Voci dalla Palestina: quotidianità sotto occupazione

Di Abu Sara, dalla Palestina

Penso a quando ho messo un piede nella direzione sbagliata davanti alla casa di YAS, e ho sentito il soldato mettere il colpo in canna intimandomi l’alt. Mercoledì sera invece una trentina di giovani coloni con le loro kippa e i ricciolini, passavano tranquillamente davanti all’entrata di YAS, e nessuno può dire niente a questa disparità di trattamento, così tipica di un sistema di apartheid. Giovedì mattina ho finalmente messo mano al seghetto per uno degli enormi ulivi del giardino. La scala è pesantissima e fuori misura, il seghetto taglia poco, ma alla fine un po’ di aria gliela ho data e un po’ di secco è stato levato.

Per venerdì ho in mente di unirmi agli israeliani per tre manifestazioni.

Ma Diana, la nostra Palestinese, fa quasi una scenata, lei con quelli non ci andrebbe mai, saranno bravi ma sono sempre dalla parte sbagliata. Sono venuti dall’Europa a prenderci la terra, è facile ora far finta di appoggiarci. Ci siamo trovati a Bir Zeit, dove ha un appartamento Dave, ragazzo americano che studia arabo all’università di Bir Zeit. Counque vado, anche tra gli israeliani ho degli amici, e poi è troppo comodo spostarsi in macchina, riuscendo a seguire più di una manifestazione in un giorno. Tra l’altro, vista la difficoltà a muoversi di venerdì, la nostra amica ci viene a prendere sotto casa. E così si comincia alla rotonda Zaatara, quella dove se si ferma un Palestinese gli sparano, perché siamo proprio all’entrata di una colonia, e cisono torrette e soldati armati a non finire. C’è di nuovo il gruppo “l’occupazione nell’occhio” con cui ero stato a novembre. Saremo poco più di una ventina, con i cartelli “stato di apartheid”, “Occupation kills” e “Palestinian lives matter”. Come l’altra volta e evidentemente tutti i venerdì in cui non ci sono stato, i palestinesi fanno il segno a V e i sionisti alzano il medio.

Quando si finisce, una bella idea, andiamo a mangiare insieme a Huwwara. Bella accoglienza: c’è un palazzo non finito occupato dall’esercito, con una decina di fucili puntati su chi passa! Comunque si mangia arabo, con piatti vari, hummus, yogurt conditi in vari modi, sottaceti, frittate e beninteso felafel.

Così poi saliamo a Beita con la pancia piena, e ancora in tempo prima della preghiera. L’altra volta non li avevo visti, forse erano stati a pregare dentro la tenda. Poi si parte, sparsi nella collina in mezzo agli ulivi, con i soldati che ci fronteggiano sulla collina di fronte. Ci lasciano avvicinare fino a far partire dei grandi fuochi, beninteso di copertoni, bruciano in fretta e fanno più fumo dei lacrimogeni che cominciano a pioverci addosso. Ma il vento è abbastanza a nostro favore. Di mezzo, chissà da dove viene, un grosso cinghiale attraversa il campo correndo, accompagnato da urla di incoraggiamento. Qualche tiro di fionda, ma siamo troppo lontani. Piano piano si risale, noi di qua loro di là. Ma perché non mollano quella collina? Hanno cacciato i coloni, di recente hanno provato a risalire, ma solo con le bandiere, non per rioccupare i caravan. Perché non li portano via e non liberano la collina? Torniamo alle macchine, ma questa volta siamo solo noi quattro, si scende a Sheik jerrah.

Oggi è la manifestazione organizzata dai palestinesi, e quindi sull’altro lato della strada ci sono i sionisti, anche loro con le bandiere e un megafono, per disturbarci, con un bel cordone di polizia a tenerli a bada. I poliziotti sembrano meno minacciosi dei soldati, non hanno il casco, il manganello nello zaino anziché le bombe, ma anche loro hanno il mitra in mano. I sionisti rompiscatole ci seguono sempre nei giretti nel quartiere, ma almeno si stancano prima di noi.

Cerco nei miei contatti per Gerusalemme, ma non c’è nessuno questo pomeriggio e allora torno a khalil.

Brutta fine di giornata, torno stanco della giornata, infreddolito con un vento gelido che ci ha accompagnato tutto il giorno, e devo attraversare il check point per entrare a Tel Rumeida. “no, aspetta”. Chiamano i loro superiori, “fai vedere di nuovo il passaporto, no non facciamo più entrare gli stranieri, solo i Palestinesi”. Infatti un po’ di persone entrano, anche gente che mi conosce. Ho dentro il mio zaino, dico. “se lo faccia portare” Ma io non entro, al cambio turno, quello nuovo mi manda via, finalmente aprendo la girandola alla rovescia. Che faccio, oltre a tremare di freddo? Comincio a sentire gli amici, prova un altro check point, ma sarà uguale se hanno ordini superiori, allora c’è un ostello vicino. Ma prima di andare arriva un altro consiglio, prova il check point della moschea. È vero, mi dico, dalla moschea un palestinese non può andare alla sua zona, e il posto è più per stranieri e turisti, infatti passo senza quasi che guardino il passaporto. Ma poi devo arrivare nella zona Palestinese.

Altri quattro soldati in guardiole chiedono dove vado e vogliono vedere il passaporto. L’ultimo però si preoccupa per me, da lì va in zona mista, stia attento!

Insomma ho provato anche io a venire respinto a un check point e dover fare un lungo giro per entrare da un’altra parte, e questo è il sopruso abituale sui Palestinesi. Evito di avvicinarmi a dove mi hanno respinto, e così salgo per la collina dalle case che sono intorno e sopra alla famosa Kurtuba school, dove ogni tanto si va a controllare cosa succede. Qui sono appena arrivati tre ragazzi catalani, quindi o loro non sono stranieri o è me che non volevano.

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