Hamas: liberi tutti e tregua permanente. Netanyahu: propaganda

Articolo pubblicato originariamente sul Manifesto

Di Chiara Cruciati

La proposta del movimento islamico per la seconda fase, il premier israeliano la affossa. Oggi ritornano in Israele quattro ostaggi senza vita. Trump taglia i fondi all’Autorità di Ramallah: vietato pensare a un futuro governato dai palestinesi

Israele si prepara oggi ad accogliere i corpi dei primi quattro ostaggi senza vita. Seppur da Tel Aviv non siano giunte conferme ufficiali sui nomi, si tratta della famiglia Bibas – la madre Shiri e i suoi due figli Ariel (4 anni al momento del rapimento) e Kfri (nove mesi) – e di Oded Lifshitz, 84 anni. Giornalista e attivista, per decenni impegnato al fianco delle comunità beduine palestinesi in Naqab, era stato rapito nel kibbutz di Nir Oz il 7 ottobre 2023, insieme alla moglie Yocheved, rilasciata nel primo scambio, a novembre 2023.

A rendere noto il suo nome è stata ieri la Jihad islami, mentre le brigate Mujahideen hanno confermato la riconsegna dei Bibas, i cui corpi – scrivono – sono stati «preservati». Difficile dire cosa significhi (la morte, secondo Hamas, risalirebbe al novembre 2023, in un raid aereo israeliano). Ad attenderli è l’istituto forense Abu Kabir di Tel Aviv, che si occuperà – insieme a esperti della polizia – di identificarli e individuare le cause del decesso. Potrebbero servire, dice il centro, diverse ore, «sei, sette, forse un giorno».

L’EMOZIONE tra gli israeliani è fortissima, amplificata dalle ultime dichiarazioni di Hamas: il movimento islamico si è detto pronto a rilasciare i restanti ostaggi, circa 70, «in una volta sola» all’inizio della seconda fase che dovrebbe partire il primo marzo. In cambio, chiede un accordo che «porti a un cessate il fuoco permanente e al ritiro totale (delle truppe israeliane) dalla Striscia». Non più dunque rilasci scaglionati, di sabato in sabato, come discusso in precedenza.

Hamas rilancia, dopo l’ultimatum caduto nel vuoto di Donald Trump della scorsa settimana, e tenta di mettere all’angolo il primo ministro israeliano Netanyahu e la sua coalizione di ultradestra. Lui risponde con una breve nota stampa, interpretando male la proposta e definendola «un nuovo apice di assurdità e l’eco della propaganda di Hamas. Due settimane fa il primo ministro aveva già definito come obiettivo il rilascio dei rimanenti ostaggi della prima fase in una volta sola, e non due».

Che Tel Aviv voglia riprendere l’offensiva su Gaza non è un mistero per nessuno: proporre il ritorno a casa di tutti gli ostaggi priverebbe Israele di un’arma potente, ovvero di una delle ragioni (ufficiali) per proseguire la guerra. Resta l’altra, impossibile da ottenere e per questo così popolare a livello governativo: la distruzione totale di Hamas.

UN OBIETTIVO che si sposa con una visione più ampia del futuro di Gaza e, più in generale, dei Territori palestinesi occupati: agli occhi di Netanyahu e dei partner Smotrich e Ben Gvir, non solo non esiste all’orizzonte una sovranità palestinese, ma non esiste nemmeno una governance palestinese, di qualsiasi fattura.

È in questa offensiva politica, di lunga data, che va letta l’ultima mossa del presidente statunitense, annunciata dal Washington Post: ieri Trump ha sospeso tutti gli aiuti finanziari alle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese, creatura statunitense nata dagli Accordi di Oslo e tra le principali responsabili della trasformazione di un movimento di liberazione nazionale in un’amministrazione senza sovranità che si sognava stato.

Gaza resta in attesa, sospesa. Le violazioni della tregua pesano come un macigno e trascinano in un loop infinito la sensazione di non avere futuro. Come le macerie che non possono essere rimosse perché Israele non fa entrare i macchinari necessari: «Servono 500 unità pesanti, bulldozer, scavatori, gru», diceva ieri ad Anadolu Ismail Thawabteh, direttore delle comunicazioni del governo gazawi.

Rimuovere le macerie non significa solo dare degna sepoltura ai dispersi e impedire il diffondersi di malattie, significa aprire la strada ai camion umanitari, al rientro degli sfollati, alla rimozione degli ordigni. La tregua viene violata anche dal fuoco: ieri a Rafah l’esercito israeliano ha ucciso tre palestinesi, tra cui un ragazzino di 16 anni, Mahmoud Abu Zakkar.

NELLE STESSE ORE in Cisgiordania un nuovo arresto di massa quotidiano (30 palestinesi, tra cui minori ed ex prigionieri) e il prosieguo dello sfollamento, anche quello di massa, dai centri del nord. Tra le città più colpite, c’è Jenin dove ieri una donna di 50 anni è rimasta gravemente ferita dagli spari di un cecchino israeliano e dove l’esercito sta impedendo a migliaia di sfollati di tornare nelle proprie case.

Si sono radunati all’ingresso del campo profughi, «ma Israele ci ha fermato e ci ha cacciato via», racconta una residente, Basma Masharqa. «So che la nostra casa è stata demolita ma voglio tornare, vedere le rovine», ha continuato.

La sua è una delle centinaia di case distrutte nell’operazione «Muro di ferro» a Jenin e in quelle a Tulkarem, Tubas, Qalqiliya: la devastazione è diffusa nel tentativo – dice ad al Jazeera il vice governatore di Tulkarem, Faisal Salama – di «trasformare caratteristiche e geografia» delle comunità «attraverso le demolizioni delle proprietà palestinesi», pubbliche e private. La stessa politica che Israele porta avanti in Palestina da 77 anni.

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