Articolo pubblicato originariamente su Palestine Project. Traduzione a cura de La Zona Grigia
Di Orly Noy – 6 novembre 2025
Molto tempo fa, lavoravo come cameriera al Café Atara, nella sua sede originale in via Ben Yehuda.
All’epoca adoravo la zona pedonale, che era il fiore all’occhiello dell’impossibile e meravigliosa fusione che un tempo era Gerusalemme. Una volta, un turista mi chiese stupito: “Perché ci sono così tanti soldati e armi per strada?”. La domanda mi suonò molto strana all’epoca: cosa significa andare in giro qui con le armi? Perché sono soldati, signore. Cosa non è chiaro?
Non capivo, non riuscivo a capire allora, quanto fosse anomala questa presenza schiacciante di armi nello spazio pubblico. Israele è sempre stata una società militarista fino al midollo, ma negli ultimi due anni questo fenomeno ha raggiunto dimensioni completamente diverse. Non c’è posto a Gerusalemme dove si possa camminare senza dover passare attraverso le canne dei fucili.
Al mercato di Mahane Yehuda, la sera, dopo che le bancarelle di frutta, verdura e altri prodotti hanno lasciato il posto al turno di notte di pub e taverne, l’arma a tracolla è un capo di abbigliamento comune per i giovani israeliani, uomini e donne, fatta eccezione per gli ebrei ultra-ortodossi. Tutti in borghese, tra l’altro. Ma l’arma è lì: fiera, quasi provocatoria, sul petto.
Per comprendere le dimensioni della follia che ha attanagliato la società israeliana, è necessario scomporla nelle sue componenti più piccole. È troppo profonda e onnicomprensiva per afferrarla tutta consapevolmente e scandagliarla in tutta la sua profondità. La questione delle armi è molto indicativa di questa questione, perché dimostra in modo magistrale la distanza tra la società israeliana e qualsiasi concezione di normalità in qualsiasi altro luogo sano di mente del mondo. Il fatto che in Israele un padre pubblichi una foto di sé stesso con un neonato in una mano e un’arma nell’altra e riceva migliaia di risposte entusiaste, il fatto che questa foto non faccia venire un brivido lungo la schiena agli israeliani, è la definizione della follia di questo posto. Il fatto che le armi siano diventate un elemento obbligatorio nell’abbigliamento dello Shabbat della comunità religiosa di Gerusalemme, insieme alla camicia bianca e al tallit, è l’incarnazione di questo disordine.
Il prezzo di questo disordine malato, violento e barbaro si paga ovviamente altrove. Mia figlia mi ha raccontato alcuni aneddoti dopo una giornata trascorsa a proteggere i palestinesi locali attraverso la mera presenza degli israeliani nella zona di Masafer Yatta. Di come i palestinesi debbano chiedere il permesso all’esercito per raccogliere le olive sui loro terreni privati, e di quanto ci si aspetti che siano grati quando ricevono il permesso. Dato che quest’anno il raccolto delle olive è scarso, il raccolto si conclude in fretta, ma ai palestinesi non è permesso fare nulla sul loro appezzamento se non raccogliere le olive. Se provano a potare i loro ulivi, ad esempio, i soldati li espellono con violenza. E questo non soddisfa i coloni, che sono molto arrabbiati per il fatto che l’esercito abbia permesso ai palestinesi di raccogliere.
Così lanciano pietre contro i soldati, e questi se ne vanno, se ne vanno, senza reagire.
Mi racconta anche di una piccola comunità, Khirbet an-Nabi, dove gli attivisti si sono precipitati a raggiungerla perché attaccata. Quando sono arrivati, hanno trovato una coppia di anziani terrorizzati e isterici fuori dalla loro casa. Diversi giovani coloni hanno fatto irruzione nella loro casa, l’hanno danneggiata e vandalizzata, poi hanno chiuso a chiave la coppia di anziani fuori e se ne sono andati con la chiave. In termini di Cisgiordania, questi due casi sono considerati di scarsa importanza, quasi indegni di essere conteggiati, perché i palestinesi non sono stati aggrediti fisicamente, le loro ossa non sono state rotte, le loro teste non sono state spaccate, non sono stati colpiti da distanza ravvicinata. Ma i limiti della violenza qui, nella sua estremità “più morbida”, sono già lontani anni luce da qualsiasi cosa abbia a che fare con la sanità mentale, la normalità o l’Umanità. Israele è ormai un’isola deserta nell’universo, che si allontana sempre di più dalla società umana in potenti correnti profonde. A differenza di ciò che viene iniettato nelle vene delle persone qui, queste armi che inondano i nostri spazi pubblici non sono un’ancora di salvezza dal vortice; sono i remi con cui questa folle nave si dirige verso la sua rovina.
Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in Farsi. È presidente del comitato esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico nazional democratico palestinese Balad. I suoi scritti affrontano la sua identità di Mizrahi, di donna di sinistra, di donna, di migrante temporanea che vive come un’immigrata perpetua, e il costante dialogo tra queste identità.
Fonte:

[…] dalla “devastazione che si è dispiegata davanti agli occhi del mondo”. ( https://bocchescucite.org/difendere-la-dignita-e-la-presenza-del-popolo-di-gaza/ ) Mai così espliciti e rinunciando…
Grazie per il vostro coraggio Perché ci aiutate a capire. Fate sentire la voce di chi non ha voce e…
Vorrei sapere dove sarà l'incontro a Bologna ore 17, grazie
Parteciperò alla conferenza stampa presso la Fondazione Basso il 19 Mercoledì 19 febbraio. G. Grenga
Riprendo la preghiera di Michel Sabbah: "Signore...riconduci tutti all'umanità, alla giustizia e all'amore."