Articolo originariamente pubblicato sulla newsletter di Internazionale a cura di Francesca Gnetti
Fo di copoertina: Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza, il 19 gennaio 2025. (Omar al Qattaa, Afp)
Alle 9.15 del 19 gennaio è entrato in vigore nella Striscia di Gaza il cessate il fuoco che era stato concordato tra Israele e Hamas quattro giorni prima. Poco dopo il gruppo estremista palestinese ha liberato tre ostaggi e il 20 gennaio Tel Aviv ha scarcerato novanta prigionieri palestinesi. I giornali regionali e di tutto il mondo hanno pubblicato moltissime analisi e approfondimenti per spiegare i vari aspetti dell’accordo, commentare la sua attuazione e riflettere su cosa aspettarsi dal futuro. Usando come base alcuni di questi articoli, ecco di seguito qualche considerazione e chiarimento sulla tregua e su quello che sta succedendo in questi giorni in Israele e in Palestina.
Cosa prevede l’accordo
È strutturato in tre fasi. Durante la prima, di 42 giorni, saranno rilasciati trentatré ostaggi israeliani in cambio di circa 1.700 prigionieri palestinesi, saranno sospesi tutti i combattimenti nella Striscia di Gaza, l’esercito israeliano si ritirerà dalle aree densamente popolate e aumenteranno gli aiuti umanitari. Nella seconda fase, che ha una durata non chiara, dovrebbero essere rilasciati gli ultimi ostaggi, l’esercito israeliano dovrebbe ritirarsi completamente e il valico di Rafah al confine con l’Egitto dovrebbe essere aperto per consentire l’uscita di malati e feriti.
La terza fase, che potrebbe durare anni, dovrebbe riguardare lo scambio dei corpi degli ostaggi e dei combattenti di Hamas deceduti e la creazione di un piano per la ricostruzione della Striscia di Gaza. Gran parte della comunità internazionale ha chiesto il ritorno di un’amministrazione guidata dall’Autorità nazionale palestinese (Anp), che ha sede in Cisgiordania e ha perso il controllo di Gaza a favore di Hamas nel 2007. Ma Israele respinge questa possibilità. Il passaggio da una fase all’altra sarà subordinato alla piena attuazione degli impegni presi durante quella precedente. I negoziati per definire come sarà realizzata la seconda fase dovrebbero cominciare il 4 febbraio. La spiegazione in punti del Guardian.
Perché c’è voluto così tanto per raggiungerlo
L’accordo è quasi identico a una bozza proposta a maggio del 2024 dall’allora presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che era stata accettata da Hamas. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu però ha temporeggiato, temendo che la sua attuazione avrebbe spinto gli alleati di estrema destra, favorevoli a una guerra a oltranza, ad abbandonare la coalizione, facendo cadere il governo. Inoltre le due parti erano in disaccordo su un punto fondamentale: Hamas voleva la fine della guerra prima del rilascio di tutti gli ostaggi, cosa inaccettabile per Israele. Tel Aviv ha poi introdotto quella che ha definito una “linea rossa”: il mantenimento di una presenza permanente sul confine tra Gaza ed Egitto.
I colloqui erano falliti a luglio e sono ripresi in vista dell’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. È stato proprio Trump a fare pressioni su Netanyahu per spingerlo ad accettare l’accordo, promettendogli, come suggerisce l’articolo di +972 Magazine che pubblichiamo in copertina nel prossimo numero di Internazionale, qualcosa in cambio. Secondo il giornalista e analista politico statunitense-palestinese Tariq Kennedy-Shawa il “pacco regalo” di Trump a Netanyahu potrebbe includere una lunga lista di offerte, dalla revoca delle sanzioni sul software di spionaggio Pegasus dell’azienda israeliana Nso Group e sui coloni israeliani violenti (cosa che effettivamente ha deciso il 21 gennaio, in uno dei suoi primi atti da presidente), alla benedizione di Washington per l’annessione della Cisgiordania, fino a consentire o perfino favorire un attacco diretto all’Iran.
L’accordo sarà rispettato?
Netanyahu ha avvertito che Israele “si riserva il diritto di riprendere l’offensiva se necessario”. Hamas ha invece affermato che il rispetto della tregua “dipende da Israele”. Tel Aviv ha insistito sulla necessità di non fornire garanzie scritte che escludessero una ripresa degli attacchi una volta completata la prima fase e liberati gli ostaggi israeliani. Tuttavia, i tre paesi mediatori coinvolti nei colloqui (Stati Uniti, Qatar ed Egitto) hanno dato ad Hamas garanzie verbali che i negoziati andranno avanti e che continueranno le pressioni per attuare la seconda e la terza fase.
Il giorno dopo il suo insediamento, Trump ha detto ai giornalisti di non essere “sicuro” che il cessate il fuoco durerà. Nella copertina del prossimo numero, online da domani e in edicola dal 24 gennaio, Tariq Kennedy-Shawa sostiene che il cessate il fuoco “ridurrà l’intensità della furia omicida di Israele, ma probabilmente darà il via a una nuova, estenuante fase di questo genocidio in corso che non abbiamo ancora compreso del tutto e che è pienamente sostenuta dalla nuova amministrazione Trump”.
