Di C., partecipante al viaggio Ponti e non muri – aprile 2023

GIOVEDI’ 6 APRILE: RAMALLAH.
LA COOPERATIVA DELLE DONNE E AL-HAQ
Chi paga il prezzo? Il popolo
Incontriamo la cooperativa delle donne che da anni promuove un progetto a sostegno delle donne per ridare loro una comunità e un senso di appartenenza. Ascoltiamo la forza disarmante di donne che con la cooperativa curano e garantiscono sostegno ed educazione alla popolazione che paga il prezzo di una violenta occupazione.
La cooperativa promuove un progetto di ricami, che permette alle donne non solo un sostentamento ma anche una condivisione e un sostegno reciproco.
Ci raccontano di come la libertà di movimento per i palestinesi sia totalmente negata: visti negati, continui check-point e l’impossibilità di visitare la propria città natale e spostarsi per lavorare. Una prigione a cielo aperto.
Nel pomeriggio, ascoltiamo la voce di un avvocato dell’ong Al-haq, organizzazione palestinese che ogni giorno combatte contro il silenzio assordante, difendendo i diritti dei palestinesi e denunciando i quotidiani soprusi, continuamente celati e taciuti.
Al-Haq significa dar voce alla verità. Nonostante Israele cerchi in tutti i modi di mettere a tacere le loro battaglie invisibili, denominandoli organizzazione terroristica e minacciandoli, loro resistono in nome di una narrazione veritiera e paritaria.
Ci raccontano di come i soldati abbiano fatto irruzione nella sede dell’associazione, abbiano distrutto la sede e cementato la porta d’entrata come dimostrazione di forza e intimidazione.
Al-haq, come tante altre organizzazioni palestinesi, convive ogni giorno con questa violenza e lavora in nome della verità per dare voce a tutte le vittime e perchè Israele venga ritenuto responsabile dal punto di vista legale per le quotidiane violazioni dei diritti, contrastando la connivenza occidentale, tramite advocacy e azioni legali.
VENERDI’ 7 APRILE: VALLE DEL GIORDANO
“La resistenza più potente è quella di rimanere ogni giorno e ripiantare un seme. Educare è la nostra resistenza”
Da Ramallah ci dirigiamo verso Nord e arriviamo nella Valle del Giordano, dove in quanto area C, la terra è sotto totale controllo civile e militare israeliano.
Con parole estremamente forti ma allo stesso tempo delicate e indulgenti, Rasheed, attivista del Jordan Valley Solidarity Movement ci dipinge la vita giornaliera sotto occupazione. Ci racconta di come gli viene negato il diritto di movimento, costretto ad attraversare continuamente check-point, dove accade spesso che le donne partoriscano in auto o ragazzini vengano uccisi perché ritenuti pericolosi.
Ci racconta di come gli israeliani taglino continuamente i loro ulivi.
Di come regolarmente i soldati passino nei villaggi a tagliare le tubature d’acqua, costringendoli così a comprare a 25 shekel (oltre 6 euro) un metro cubo d’acqua.
Ci racconta come non sia tanto drammatico il fatto che sia necessario pagare l’acqua quanto il fatto che i palestinesi siano totalmente privati dell’acqua. Spesso una volta caricata la tanica nel trattore, quest’ultimo viene confiscato dall’esercito israeliano.
Ci fa capire che gli israeliani vogliono una terra, la loro terra, senza le persone.
Ci ricorda l’importanza della giusta ed equa informazione e narrazione. L’importanza di raccontare l’occupazione e la violazione dei diritti.
Ribadendo l’importanza dell’educazione come forma di resistenza dice che “un nemico intelligente è meglio di un amico ignorante”.
SABATO 8 APRILE
“Costruisci un muro per costruire anche un nemico”
La chiave del diritto al ritorno
La mattina di sabato andiamo a vedere il muro. Muro che vuole separare due mondi. Muro che è espressione della violenza dell’uomo sotto forma architettonica. Costruiscono un muro, per costruire poi un nemico, diverso e lontano, di cui aver paura. La costruzione di questa narrazione dell’altro, del diverso come nemico, trova terreno fertile in una popolazione che ignora e non conosce.
Attraversiamo il checkpoint e lì mi travolge un gran senso di disagio e soffocamento. Mi sento schiacciata. Mi schiacciano quelle sbarre, quelle ore e le file umilianti che i palestinesi devono fare per andare a lavorare. Gabbie che urlano indecenza e disumanità. Che urlano ipocrisia, sì ipocrisia occidentale. Penso a come agisce banalmente la violenza, tutti i giorni, e come siamo drammaticamente tutti complici.
Nel pomeriggio andiamo nel campo profughi di Aida, a Betlemme, rifugio da oltre 70 anni, nato per accogliere chi scappava, a partire dalla Nakba. Durante la catastrofe palestinese del 1948 sono morti più di 30 mila palestinesi. Chi è sopravvissuto, è stato scacciato, espropriato della propria casa ed esiliato. I palestinesi sono stati costretti a scappare nelle zone e nei paesi limitrofi, portando con sé solamente i ricordi e le loro chiavi, simbolo della speranza di un ritorno.
