Non si può morire per procurarsi il cibo

Articolo pubblicato originariamente su EU Observer. Traduzione a cura di Veronica Bianchini per Bocche Scucite.

Foto ci copertina: Palestinesi sfollati in attesa di ricevere un pasto a Gaza City, 17 maggio 2025.  © 2025 Saher Alghorra/ZUMA Press via Reuters

 

La comunità internazionale invii un convoglio diplomatico per fermare la carestia a Gaza

Di Omar Shakir, Direttore per Israele e Palestina, Divisione Medio Oriente e Nord Africa e Shahd Hammouri, professore, università di Kent

Le immagini dei centri per la distribuzione di aiuti umanitari aperti a Gaza di recente, appoggiati da Israele e sostenuti dagli Stati Uniti, sono spaventose: palestinesi che si accalcano per ricevere del cibo, folle respinte, il rumore degli spari che risuona nell’aria.

Negli ultimi giorni le forze israeliane hanno aperto il fuoco su palestinesi che cercavano di procurarsi del cibo per sé e la propria la famiglia, uccidendo, secondo quanto è stato riferito, almeno 163 persone.

Questi centri per la distribuzione degli aiuti non soltanto sono letali, ma non risolvono la situazione di fame estrema , che le autorità palestinesi hanno dichiarato essere ormai una carestia. Sono 60 i bambini già morti di fame e le Nazioni Unite hanno dichiarato Gaza “il posto più affamato al mondo”.

Invece di consegnare cibo alle persone che ne hanno bisogno in tutta Gaza, questi centri di distribuzione contribuiscono ulteriormente agli sfollamenti forzati, che alcuni funzionari israelini hanno già apertamente e senza alcun pudore ammesso essere il loro obiettivo finale.

Tuttavia c’è un altro modo per far arrivare cibo alla popolazione di Gaza: costituire un convoglio diplomatico umanitario che possa rompere l’assedio imposto da Israele.

Gli attuali centri per la distribuzione degli aiuti sono stati messi in piedi ​​dopo oltre 11 settimane di blocco totale imposto da Israele a Gaza: niente cibo, nientemedicine, solo bombe e crudeltà burocratica. L’impatto degli scarsi aiuti erogati è stato irrisorio. Le madri cullano neonati scheletrici e rovistano tra le macerie in cerca di avanzi. I pescatori vengono uccisi per aver gettato in mare le reti. I malati cronici restano senza acesso ai farmaci I camion degli aiuti vengono saccheggiati sotto la sorveglianza dei droni israeliani.

Non si tratta di danni collaterali, ma di una strategia messa in atto per creare condizioni di vita tali da distruggere fisicamente i Palestinesi di Gaza, in tutto o in parte. E non è iniziato tutto con l’ultima escalation: nel corso di 18 anni di blocco su Gaza e 19 mesi di ostilità, le autorità israeliane hanno commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità, compreso lo sterminio, e atti di genocidio.

Invece di fermare queste atrocità, gli Stati Uniti, principali alleati di Israele, le facilitano fornendo bombe, appoggiando l’accelerazione della pulizia etnica e ora sostenendo e quindi legittimando questo piano distopico per la distribuzione degli aiuti. I centri di distribuzione, gestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation di recente costituzione, operano in stretto coordinamento con le forze israeliane e sono gestiti da società militari private (contractor), violando uno dei più fondamentali principi del diritto umanitario: gli aiuti devono essere imparziali.

Secondo tale piano non sono gli aiuti a raggiungere i palestinesi, ma sono invece i palestinesi – la maggior parte dei quali sono stati già ripetutamente sfollati, , e decine di migliaia sono affetti da ferite croniche – dover attraversare zone di conflitto attivo per raggiungere i cosiddetti centri di distribuzione, situati in aree in cui le forze israeliane, che hanno utilizzato la fame come arma di guerra, stanno cercando di concentrare la popolazione.

Il messaggio di fondo è chiaro: i palestinesi possono mangiare solo ciò che Israele consente, quando e dove lo consente, ed è Israele – potenza occupante determinata a sterminarli – a decidere che può avere accesso al cibo.

