Articolo pubblicato originariamente su Al Jazeera. Traduzione a cura della redazione di Bocche Scucite
Il mio sogno d’infanzia era quello di studiare medicina. Volevo diventare un medico per aiutare le persone. Non avrei mai immaginato che avrei studiato medicina non in un’università, ma in un ospedale; non dai libri di testo, ma dall’esperienza diretta.
Dopo aver terminato la mia laurea in inglese l’anno scorso, ho deciso di iscrivermi alla facoltà di medicina dell’Università di al-Azhar. Ho iniziato gli studi alla fine di giugno. Con tutte le università di Gaza distrutte, noi studenti di medicina siamo costretti a guardare le lezioni sui nostri cellulari e a leggere i libri di medicina alla luce delle torce dei nostri telefonini.
Parte della nostra formazione consiste nel ricevere lezioni da studenti di medicina più anziani, che la guerra genocida ha costretto alla pratica prematuramente.
La mia prima lezione di questo tipo è stata tenuta da uno studente di medicina del quinto anno, il dottor Khaled, all’Ospedale dei Martiri di Al-Aqsa, a Deir el-Balah.
Al-Aqsa non assomiglia affatto a un normale ospedale. Non ci sono stanze bianche e spaziose né privacy per i pazienti. Il corridoio è la stanza, i pazienti giacciono sui letti o sul pavimento e i loro lamenti riecheggiano in tutto l’edificio.
A causa del sovraffollamento, dobbiamo tenere le lezioni in una roulotte nel cortile dell’ospedale.
“Vi insegnerò quello che ho imparato non dalle lezioni”, ha esordito il dottor Khaled, “ma dai giorni in cui la medicina era [qualcosa] da inventare”.
Ha iniziato con le nozioni di base: controllare la respirazione, aprire le vie respiratorie ed eseguire la rianimazione cardiopolmonare (RCP). Ma ben presto la lezione si è spostata su qualcosa che nessun programma normale avrebbe previsto: come salvare una vita senza nulla.
Il dottor Khaled ci ha raccontato un caso recente: un giovane uomo estratto da sotto le macerie, con le gambe distrutte e la testa sanguinante. Il protocollo standard prevede l’immobilizzazione del collo con uno stabilizzatore prima di spostare il paziente.
Così il dottor Khaled ha fatto ciò che nessun testo di medicina avrebbe insegnato: si è seduto a terra, ha cullato la testa dell’uomo tra le ginocchia e l’ha tenuta perfettamente immobile per 20 minuti fino all’arrivo dell’attrezzatura.
“Quel giorno”, ha detto, “non ero uno studente. Ero il tutore. Ero lo strumento”.
Mentre il medico supervisore preparava la sala operatoria, il dottor Khaled non si è mosso, nemmeno quando i muscoli hanno iniziato a dolere, perché era l’unica cosa che poteva fare per evitare ulteriori lesioni.
Questa storia non è stata l’unica che abbiamo sentito dal dottor Khaled riguardo a soluzioni mediche improvvisate.
Ce n’è stata una particolarmente dolorosa da ascoltare.
Una donna sulla trentina è stata portata in ospedale con una profonda ferita al bacino. La carne era lacerata. Aveva bisogno di un intervento chirurgico urgente. Ma prima bisognava sterilizzare la ferita.
Non c’era Betadine. Niente alcool. Niente strumenti puliti. Solo cloro.
Sì, cloro. La stessa sostanza chimica che brucia la pelle e punge gli occhi.
Non era cosciente. Non c’era alternativa. Le hanno versato il cloro.
Il dottor Khaled ci ha raccontato questa storia con una voce che tremava per il senso di colpa.
“Abbiamo usato il cloro”, ha detto, senza guardarci. “Non perché non sapessimo fare di meglio. Ma perché non c’era altro”.
Siamo rimasti scioccati da ciò che abbiamo sentito, ma forse non sorpresi. Molti di noi avevano sentito storie di misure disperate che i medici di Gaza avevano dovuto prendere. Molti di noi avevano visto il video straziante del dottor Hani Bseiso che operava sua nipote su un tavolo da pranzo.