I principali nodi da sciogliere
Non è ancora chiaro il numero di prigionieri palestinesi che sarà rilasciato a ogni scambio con gli ostaggi israeliani, né quale sarà la loro identità. I palestinesi hanno chiesto il rilascio di alcuni detenuti di alto profilo, come Marwan Barghuti, leader del partito Al Fatah e considerato una figura unificatrice della politica palestinese, su cui però Israele ha messo il veto. Altri detenuti di cui si chiede la liberazione sono stati condannati all’ergastolo dopo essere stati riconosciuti colpevoli di omicidio e terrorismo.
Inoltre non si sa se e quando Israele si ritirerà dalle zone cuscinetto della Striscia di Gaza o se la sua presenza sarà permanente. Infine il futuro della Striscia di Gaza resta incerto. Oltre a opporsi al ritorno dell’Anp, Netanyahu rifiuta anche l’idea di sostituire Hamas con una coalizione temporanea di paesi arabi. Il primo ministro israeliano ha promesso di sradicare completamente Hamas dal territorio palestinese ma, come nota un articolo di L’Orient-Le Jour che fa parte della prossima copertina, anche se indebolito il gruppo estremista è ancora presente nella Striscia. Soulayma Mardam Bey spiega che pur avendo perso gran parte delle sue risorse e della capacità di comando e controllo, Hamas è ancora forte dal punto di vista politico e soprattutto ideologico.
Quali sono state le reazioni in Israele
Anche se secondo i sondaggi circa il 70 per cento degli elettori israeliani è favorevole alla fine della guerra, una parte dell’opinione pubblica si oppone alla possibilità che siano rilasciati prigionieri palestinesi considerati pericolosi per la sicurezza interna. Ma le reazioni più dure sono arrivate dalla politica. Il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, uno dei leader dell’estrema destra, si è dimesso insieme ad altri esponenti del suo partito Potere ebraico in segno di protesta per la firma dell’accordo (anche se per ora continuerà a sostenere la coalizione di governo). Il ministro delle finanze Bezalel Smotrich minaccia di fare altrettanto se si procederà con la seconda fase.
Nell’articolo di Haaretz pubblicato nel prossimo numero l’esperto di questioni militari Amos Harel racconta le “azioni diversive” fatte da Netanyahu per convincere i suoi alleati a restare al suo fianco. Tra queste c’è il tentativo di addossare ai vertici militari la responsabilità per il fallimento del 7 ottobre e della gestione della guerra. “Il messaggio è che il cessate il fuoco sarà sfruttato per cacciare i disfattisti dai vertici dell’esercito, per poi ricominciare la guerra sotto una nuova gestione. In realtà, è solo un esercizio per confondere l’opinione pubblica”. Il 21 gennaio, però, il capo di stato maggiore, il generale Herzl Halevi, ha annunciato le sue dimissioni a partire dal 6 marzo.
In un altro articolo su Haaretz Amir Tibon scrive che Netanyahu ha due modi per “affossare l’accordo e trovare una scusa per riprendere la guerra”: bloccare i negoziati per la seconda fase oppure provocare “uno scoppio di violenza in Cisgiordania”. È proprio quello che sta succedendo. Da settimane si susseguono gli attacchi dei coloni e ieri l’esercito ha lanciato una nuova operazione a Jenin, nel nord della Cisgiordania.
Cosa sta succedendo in Cisgiordani
Il 21 gennaio Israele ha annunciato di aver condotto una grande operazione militare a Jenin e secondo l’Anp nove palestinesi sono stati uccisi. La città, e in particolare il suo campo profughi, dove sono attivi dei gruppi armati palestinesi, è presa regolarmente di mira dall’esercito israeliano, che negli ultimi mesi è intervenuto più volte, isolando alcuni quartieri. A dicembre anche l’Anp ha assediato il campo profughi nel tentativo di eliminare i gruppi armati e candidarsi a governare la Striscia di Gaza alla fine della guerra.
Netanyahu ha spiegato che l’obiettivo è “sradicare il terrorismo a Jenin” e in particolare i movimenti sostenuti dall’Iran. Ma, come sottolinea Pierre Haski nel suo intervento di oggi sul sito, è altamente improbabile che i gruppi armati emersi di recente a Jenin abbiano un legame con Teheran: “Negli ultimi anni, infatti, in Cisgiordania è nata una nuova generazione di gruppi armati autonomi che non sono affiliati ad alcuna organizzazione, e che spesso contrastano sia Hamas sia l’Anp, ai loro occhi ormai senza credibilità”. Secondo Haski, “la ragione di questa operazione è verosimilmente legata al cessate il fuoco e allo scambio di ostaggi”, considerato il timore delle autorità israeliane che i palestinesi rilasciati nell’ambito dell’accordo possano unirsi “ai gruppi clandestini attivi in Cisgiordania”.
