Una mattina 50 israeliani, 15 dei quali minori, sono diventati senzatetto

Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto

Le autorità israeliane radono al suolo le case nella città di Arara, nel Negev, dove una famiglia beduina vive da generazioni.

Di Gideon Levy e Alex Levac

Ciò che è stato fatto a noi non è stato fatto a nessun altro, dichiara Odeh Alghol. È stata la totale cancellazione di tutto ciò che avevamo, aggiunge Hussein Alghol. Disteso silenziosamente lì vicino, sul pavimento della tenda che hanno eretto questa settimana, nello sguardo di Salman Alghol si legge la disperazione.

Questi uomini rappresentano tre generazioni di un’allargata famiglia beduina che vive ai margini della città di Arara an-Naqab (Arara nel Negev). La città è stata costruita nel 1981 per le persone che erano state espulse dalle loro case nella vicina Tel Malhata in seguito alla firma del trattato di pace con l’Egitto e all’istituzione della base aerea di Nevatim sulla loro terra.

Ma la famiglia Alghol era qui anche prima. Vivevano su questa terra, che ora si trova all’interno della cosiddetta Linea Blu che segna i confini giurisdizionali di Arara, molto prima che la città fosse costruita.

Odeh, 62 anni, è nato qui, in questo luogo, così come i suoi genitori e i suoi nonni. Ma è finita la scorsa settimana. Le ruspe hanno raso al suolo tutte le loro abitazioni, le tende, le baracche di lamiera, i magazzini, i ricoveri degli animali e i pollai, senza lasciare nulla. Un intero villaggio è stato raso al suolo. Solo gli alberi sono rimasti in piedi: “Questa volta hanno risparmiato gli alberi”, dice Hussein, e ora sono l’unica prova dei molti anni che la famiglia allargata ha vissuto qui. Almeno uno degli alberi è molto grande. Alle consuete immagini di demolizioni nei Territori Occupati, si è ora aggiunta la sua immagine cruda, che riflette una devastazione più grande del solito nei dintorni.

Hussein paragona la scena alle conseguenze di un terremoto, non naturale ma provocato dall’uomo. “Israele ha inviato una missione di soccorso e salvataggio al terremoto in Turchia, che ha mostrato il lato migliore del Paese. Ma da noi mandano una forza di polizia che avrebbe potuto invadere Jenin, con cinque ruspe che hanno demolito tutto”.

Complessivamente, 12 case di pietra, quattro grandi ricoveri per animali e varie tende e capanne per l’ombra o lo stoccaggio sono stati ora ridotti a cumuli di macerie e di terra. Non rimane nulla, e lo spettacolo è davvero desolante. Una delle tende donate dai gruppi umanitari e dal consiglio locale è stata rapidamente montata per un membro della famiglia che è mentalmente disabile, così almeno non dovrà rimanere alle intemperie.

Un’altra tenda donata è stata eretta per una delle due mogli di Odeh, che è malata. Tutti gli altri sono stati lasciati a se stessi all’addiaccio. Il nipote di Odeh è stato ucciso durante il servizio militare nella Striscia di Gaza negli anni ’90. Il Maggiore Generale Matan Vilnai delle Forze di Difesa Israeliane ha partecipato al funerale, ricorda Odeh, per dimostrare che sono veri israeliani. Ma sono beduini: nella loro città di notte si spara per le strade e durante il giorno le loro case vengono demolite. Altri israeliani non ricevono un tale trattamento, dice. Nemmeno i coloni illegali.

L’ingresso ad Arara è ben curato e accogliente, c’è anche una fontana. Un giro per le strade mostra lo slancio dello sviluppo, un preludio alla costruzione di un nuovo quartiere completamente ripianificato. Una rete di strade è già in atto, con traverse e rotatorie che portano al quartiere 10, come viene chiamato per ora. Dall’ultima rotonda della città, le strade si diramano in tutte le direzioni, tranne una: verso il complesso della famiglia Alghol.

