Voci dalla Palestina: la resistenza di Masafer Yatta

Di Abu Sara

Oggi è tutto tranquillo. Addirittura, uscendo da Tel Rumeida al check point di Bab al Zahwiye, un soldato gentile mi avvisa che quel passaggio è chiuso in entrata, dovrò usare un’altra “border”, una frontiera, non un altro check point, comunque era una comunicazione gentile!

Quando arrivo a Yatta e scendo dal service pensando di cercarne uno per al-Karmel, subito mi apostrofa l’autista di uno di questi vecchi service, di quelli relegati ormai alle tratte minori, chiedendo se vado a At-twani. Ormai è diventato il posto degli internazionali, basta vedere un ajnabi (uno straniero) per sapere che è diretto là. Veramente pensavo al service, “ma no ti porto io per 40 shekel” non ci sto, allora 30, e va bene, portami. Le portiere mezze sfondate, i sedili peggio, ma anche la meccanica lascia a desiderare. Comincia un rumore preoccupante alla ruota destra, probabilmente il giunto di trasmissione. “Mi dispiace, ma non ti preoccupare, sta lì fermo che ci penso io, e cerca un amico che per i 30 shekel mi venga a prendere e mi porti.” ma sei matto, sono troppo pochi soldi”. L’autista è sempre più dispiaciuto, ma gli dico di non preoccuparsi, che faccio come pensavo. Sicuro? Allora mi restituisce i 30 shekel e sono io a dirmi dispiaciuto per i suoi guai, speriamo che ti vada meglio, “inshallah”. Io trovo un service per al-Karmel, e poi vado a piedi, non passa proprio nessuna macchina, ma ci vorrà un quarto d’ora.

Ad At-twani è tutto tranquillo, non vedo nessuno, donne che pascolano una con pecore e una con capre, allora salgo da Hafez, sta come sempre strappando erba per un pezzo in cui pianta, alberi intorno e uva da tavola in mezzo. Se gli lasceranno le piante senza venire a strapparle. Mi fermo ad aiutarlo. È il principio fondamentale della resistenza a Masafer Yatta: continuare a coltivare e mettere in coltivazione fino all’ultimo pezzo di terra disponibile, altro che andarsene. Alle tre rientra Sami e mi chiama per andare a mangiare qualcosa con lui. Conferma che tutto è tranquillo e così lascio At-twani e torno a Yatta da Jamal, a pascolare le pecore con i figli. Qui sono sempre benaccolto, anche se lui è a lavorare nel ’48 fino a giovedì sera. Giochiamo anche a calcio con i ragazzi, guardando le pecore con mezzo occhio, e a pallavolo con le ragazze. Un giovane rientra dal lavoro, viene a salutare e mi invita a prendere un thè a casa sua. Un forestiero qui è una rarità e tutti ci tengono a due parole con me. Passo una giornata intera con loro.

Ma oggi la prima notizia è stata la morte in prigione di Khader Adnan. Già pensavo di scendere a Khalil per incontrarmi con uno dell’UNRWA, accelero per vedere se succede qualcosa.

Ma chi era Khader Adnan? Nativo di Jenin, esponente della jihad, ha passato almeno 12 anni in prigione, con 11 diversi arresti, quasi sempre senza processo, cioè tenuto in detenzione amministrativa. 5 volte ha dovuto ricorrere allo sciopero della fame, qualche volta ottenendo la libertà. Ma questa notte non ce l’ha fatta. Immediato lo sciopero generale. Ho visto i ragazzi partire per la scuola, ma poi tornare indietro. I mezzi circolano, ma la stazione dei minibus è chiusa. I negozi e le bancarelle sono chiuse. Non avevo mai visto una cosa simile. C’è puzza di gomme bruciate e di lacrimogeni. Un gruppo di soldati è uscito dal check point e fronteggia un po’ di ragazzi, che si tengono riparati da un angolo di strada e si affacciano ogni tanto per tirare un sasso. Salgo verso il centro, c’è una manifestazione per Khader Adnan. Quando torno al mercato, trovo che sono usciti altri soldati dal cancello centrale. Ancora più bancarelle chiudono.

Quelle alimentari in fondo al mercato non erano tutte chiuse. I soldati mi puntano un fucile contro. Aho, posso passare? Allora abbassa l’arma e passo. Appena al di là, vedo che proprio si divertono a sparare un lacrimogeno verso dove ero. Un ragazzo velocissimo glielo rimanda con la fionda, corrono come lepri, il vento soffia in qua, anche io non ho scampo, è tanto che non mi prendevo un lacrimogeno in pieno; mi prendono in una bottega e mi danno una cipolla, piano piano passa tutto. I soldati sparano ancora ogni tanto, anche molto più tardi, ma ormai sono rientrati.

Quelli dell’UNRWA mi chiedevano se c’è qualche sostegno ai palestinesi, certo niente di istituzionale. Racconto qualcosa, ma hanno anche fretta.

Vedremo domani cosa altro succederà.

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