C’era una volta la città di Gaza

Fonte: Newsletter sul Medio Oriente di Internazionale a cura di Francesca Gnetti

Foto di copertina: La città di Gaza nel luglio del 2022. (Mohammed Salem, Reuters/Contrasto)

Antico crocevia di traffici e commerci; luogo di transito, d’incontri e cultura, con una storia ricca e millenaria. Famosa per il suo porto e le sue tradizioni culinarie. Il suo nome deriva dalle lingue semitiche e probabilmente significa “forza”, “coraggio”. La città di Gaza è una delle più antiche al mondo. La posizione strategica a cavallo tra Africa e Asia porta l’antico Egitto a fondare, nel 3.500 aC., la cittadella di Tell Sakan sulle rive del Wadi Ghazzeh, un torrente che oggi è prosciugato per la maggior parte dell’anno ma nell’età del bronzo poteva essere navigabile, a circa dodici chilometri dalla città moderna.

Nei secoli l’area è conquistata da vari imperi e invasori: filistei, egizi, assiri, persiani, Alessandro Magno, romani, bizantini, moghul, ottomani e Napoleone Bonaparte. Nel 1917 diventa parte del mandato britannico e nel 1948, isolata lungo la costa mediterranea dalla creazione dello stato d’Israele, accoglie duecentomila profughi palestinesi cacciati dalle loro terre. Come ricostruisce Le Monde in un approfondimento con mappe e cartine, Gaza passa sotto l’amministrazione egiziana dopo la prima guerra arabo-israeliana (1948-1949) ed è conquistata e occupata da Israele nel 1967. Diventa il centro politico dell’Autorità nazionale palestinese nel 1994, quando Yasser Arafat, tornato dall’esilio in seguito agli accordi di Oslo, ci stabilisce il suo governo.

Quando Hamas prende il controllo totale della Striscia nel 2007, la città diventa il fulcro del suo potere. Prima del 7 ottobre 2023 ci vivono 900mila persone: con circa 14mila abitanti per chilometro quadrato è una delle aree più densamente popolate al mondo. I campi profughi allestiti nei dintorni sono inglobati nel suo tessuto urbano, in particolare Al Shati, dove quasi 96mila persone vivono in poco più di mezzo chilometro quadrato, e Jabalia, quasi 120mila abitanti in meno di 1,5 chilometri quadrati.

Nonostante il blocco aereo, navale e terrestre imposto da Israele e dall’Egitto fin dal 2007 e le quattro guerre scatenate da Tel Aviv sul territorio (2008-2009, 2011, 2014, 2021), la città di Gaza ha continuato a pullulare di vita. Un articolo del Guardian di qualche anno fa descrive i dieci quartieri della città, ognuno “con il suo ritmo e la sua reputazione”. C’è Al Rimal, il più carino, sede dei negozi più raffinati, delle agenzie delle Nazioni Unite e di molte ong. Vi si trovano anche gli atenei più prestigiosi – l’Università islamica, Al Azhar e l’Università Al Aqsa, che distano poche centinaia di metri l’una dall’altra – e gli edifici più alti e conosciuti. Ha sede qui anche l’ospedale Al Shifa, il più grande e importante di tutta la Striscia. La piazza del Milite ignoto è il più ampio spazio aperto della città, sempre piena di traffico, musica e giochi per bambini.

Nella città vecchia si trovano molti siti storici, tra cui la moschea Omari, uno dei principali simboli del passato millenario della Striscia, e due chiese importanti: quella anglicana di san Filippo e la greco-ortodossa di san Porfirio. C’è anche l’ospedale Al Ahli, risalente alla fine dell’ottocento. Poco lontano il mercato Al Zawiya riempie l’aria dell’odore delle spezie e della frutta fresca. A est il quartiere Shejayia, il più grande della città, è un dedalo di edifici in cemento e stradine. Il suo nome deriva dalla parola shajaa’, coraggio, ed è noto per aver dato asilo negli anni ai combattenti più agguerriti. Vicino alla spiaggia, scriveva il Guardian, “i suoni e il ritmo del mare si mescolano ai clacson delle auto e alle occasionali esalazioni di liquami, mentre la città di Gaza offre insieme il dolce e l’amaro”.

Tutto questo non esiste più. Ieri Israele ha avviato la sua offensiva di terra e presto Gaza sarà cancellata dalla mappa, come già successo ad altre città della Striscia, per esempio Rafah, nel sud. Le operazioni dell’esercito si sono inasprite dall’inizio di agosto, quando Tel Aviv ha approvato un piano per prendere il controllo totale della città. Nell’ultima settimana sono stati rasi al suolo gli edifici residenziali più importanti come le torri Mushtaha e Al Ghafri, entrambe punti di riferimento nel quartiere Al Rimal. L’esercito israeliano giustifica ogni abbattimento sostenendo che Hamas usava gli edifici come centri operativi o posti di osservazione, senza però fornire mai prove.

Nel suo intervento di ieri, Pierre Haski parla della storia e del significato del termine “urbicidio”, creato per indicare, letteralmente, l’uccisione di una città e che a Gaza sta assumendo un senso ancora più spaventoso perché “qui la distruzione è sistematica, studiata e voluta”. Dopo giorni di bombardamenti incessanti, il 9 settembre Israele ha ordinato a tutti gli abitanti di Gaza, tramite volantini lanciati dal cielo o messaggi sui social media, di andarsene subito in vista dell’invasione via terra. Quasi un milione di persone deve scegliere se lasciare la propria casa e la propria terra, probabilmente per sempre, o restare e affrontare l’arrivo dei soldati israeliani. In ogni caso nessuno è al sicuro.

Un nuovo flusso di persone si è messo in cammino lungo la strada costiera su veicoli di fortuna, animali o a piedi verso il sud della Striscia, in particolare la zona di Al Mawasi, definita umanitaria dai militari israeliani che l’hanno comunque attaccata più volte. In un articolo pubblicato su The New Arab e tradotto nel prossimo numero di Internazionale, online da domani e in edicola dal 19 settembre, la corrispondente da Gaza Sally Ibrahim racconta questo esodo verso l’ignoto, lasciandosi alle spalle una “città di fantasmi”.

Negli articoli usciti nella copertina di fine agosto, tre giornaliste della Striscia di Gaza – Nour ElassyNoor Alyacoubi e Sara Awad – raccontano cosa significa essere costretti ad abbandonare la propria casa e gli affetti di una vita per cercare di mettersi in salvo. Awad, scrittrice e studente di letteratura inglese conclude il suo intervento con un appello: “Non dimenticatevi della gente di Gaza e dei loro due milioni di storie d’amore, di angoscia e di perseveranza. Non dimenticate la mia città, Gaza, un’antica metropoli piena di storia e cultura. Non dimenticate quanto strenuamente abbiamo resistito e ci siamo tenuti stretti alle nostre case e alla nostra terra, anche quando il mondo ci ha abbandonati”.

Le organizzazioni umanitarie hanno avvertito delle terribili conseguenze dell’invasione israeliana a Gaza. A fine agosto le Nazioni Unite hanno dichiarato ufficialmente che nel territorio palestinese c’è la carestia. Il rapporto del comitato dell’Integrated food security phase classification (Ipc, uno strumento sviluppato dall’Onu per valutare la gravità delle crisi alimentari) ha confermato per la prima volta che nel governatorato di Gaza (che corrisponde al 20 per cento del territorio palestinese e comprende la città omonima) è stata raggiunta la fase 5, cioè la carestia. Entro la fine di settembre questa condizione potrebbe riguardare un terzo della popolazione complessiva della Striscia. 

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