A che numero siamo?

208, sembra.
La conta macabra continua, nell’altrettanto macabra danza che mette i vivi (ancora) accanto ai morti quotidiani. Oltre duecento giornalisti palestinesi di Gaza uccisi. 208, anzi. Prima i più esperti, quelli con anni e guerre sulle spalle. Ora, accanto alla strage di bambine e bambini, alla più pura strage degli innocenti, c’è la strage dei ragazzi e delle ragazze che usano telefonini, macchine fotografiche, scrittura e parola. L’ultimo, Hossam Shabat, aveva 24 anni. Gli israeliani avevano già cercato di ammazzarlo un mese fa, e ora sono riusciti nell’intento di renderlo silenzioso. Un altro corpo in un sudario. Un altro corpo velato, incartato, coperto da un telo. L’enorme sudario che copre il massacro. Eppure, è proprio la teoria dei sudari a rendere evidente il genocidio. La teoria di ‘bare di stoffa’ esposte nell’atto della preghiera ai defunti e poi riconsegnate alla terra alla quale appartengono.
Vergogna su di noi, che facciamo lo stesso mestiere e che nulla facciamo – serrate, scioperi – per rendere esplicito ed evidente, anche qui da noi, che la rottura delle regole non può essere il nostro comune futuro. Futuro globale, ben oltre le spiagge violate di Gaza. Vergogna sulla nostra complicità senza l’ombra del rimorso.
Il penultimo giornalista ucciso a Gaza si chiamava Mohammed Mansour.
Pronunciare i loro nomi è una delle poche cose che ancora riusciamo a fare. Ma neanche questo ci salverà da una responsabilità collettiva e professionale di cui neanche ci rendiamo conto.

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