La scorsa settimana è stata decisa una battaglia legale durata anni con la totale distruzione operata per ordine dell’Autorità per lo Sviluppo e l’Insediamento dei Beduini nel Negev. Il consiglio locale di Arara non è stato nemmeno informato sul piano. Il suo vice capo, Ali Abu Jawiid, ci ha detto questa settimana durante la nostra visita che la sua posizione rispetto all’atto di demolizione è chiara. È stato fatto unilateralmente, senza informare il governo della città, e intendono presentare un ricorso all’Alta Corte di Giustizia per garantire la regolarizzazione e la legalizzazione dei diritti alla terra per tutti i residenti all’interno della Linea Blu di Arara, compresa la famiglia Alghol.

Hussein Alghol, 56 anni, ha due lauree accademiche conseguite presso l’Università Ben-Gurion di Be’er Sheva; in passato ha insegnato storia islamica all’Università Open. Attualmente vive in un altro quartiere di Arara al-Naqab, anch’esso minacciato, ma ora è determinato ad aiutare suo zio Odeh e gli altri suoi parenti a sensibilizzare e spiegare la loro situazione alle autorità israeliane. Sugli scaffali della casa di Hussein questa settimana abbiamo visto libri di eminenti scrittori come Fyodor Dostoevskij, Amos Oz, Bernard Lewis, Emmanuel Sivan, Meron Benvenisti, Motti Golani, Gabriel Garcia Marques. Micah Goodman, Ernest Hemingway, Tom Segev e Yuval Noah Harari, insieme a numerosi volumi sulla religione. Parla un ottimo ebraico.

Hussein è nato e cresciuto ad Arara. Lo zio Odeh, ora in pensione, era un operatore di attrezzature meccaniche pesanti che ha lavorato per anni nel settore dei trasporti per aziende di Be’er Sheva, tra cui la società Harish, Olitsky Infrastructure e altre, finché non si è ammalato e si è ritirato. È il padre di 20 figli avuti da due mogli che vivevano alle due estremità del complesso ormai distrutto.

La famiglia afferma che le autorità vogliono trasferirli con la forza, sradicare il loro stile di vita rurale e agricolo di generazioni e ammassarli in piccoli appezzamenti di terra che sono stati offerti loro nel quartiere 8 di Arara. Ma oltre ad essere insufficiente in termini di dimensioni, la proprietà che gli è stata offerta è anche al centro di una controversia legale ancora irrisolta, quindi non hanno intenzione di trasferirsi lì. Il fatto è, dicono, che il terreno in questione rimane vuoto perché nessuno è disposto a trasferirsi in un sito così problematico.

“Perché non ci è permesso vivere come fanno gli ebrei? Perché solo agli ebrei è permesso stabilire insediamenti e fattorie unifamiliari, che coprono decine di migliaia di dunam nel Negev?” chiede Hussein. “Perché non ci è permesso continuare il nostro stile di vita? Cosa farà la nostra gente con le loro greggi di pecore in un lotto di mezzo dunam (un ottavo di acro) nel quartiere 8?”

Le prime strutture in pietra furono costruite dalla famiglia nel 1985, e fino a quattro anni fa i nuovi edifici aggiunti venivano spesso demoliti. La famiglia ha rivendicato la proprietà del terreno dagli anni ’70 ma non dispone di permessi di costruzione formali. Nel 2019, le autorità hanno iniziato a incollare ordini di demolizione su tutte le case del quartiere, che erano destinati a “persone sconosciute”.

“Non hanno nemmeno fatto uno sforzo per scoprire i nomi, siamo invisibili”, dice ora Hussein.

Dopo una lunga lotta, il 15 febbraio il Tribunale del Magistrato ha stabilito che tutti gli edifici del sito dovevano essere demoliti. Quando i residenti sono sfuggiti a un ricorso d’urgenza, è stata emessa in piena notte un’ingiunzione che ha bloccato la demolizione di alcune parti del complesso, ma il 22 febbraio le strutture la cui demolizione era stata autorizzata sono state rase al suolo. Gli occupanti sono rimasti senza un tetto sopra la testa al freddo e alla pioggia in pieno inverno.

“Invece di combattere la criminalità ad Arara, hanno perseguitato noi, una famiglia che non è mai stata coinvolta nella criminalità. Arara è un campo profughi. Non c’è lavoro, oltre alla criminalità non c’è niente, eppure siamo noi quelli perseguitati”, dice Hussein.