Aida racchiude in sé due significati esaurienti, ovvero quello del ritorno, del diritto al ritorno e dell’atto di gentilezza. Ci viene raccontato di come i finanziamenti che gli americani danno urlino ipocrisia: vengono stanziati più di 3 milioni di dollari ad Israele, mentre ai palestinesi rimane una cifra irrisoria mirata solamente alla sanità. Vengono dati i soldi agli oppressori per opprimere e agli oppressi per curarsi. L’ONU (acronimo inglese UN) viene vista come Unione del Niente in quanto completamente assente ed ipocrita. Qui ci raccontano di come l’unica forma di resistenza sia l’educazione. Nell’Aida Youth Center viene incoraggiata qualsiasi tipologia di insegnamento, chiunque sappia fare qualcosa può insegnarla: sport, lingua, musica e così via.
Nel mio bagaglio ingombrante e pesante porterò per sempre le parole del ragazzo a cui è vietato andare a Gerusalemme pur abitando a pochi metri di distanza, e che può limitarsi solo a vederla dalla terrazza del centro giovanile per cui è volontario. Un ragazzo, circondato da tre mari, che non potrà mai vedere il mare. Un ragazzo che con la possibilità di vedere qualsiasi Paese al mondo, vorrebbe poter solamente rivedere la città e casa sua. Una casa di cui suo nonno conserva ancora oggi la chiave.
DOMENICA 9 APRILE: BATTIR
“Una terra senza confini“
La domenica la trascorriamo immersi nel verde e nella natura tra gli ulivi del villaggio Battir. Partiamo da Beit Jala per Wadi Makhrour fino ad arrivare alle terrazze di Battir, villaggio palestinese a ovest di Betlemme dichiarato patrimonio dell’Unesco.
Simbolo di una resistenza nonviolenta e di una battaglia silenziosa. Battir si trova vicino al confine alla Linea Verde stabilita nel 1948. Una risposta acuta e mite alla violenza del muro è stata l’impossibilità di costruire la barriera, e quindi di danneggiare le terre, proprio in quanto Patrimonio dell’Umanità.
LUNEDI’ 10 APRILE: HEBRON
La città divisa: sotto i negozi palestinesi, sopra le case dei coloni.
Lunedì andiamo a Hebron, la città colonizzata ed occupata, a sud della Cisgiordania.
Respiriamo un vero e proprio Apartheid.
Immagina di camminare, per la tua città, e vedere il cielo sopra la propria testa solo attraverso le fessure delle reti e grate. Reti installate con lo scopo di ripararsi dagli oggetti e rifiuti che i coloni, che vivono negli appartamenti sovrastanti, lanciano per puro disprezzo. Hebron è così, sotto ci sono i negozi e il mercato palestinese, separato dalle case degli occupanti israeliani costruite sopra.
Qui si capisce chiaramente la logica dell’uso della violenza, in tutte le sue declinazioni, legittimata così facilmente in nome della “sicurezza”.
Hebron è teatro di scontri giornalieri, di continue provocazioni.
Hebron è una ragazza che deve attraversare file di soldati nella speranza di riuscire ad arrivare illesa al suo posto di lavoro. Hebron sono i bambini, definiti dai soldati israeliani come “grande problema”, che giocano nelle strade con i fucili puntati. Hebron è una gabbia dove vivi circondato da soldati e coloni estremisti. Hebron è colonizzazione pura, violenta.
A Hebron si è invisibili. A Hebron si soffoca.
MARTEDI’ 11 APRILE e MERCOLEDI’ 12 APRILE
GERUSALEMME
Di Gerusalemme mi ricordo il suono dei cori e delle grida dei coloni che, con drammatica arroganza, si dirigono alla spianata delle moschee, durante il momento di preghiera, per provocare e attaccare. Solo dopo pochi giorni dopo l’attacco indecente di Al Aqsa, assistiamo a questa scena esaustiva di un’ideologia sionista religiosa, che vuole cancellare la terra della sua propria storia, attuando un vero e proprio memoricidio. Quante sfumature assume la violenza.
Gerusalemme urla ignoranza e omertà occidentale. Come possiamo renderci parte di tutto questo? Come possiamo scrivere nei nostri libri, legittimando questa violenza, che la capitale di Israele sia Gerusalemme? Come possiamo non capire l’importanza delle parole giuste, dei racconti giusti?
L’ultima mattinata la trascorriamo ascoltando le parole e la forza dell’animo di un attivista israeliano, dissidente che con coraggio racconta la verità su Israele e la lotta che porta avanti ogni giorno assieme alla sua associazione.
Ci racconta di come sia drammatica la situazione dell’educazione della popolazione israeliana, che viene imbevuta di un’ideologia e una narrazione che descrive l’arabo, il diverso e il lontano, come il nemico. Un’educazione che pone le sue fondamenta sull’ignoranza della cultura che non sia la propria e che fa leva sulla paura e sulle violenze subite nei secoli scorsi da altri paesi.
Oh, come è potente la paura come leva per l’odio per il diverso. Che arma la disinformazione sposata all’ignoranza.
Si fa perno su questo, lo vediamo anche in Italia, in Occidente, tutti i giorni, nel Mar Mediterraneo.
La potenza della condivisione
Faccio mia la Preghiera del patriarca di Gerusalemme, sperando che le sue parole vengano ascoltate e accolte.
Senza parole. Siamo tutti responsabili....se c'è ne laviamo le mani....complici!
Signore Padre d'amore, ti prego ascolta il grido di dolore di tutte queste anime innocenti che stamno pagando con la…
Una preghiera
Mi è insopportabile la morte di un solo bambino, di una sola donna, di un solo uomo, tanto più se…