L’anno scorso, il dottor Hani, chirurgo ortopedico del complesso medico di al-Shifa, si è trovato in una situazione impossibile quando sua nipote Ahed, di 17 anni, è rimasta ferita in un attacco aereo israeliano. Erano intrappolati nel loro appartamento a Gaza City, senza potersi muovere, poiché l’esercito israeliano aveva assediato la zona.
La gamba di Ahed era maciullata in modo irreparabile e sanguinava. Il dottor Hani non aveva molta scelta.
Non c’era anestesia. Non c’erano strumenti chirurgici. Solo un coltello da cucina, una pentola con un po’ d’acqua e un sacchetto di plastica.
Ahed giaceva sul tavolo da pranzo, con il viso pallido e gli occhi socchiusi, mentre lo zio, con gli occhi pieni di lacrime, si preparava ad amputarle la gamba. Il momento è stato ripreso in un video.
“Guardate”, ha gridato, con la voce rotta, “le sto amputando la gamba senza anestesia! Dov’è la misericordia? Dov’è l’umanità?”.
Ha lavorato velocemente, con le mani tremanti ma precise, la sua preparazione chirurgica si è scontrata con l’orrore crudo del momento.
Questa scena si è ripetuta innumerevoli volte in tutta Gaza, quando anche bambini piccoli hanno dovuto subire amputazioni senza anestesia. E noi, come studenti di medicina, stiamo imparando che questa potrebbe essere la nostra realtà; che anche noi potremmo dover operare un parente o un bambino guardando e ascoltando il loro dolore insopportabile.
Ma forse la lezione più difficile che stiamo imparando è quando non curare, quando le ferite non sono più salvabili e le risorse devono essere spese per coloro che hanno ancora una possibilità di sopravvivenza. In altri Paesi, questa è una discussione etica teorica. Qui, è una decisione che dobbiamo imparare a prendere perché presto potremmo doverla prendere noi stessi.
Il dottor Khaled ci ha detto: “Alla scuola di medicina ti insegnano a salvare tutti. A Gaza si impara che non si può, e si deve convivere con questo”.
Questo è ciò che significa essere un medico a Gaza oggi: portare il peso disumano della consapevolezza di non poter salvare tutti e andare avanti; sviluppare un livello sovrumano di resistenza emotiva per assorbire una perdita dopo l’altra senza cedere e senza perdere la propria umanità.
Queste persone continuano a curare e a insegnare, anche quando sono esauste, anche quando muoiono di fame.
Un giorno, a metà di una lezione di traumatologia, il nostro istruttore, il dottor Ahmad, ha interrotto la frase, si è appoggiato al tavolo e si è seduto sussurrando:”Ho bisogno di un minuto. Ho gli zuccheri bassi”.
Sapevamo tutti che non aveva mangiato dal giorno precedente. La guerra non solo sta esaurendo le medicine, ma sta consumando i corpi e le menti stesse di coloro che cercano di curare gli altri. E noi, gli studenti, stiamo imparando in tempo reale che qui la medicina non è solo conoscenza e abilità. Si tratta di sopravvivere abbastanza a lungo da poterle usare.
Essere un medico a Gaza significa reinventare la medicina ogni giorno con ciò che si ha a disposizione, curando senza strumenti, rianimando senza attrezzature e fasciando con il proprio corpo.
Non è solo una crisi di risorse. È una prova morale.
E in questa prova, le ferite sono profonde: nella carne, nella dignità, nella speranza stessa.

[…] dalla “devastazione che si è dispiegata davanti agli occhi del mondo”. ( https://bocchescucite.org/difendere-la-dignita-e-la-presenza-del-popolo-di-gaza/ ) Mai così espliciti e rinunciando…
Grazie per il vostro coraggio Perché ci aiutate a capire. Fate sentire la voce di chi non ha voce e…
Vorrei sapere dove sarà l'incontro a Bologna ore 17, grazie
Parteciperò alla conferenza stampa presso la Fondazione Basso il 19 Mercoledì 19 febbraio. G. Grenga
Riprendo la preghiera di Michel Sabbah: "Signore...riconduci tutti all'umanità, alla giustizia e all'amore."