Banca mondiale. Solo all’inizio di febbraio, grazie alla mediazione degli Stati Uniti e alla triangolazione della Norvegia, il flusso ha cominciato a ripartire. Due giorni fa, a margine del G20, la segretaria del Tesoro, Janet Yellen, ha espresso soddisfazione per la scelta israeliana. Ma ha anche chiesto al premier Benjamin Netanyahu di riattivare l’economia dei Territori mediante il ripristino dei permessi di lavoro dei palestinesi e la riduzione delle barriere commerciali. Non solo con Israele. Pure all’interno della Cisgiordania muoversi ­– per persone e merci – è diventata una sfida. Le oltre 600 barriere interne istituite dal 7 ottobre strangolano i tre principali motori economici: Ramallah, Nablus e Hebron.

Finora, però, Tel Aviv nicchia. L’ultradestra, rappresentata dal ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha impedito ogni ammorbidimento. Sotto traccia, però, qualcosa si muove. C’è allo studio un progetto per consentire l’entrata a Israele di addetti palestinesi di più di 45 anni. Ottomila di loro, in realtà, sono già rientrati in servizio negli insediamenti su pressione dei coloni che dipendono dal loro lavoro. Retorica a parte, anche per l’economia israeliana, l’assenza dei palestinesi rappresenta un duro colpo. In base ai dati del ministero delle Finanze, le perdite ammontano a 830 milioni di dollari al mese. L’edilizia pubblica è semi-paralizzata: la metà dei cantieri è ferma. Il business è, però, solo una parte della questione. Come ha sottolineato Yellen, il collasso della Cisgiordania è una questione di sicurezza per Israele.

Le immagini di Gaza in macerie e il blocco economico alimentano la rabbia. Dall’inizio del conflitto, Hamas ha più che triplicato i consensi, soprattutto fra i giovani, passando dal 12 al 42 per cento. Finora, la risposta di Israele è stata militare, con operazioni notturne quotidiane nei Territori a caccia di potenziali fiancheggiatori. Dal 7 ottobre, secondo la Società dei prigionieri palestinesi, i fermano sono oltre 7.300, gli ultimi 35 nella notte tra martedì e ieri. Le vittime nei raid sono almeno 410. Lungi dall’eliminare la minaccia, i blitz infiammano ulteriormente l’ira palestinese. Gli esperti avvertono: la Cisgiordania è una pentola a pressione.

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