Alle 8:30 del mattino di domenica della scorsa settimana, gli agenti dell’Unità Yoav della polizia israeliana, con l’ausilio di droni, polizia a cavallo, veicoli fuoristrada, cani e ruspe, hanno raso al suolo i resti del complesso che non erano ancora stati cancellati dalla mappa a febbraio. Decine di agenti hanno garantito la sicurezza. L’operazione di demolizione è durata due ore e si è svolta senza violenza, a parte la demolizione stessa. Una capanna di fortuna è rimasta in piedi, poiché era stata costruita dopo la precedente demolizione e prima che fosse emanato un nuovo ordine di raderla al suolo. Le 70 pecore e cinque cammelli, insieme a un cavallo e un asino, sono rimasti senza ricovero; la prima notte la famiglia è rimasta vigile per evitare che gli animali si allontanassero e si perdessero nel deserto. Il giorno dopo li radunarono in un recinto improvvisato, e questa settimana abbiamo visto i cammelli, il cavallo e l’asino pascolare nella valle sotto il complesso.

Odeh ci accompagna nel nostro giro delle macerie. Qui sorgeva l’area per intrattenere gli ospiti che è una caratteristica comune di ogni residenza beduina. Un cumulo di macerie. “Quella è una casa, l’hanno demolita, e quella è un’altra casa, hanno demolito anche quella”, aggiunge Odeh a bassa voce, come se parlasse a se stesso, mentre saliamo da un cumulo di rovine all’altro. Tra le macerie giace una bottiglia di shampoo per bambini al profumo di rosmarino. E una spazzola per capelli.

“L’ingiustizia che gli israeliani stanno imponendo ai palestinesi nei Territori è arrivata qui”, dice Hussein.

Qui sorgevano le case di Iyad, figlio di Odeh, che ha sei figli, e di Salman, un altro figlio, di 31 anni, che lavora nelle miniere di Rotem nel Negev e ha quattro figli. Qui era dove un tempo viveva Fadya, 45 anni, la seconda moglie di Odeh. E laggiù c’è ciò che resta della casa di Tamam, che ha 50 anni secondo Odeh, ma viene corretto dal nipote: ne ha 58. Gli aerei da trasporto dell’aeronautica rombano costantemente sopra di loro diretti alla base di Nevatim, i loro piloti possono sicuramente vedere la pietosa devastazione dall’alto.

La scorsa settimana, al termine della demolizione, l’Autorità per lo Sviluppo e l’Insediamento dei Beduini ha rilasciato la seguente dichiarazione: “L’Unità Nazionale per l’Applicazione delle Leggi sulla Pianificazione e la Costruzione ha eseguito 10 ordini di demolizione emessi dal tribunale che comprendono decine di strutture residenziali appartenenti alla famiglia Alghol . La famiglia ha a disposizione lotti residenziali pronti per l’abitazione da oltre 15 anni, nei quali si è rifiutata di trasferirsi e che riceve gratuitamente, per adeguarsi alle disposizioni normative. La famiglia ha rifiutato ogni dialogo e collaborazione con lo Stato e ha continuato a vivere in violazione della disposizione.

“L’Autorità sta lavorando per regolarizzare l’insediamento beduino nel Negev”, ha continuato la dichiarazione, “e la pianificazione e lo sviluppo di decine di migliaia di lotti per tutti i beduini nel Negev con un investimento di miliardi di shekel, e ogni famiglia beduina riceverà un soluzione abitativa a norma, regolarizzata e sarà obbligata a spostarsi secondo l’ordinanza”.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

Alex Levac è diventato fotografo esclusivo per il quotidiano Hadashot nel 1983 e dal 1993 è fotografo esclusivo per il quotidiano israeliano Haaretz. Nel 1984, una fotografia scattata durante il dirottamento di un autobus di Tel Aviv smentì il resoconto ufficiale degli eventi e portò a uno scandalo di lunga data noto come affare Kav 300. Levac ha partecipato a numerose mostre, tra cui indiani amazzonici, tenutesi presso l’Università della California, Berkeley; la Biennale israeliana di fotografia Ein Harod; e il Museo di Israele a Gerusalemme. Ha pubblicato cinque libri.

Fonte: https://archive.md/…/00000188-eab5-d5fc-ab9d-fbfd15c30000

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