Occupazione israeliana della Palestina, 30 nazioni si sono riunite in Colombia per discutere la fine

Articolo pubblicato originariamente su Wired

Tra queste Cina, Spagna e Qatar. Per la relatrice dell’Onu Francesca Albanese è lo “sviluppo politico più significativo degli ultimi 20 mesi” sulla crisi mediorientale

Trenta paesi si sono riuniti a Bogotà per coordinare iniziative contro l’occupazione israeliana della Palestina. Alla conferenza di due giorni, iniziata il 15 luglio, partecipano anche Cina, Spagna e Qatar, impegnati ad attuare la risoluzione dell’Onu che invita gli Stati membri a fermare l’occupazione entro settembre 2025.

L’incontro, ospitato dal presidente colombiano Gustavo Petro, è promosso dal “Gruppo dell’Aia”, il network di paesi nato dopo il parere della Corte internazionale di giustizia che ha dichiarato illegale l’occupazione israeliana della Palestina. La conferenza assume particolare rilevanza dopo le sanzioni imposte dagli Stati Uniti alla funzionaria dell’Onu Francesca Albanese, la relatrice speciale per i territori occupati accusata da Washington di aver promosso “in modo vergognoso” azioni della Corte penale internazionale contro gli Stati Uniti e Israele. Nonostante le pressioni americane, Albanese ha definito questo incontro “lo sviluppo politico più significativo degli ultimi 20 mesi.

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Ma cosa possono fare concretamente questi trenta paesi? La sentenza della Corte ha creato obblighi legali vincolanti per tutti i 193 stati membri dell’Onu: nessun paese può più fornire aiuto di qualsiasi tipo per mantenere l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Questo apre la strada a una serie di misure concrete, a partire dall’embargo totale sulle armi, che significa bloccare vendite di armi, munizioni, equipaggiamento militare e anche componenti utilizzabili nei territori occupati. Paesi come Spagna e Belgio hanno già iniziato a sospendere le licenze per l’esportazione di armi verso Israele, mentre l’Olanda ha bloccato la vendita di componenti per i caccia F-35.

Altre misure riguardano porti e aeroporti: i governi possono vietare l’attracco di navi e l’atterraggio di aerei che trasportano equipaggiamento militare diretto in Israele. Sul fronte economico, i paesi stanno valutando il blocco degli scambi commerciali con gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi, vietando l’importazione di prodotti come vino, frutta, cosmetici o tecnologia che arrivano da queste zone considerate illegali dal diritto internazionale. L’Irlanda ha già annunciato che introdurrà legislazione per bandire i prodotti degli insediamenti, mentre la Francia sta valutando misure simili.

Le misure più drastiche includono sanzioni individuali contro ministri e funzionari israeliani responsabili della politica di insediamento – come il congelamento dei beni personali e il divieto di ingresso nel paese – ma anche la sospensione degli accordi di cooperazione scientifica e accademica con Israele. Il Brasile ha già richiamato il suo ambasciatore da Tel Aviv in segno di protesta. Tuttavia, molti paesi europei esitano ad adottare misure severe per non compromettere i rapporti commerciali: Israele rappresenta un partner importante soprattutto nel settore tecnologico e della difesa, con scambi che valgono miliardi di euro. La Germania, per esempio, ha chiarito che continuerà a sostenere il diritto di Israele alla sicurezza nonostante la sentenza della Corte.

Il Gruppo dell’Aia: l’alleanza che sfida Israele

Proprio per superare queste resistenze e coordinare le azioni nasce il Gruppo dell’Aia, fondato nel gennaio 2024 da Sudafrica e Colombia con l’obiettivo dichiarato di trasformare le sentenze dei tribunali internazionali in azioni concrete invece di limitarsi alle solite condanne verbali. Il nome deriva dalla città dove ha sede la Corte internazionale di giustizia, e secondo i suoi promotori rappresenta l’unica iniziativa multilaterale seria per implementare le decisioni legali contro l’occupazione israeliana. Il gruppo aveva già tenuto una conferenza più piccola a gennaio con nove nazioni per implementare le misure temporanee del caso genocidio.

Oggi il gruppo conta membri con pesi politici ed economici molto diversi: dalla Cina, seconda economia mondiale che mantiene rapporti commerciali significativi con Israele ma vuole mostrarsi leader del mondo in via di sviluppo, al Qatar, che può permettersi posizioni più decise avendo pochi scambi economici con Israele e volendo consolidare il suo ruolo di mediatore regionale. La Spagna deve bilanciare la posizione con i partner europei e della Nato, mentre AlgeriaBrasile e Indonesia vedono nel caso palestinese un simbolo della lotta contro il colonialismo. Questa eterogeneità rappresenta sia la forza che la debolezza del gruppo: permette di avere un peso diplomatico globale, ma rende complesse le decisioni su misure drastiche.

La conferenza di Bogotà rappresenta il tentativo più ambizioso del gruppo di passare dalle parole ai fatti, concordando un piano coordinato di sanzioni che ogni paese può applicare secondo le proprie possibilità e vincoli interni. Il vero test sarà politico: riuscire a mantenere unita una coalizione così varia di fronte alle crescenti pressioni degli Stati Uniti, che considerano l’iniziativa controproducente per i negoziati di pace. Le tensioni si sono intensificate dopo le sanzioni americane contro Albanese, la cui presenza a Bogotà è diventata un simbolo della resistenza alle pressioni di Washington, anche se molti paesi del gruppo preferirebbero evitare uno scontro frontale con l’amministrazione americana che potrebbe complicare altri dossier diplomatici.

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