Voci da Gaza: giorno 103

Centotreesimo giorno della guerra a Gaza, 17 gennaio 2024

La testimonianza di Zainab Al Ghonaimy, da Gaza sotto bombardamento e aggressione

**Gli amari effetti dell’aggressione sionista divorano le nostre anime e i nostri sentimenti, ma cerchiamo ogni giorno di sconfiggerla
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Abbiamo ricordato quotidianamente le tragedie vissute di questa aggressione predatoria, che non solo è stata un’operazione militare devastante che ha schiacciato e spazzato via persone, pietre e alberi, ma ha anche lasciato nelle persone ferite nel cuore e nei sentimenti difficili da rimarginare.

Oggi la mia amica è stata contenta che sua cugina sia venuta a trovarla, è venuta con la sua figlia appena nata. La ragazza appariva esteriormente coerente e felice con la sua bambina. Ho riflettuto molto sulla questione e ho notato quanto sia crudele questa vita. La mia amica e la sua parente non stanno bene ed entrambe hanno pianto di dolore e con l’amarezza di chi ha perso i propri familiari, ma ci stanno provando a superare la loro tristezza e continuare con la loro vita.

Non abbiamo dimenticato che prima della fine del primo mese dell’aggressione sionista a Gaza, questa stessa ragazza perse la sua unica figlia, suo padre e sua madre, sua sorella, il figlio e la nipote di sua sorella, la moglie e la figlia di suo fratello, e tre dei suoi cugini e la loro madre, a causa di uno dei missili dell’aereo sionista che demolì la loro casa sulle loro teste. Lei e sua sorella sopravvissero a quella morte, insieme ai suoi due fratelli. Ha riportato lesioni alla testa e al bacino e, poiché era incinta di sette mesi, ha trascorso gli ultimi due mesi di gravidanza su una sedia a rotelle. La sorella minore, che è sopravvissuta con lei, ha riportato un grave infortunio al torace ed è tuttora ricoverata in ospedale.

Pertanto, la mia amica sperava di vedere sua cugina, soprattutto dopo aver appreso che il suo parto era avvenuto con taglio cesareo, e tutti i parenti rimasti intorno a lei erano preoccupati per la sua sicurezza e per la sicurezza del feto, soprattutto perchè la nascita è avvenuta durante l’escalation militare all’interno di Gaza City. Questa gravidanza è avvenuta dopo un costoso trapianto, e tutti speravano che partorisse in sicurezza, così che la neonata potesse riempire il vuoto dell’assasinio di sua sorella.

Può essere positivo che le due donne giovani si siano incontrate per scambiare i loro sentimenti, perché forse questo incontro ha potuto portare sollievo alla loro tristezza, la protezione reciproca dal duro sentimento di tristezza nascosto che risiede nei loro cuori e nei loro occhi.

Anche oggi è venuta a trovarmi la figlia di mia cugina che ha avuto l’opportunità di avere una relativa calma nello spostamento e attualmente risiede in una delle case temporaneamente abbandonata dai proprietari e dove membri della famiglia di suo marito e i loro parenti, che conta trentadue adulti e bambini, risiedono.

Le ho chiesto delle sue condizioni. Lei ha risposto con un barlume di tristezza negli occhi: “Come stiamo, zia? Le case non ci sono più e dicono che forse cesserà l’aggressione. Ebbene, se cessa, dove possiamo andare? Dove abitare? Come possiamo vivere?” Ha continuato il suo discorso: “Ora viviamo nelle case della gente a causa delle condizioni angoscianti, ma quando questa aggressione finirà, potremo vivere con estranei nella stessa casa? Non riesco a immaginare nulla, né una casa né un lavoro. Non ci sono né scuole, né università, qual è la soluzione?”

Giusto, qual è la soluzione? Una domanda che viene posta frequentemente da tutti, sia da coloro che sono rimasti a Gaza City e nel suo nord, sia da coloro che sono stati sfollati in altri luoghi. Tutti sono afflitti dall’amarezza delle conseguenze di questa brutale aggressione, sia attraverso la perdita di familiari e conoscenti, sia attraverso la perdita di case, e i ripetuti sfollamenti forzati, vivendo in tende sotto il cielo , senza protezione o riparo dal freddo, dalla pioggia, dai bombardamenti missilistici o di artiglieria, e in condizioni di vita primitive e umilianti.

Per puro caso ho ricevuto il segnale e la chiamata da una collega, direttrice di un’importante organizzazione di donne, che mi ha detto con rammarico: “Viviamo in una tenda e Dio conosce la situazione”. Una frase chiara che toglie molti dettagli per noi che siamo intrappolati in questa grande prigione: cosa significa vivere in una tenda? E per chi non lo sa , significa non avere acqua, né da bere né per uso quotidiano, e fare la fila per ottenerla, e anche fare la fila per entrare nei bagni, e socializzare con estranei con usanze e comportamenti diversi e a volte strani.

A questo si aggiunge l’esposizione agli altri della più minuta privacy, l’essere esposti alle domande di uomini e donne curiosi su quando mangiare e che tipo di cibo, su quando andare in bagno e quanto tempo restare, e a commentare i panni stesi fuori dalla tenda o dall’aula scolastica, il bucato è pulito oppure no? I vestiti sono nuovi, usurati o scoloriti? E altri dettagli simili. Ti chiedono anche i tempi delle tue preghiere obbligatorie e si chiedono perché questa donna non prega? La risposta è pronta: forse ha le mestruazioni. Perché non ridi o sorridi? A cosa stai pensando? Prima della risposta, arriva una rapida risposta da parte dell’interrogante: “Lascia fare a Dio, domani andrà meglio”.

Nella vita in tende, in scuole o anche in alloggi condivisi con molte famiglie, anche se imparentate, il conforto psicologico e la privacy scompaiono, soprattutto per le donne, poiché noi donne non possiamo facilmente avere il nostro spazio.

Ad esempio essere tristi o felici, pensare da soli, ritirarsi in un angolo di noi stessi, esprimere i nostri sentimenti verso gli altri. Ci vergogniamo di fare la doccia per non destare la curiosità degli altri sul motivo, ci vergogniamo di guardarci allo specchio e di applicare la matita, ci vergogniamo di pensare di indossare abiti puliti in un momento in cui la maggior parte delle donne e delle ragazze indossano abiti da preghiera. Ci vergogniamo di trascorrere il tempo di cui abbiamo bisogno in bagno. Allo stesso tempo dobbiamo prendere l’iniziativa nel programma quotidiano: cosa cuciniamo oggi? Come affrontare la mancanza dei bisogni primari?

È vero che gli uomini partecipano al lavoro quotidiano, soprattutto a quelli legati ai carichi pesanti, e alcuni di loro contribuiscono a cucinare e cuocere sulla legna, a spremere e stendere la biancheria, ma la cosa più importante è che non hanno rinunciato a dare ordini, o farci sentire che la loro presenza con noi – con le donne – significa di per sé la nostra sicurezza.

Abbiamo bisogno di molto tempo per guarire da queste amarezze combinate, e potremmo aver bisogno di scaricare questo peso per anni, ma proprio come le persone si adattano alle circostanze dell’aggressione, necessariamente si adatteranno alle sue conseguenze, perché questa non è altro che la condizione umana in vita.

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