Le autorità israeliane hanno dichiarato apertamente di voler svuotare Gaza. A marzo 2025,hanno creato un organo governativo la cui funzione è facilitare la migrazione “volontaria” dei palestinesi da Gaza. Il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir rivendica il diritto di “tornare a Gush Katif” (ex insediamenti illegali a Gaza). Le “zone umanitarie” sono trappole, un modo per radunare i Palestinesi in aree concentrate dove possono essere più facilmente controllati e persino espulsi, favorendo ulteriori sfollamenti forzati e pulizia etnica.

L’affidamento della gestione a contractor militari, già tristemente noti per ciò che hanno fatto in Iraq e Afghanistan, e che è difficile chiamare a rispondere del proprio operato, è particolarmente inquietante. Il vuoto legale che circonda i contractor li rende strumenti perfetti per negare di essere coinvolti in determinati fatti conservando una certa credibilità (in inglese “plausible deniability”), come abbiamo già visto quando le autorità israeliane hanno inizialmente negato di aver aperto il fuoco sui palestinesi affamati che accorrevano in cerca di aiuti. Chi sarà ritenuto responsabile in questi casi?

Non basta che i Paesi dell’Ue e del mondo condannino questi nuovi centri per la distribuzione degli aiuti: è necessario che adottino azioni concrete per contrastare i gravi abusi commessi da Israele.

La Corte internazionale di giustizia (CIG) ha già stabilito a gennaio del 2024 che le azioni di Israele a Gaza comportano “un rischio reale e imminente” di compromettere in modo irreversibile il “diritto dei palestinesi a essere protetti da atti di genocidio”. La Corte penale internazionale (CPI) ha emesso mandati di arresto nei confronti del primo ministro israeliano Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Gallant.

Secondo la Convenzione sul genocidio, tutti i Paesi hanno l’obbligo di prevenire un genocidio non appena apprendano del rischio che possa verificarsene uno. Secondo la CIG gli stati devono cooperare per porre fine all’occupazione illegale della Palestina. Secondo le Convenzioni di Ginevra gli stati hanno l’obbligo di assicurarsi che la Convenzione sia rispettata in tutte le circostanze. Tali obblighi sono al centro del sistema legale internazionale, pensato per prevenire crimini che segnano in modo irreversibile la coscienza dell’umanità. Quando una potenza occupante usa la fame come arma di guerra, gli altri Paesi devono agire.

Le organizzazioni della società civile palestinese, insieme a oltre altre 900 organizzazioni, chiedono che sia costituito un convoglio diplomatico umanitario in grado di rompere l’assedio, ossia una coalizione composta da diplomatici che accompagnino i camion di aiuti attraverso Rafah o per mare scavalcando il blocco imposto da Israele. Il piano è semplice: si chiede a ogni stato di impegnarsi a inviare una delegazione diplomatica per scortare la distribuzione di aiuti a Gaza. Se un numero sufficiente di stati aderisce, la pressione diplomatica potrebbe essere così forte da consentire agli aiuti di raggiungere effettivamente i palestinesi. Ciò non è soltanto fattibile dal punto di vista logistico, ma è una richiesta fondata sugli obblighi legali che gravano sugli stati.

Gli scettici obietteranno: “E Hamas?”, ma la verità è che gli aiuti umanitari non sono mai soggetti a condizioni. Affamare i civili, anche quando il fine dichiarato fosse quello di indebolire i militanti, è un crimine di guerra, punto.

Altri invece ci metteranno in guardia dal rischio di un’ulteriore escalation, ma quella c’è già stata: Israele ha già alzato moltissimo il livello dello scontro, e Gaza è già largamente ridotta a un cumulo di macerie. Il rischio reale è quello dell’inazione, di consentire a Israele di normalizzare l’uso della fame come arma di guerra e di fare a pezzi l’ordine legale internazionale.

Non si tratta soltanto di Gaza. Si tratta di capire fino a che punto gli stati abbiano a cuore le sorti del diritto internazionale. Se il mondo accetta il blocco israeliano, apriamo le porte a un futuro in cui vale la legge del più forte.

I convogli diplomatici umanitari non servono soltanto ad assicurare la distribuzione di cibo, ma a riaffermare il principio secondo cui nessun governo ha il diritto di decidere chi mangia e chi muore di fame. Il tempo delle esitazioni è finito. Ora è tempo di agire.

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