Chi sono i prigionieri palestinesi rilasciati
Sono novanta, 69 donne e 21 bambini. Solo otto di loro erano stati arrestati prima del 7 ottobre 2023. Molti sono usciti dal carcere di Ofer, a ovest di Ramallah, altri da quello di Gerusalemme. Sono stati trasportati a bordo di autobus della Croce rossa e accolti da folle in festa. The Palestine Chronicle racconta che l’atmosfera intorno al carcere di Ofer era tesa, perché l’esercito israeliano aveva dichiarato l’area zona militare chiusa, vietando ai familiari dei prigionieri di radunarsi. Decine di persone sono andate comunque ad aspettare i loro cari. Le forze israeliane hanno lanciato gas lacrimogeni per allontanarle. Nelle carceri israeliane ci sono più di 10.400 prigionieri palestinesi, molti dei quali detenuti in condizioni dure.
Tra le persone liberate ci sono Khalida Jarrar, leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, e le giornaliste Bushra al Tawil e Rula Hassanein. Al Jazeera pubblica una lista completa con le identità di chi è uscito dal carcere. Hassanein ha raccontato a The New Arab le condizioni crudeli della sua detenzione: le procedure umilianti, la privazione di cibo e vestiti, i trattamenti degradanti e l’impossibilità di soddisfare i bisogni fondamentali. “La famiglia è stata sconvolta dalla sua perdita di peso, dal pallore del suo viso e dai segni della stanchezza”. Il prossimo scambio di ostaggi è previsto per sabato 25 gennaio. Nella puntata di oggi del podcast il Mondo Luisa Morgantini, presidente di Assopace Palestina, parla della liberazione dei prigionieri e della situazione in Cisgiordania.
Chi sono le donne israeliane liberate
Romi Gonen (24 anni), Emily Damari (28) e Doron Steinbrecher (31) hanno passato 471 giorni in ostaggio del gruppo estremista palestinese. Sono state consegnate da Hamas alla Croce rossa a Gaza e trasportate in Israele. The Times of Israel riferisce alcuni dettagli della loro prigionia. Hanno raccontato di essere state informate della loro liberazione solo con poche ore di anticipo. Inoltre hanno detto di essere state spostate in varie zone della Striscia di Gaza negli ultimi quindici mesi, compresa la “zona umanitaria” nel sud del territorio, e di non essere mai state da sole: “Hanno visto a malapena la luce del giorno e hanno trascorso la maggior parte del tempo sottoterra. Ogni tanto hanno potuto seguire le notizie alla radio e alla televisione e così sono venute a sapere delle proteste per chiedere al governo di assicurare il rilascio degli ostaggi prigionieri a Gaza”. Hanno anche riferito di aver ricevuto delle medicine e una di loro è stata sottoposta a un intervento senza anestesia.
Il 20 gennaio, durante una conferenza stampa allo Sheba medical center dove le tre donne sono ricoverate in osservazione, Yamit Ashkenazi ha letto un messaggio in cui sua sorella Doron Steinbrecher esorta gli israeliani “a continuare le proteste finché non saranno liberati tutti gli ostaggi”. Nella puntata del Mondo di ieri il giornalista israeliano Meron Rapoport racconta il ritorno delle tre donne in Israele.
Com’è la situazione nella Striscia di Gaza
Nei primi tre giorni di tregua sono entrati nel territorio palestinese 2.400 camion carichi di aiuti umanitari. I termini dell’accordo prevedono che nella prima fase possano entrare ogni giorno almeno seicento camion, compresi cinquanta che trasportano carburante. La metà dovrebbe raggiungere il nord della Striscia, che secondo gli esperti è sull’orlo della carestia.
Già prima dell’entrata in vigore del cessate il fuoco centinaia di famiglie sfollate si sono messe in cammino per tornare alle loro case, che nella maggior parte dei casi trovano in macerie. Lo racconta l’ultimo articolo che compone la copertina del prossimo numero, scritto per Al Jazeera da un giornalista di Gaza. Mohamed Solaimane riporta le storie di alcuni abitanti che devono ricostruire da zero le loro vite. Qualcuno decide di vivere tra le rovine di quelle che un tempo erano le loro case, altri invece restano nelle tende improvvisate dove hanno abitato negli ultimi mesi, in attesa che sia possibile ricostruire Gaza.
[…] dalla “devastazione che si è dispiegata davanti agli occhi del mondo”. ( https://bocchescucite.org/difendere-la-dignita-e-la-presenza-del-popolo-di-gaza/ ) Mai così espliciti e rinunciando…
Grazie per il vostro coraggio Perché ci aiutate a capire. Fate sentire la voce di chi non ha voce e…
Vorrei sapere dove sarà l'incontro a Bologna ore 17, grazie
Parteciperò alla conferenza stampa presso la Fondazione Basso il 19 Mercoledì 19 febbraio. G. Grenga
Riprendo la preghiera di Michel Sabbah: "Signore...riconduci tutti all'umanità, alla giustizia e all'amore."