Taybeh resiste. Cristiani palestinesi in prima linea

Articolo pubblicato originariamente sul Manifesto

Di Michele Giorgio

Padre Bashar Fawadleh ha meno di trent’anni. Non veste da prete, il look è quello degli altri giovani palestinesi di Taybeh. Malgrado la giovane età, ha ricevuto l’incarico delicato di parroco della chiesa cattolica di Cristo Redentore, al centro del villaggio, l’unico in Cisgiordania abitato interamente da cristiani. «Sì, il mio è un compito delicato, non per questioni religiose bensì per la vita quotidiana degli abitanti.

Taybeh affronta ogni giorno nuove sfide e nuovi pericoli, e ognuno di noi deve dare il massimo per la nostra comunità», ci dice mentre legge sul telefono le notizie che giungono da Gaza. Da poco c’è stato il bombardamento israeliano sulla chiesa della Sacra Famiglia, che ha ucciso due persone e ferito padre Gabriel Romanelli, il parroco di Gaza City che conversava con papa Francesco.

«Non hanno più limiti (gli israeliani): attaccano tutto e tutti, moschee, chiese, civili, donne, bambini. Ogni giorno assistiamo o apprendiamo di storie terribili e ci chiediamo come il mondo possa permettere che venga fatto tutto questo al popolo palestinese», commenta, senza togliere gli occhi dal telefono.

«Non hanno più limiti (gli israeliani): attaccano tutto e tutti, moschee, chiese, civili, donne, bambini. Ogni giorno assistiamo o apprendiamo di storie terribili e ci chiediamo come il mondo possa permettere che venga fatto tutto questo al popolo palestinese»Padre Bashar Fawadleh

PADRE BASHAR, poco prima, è tornato dalle campagne alle spalle della chiesa bizantina di San Giorgio (V secolo). In quel luogo, qualche giorno fa, i capi delle Chiese – tra cui il Patriarca latino (cattolico) di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa – hanno manifestato solidarietà e chiesto protezione per Taybeh, soggetta come gli altri villaggi a est di Ramallah a continue scorribande e intimidazioni da parte di coloni israeliani. Nei vicini Kufr Malik e Sinjil, sono stati uccisi, nell’ultimo mese, cinque palestinesi, colpiti dal fuoco dei coloni e dei soldati israeliani giunti a proteggerli.

«Danno fuoco a case e auto, sparano, ammazzano, fanno ciò che vogliono e nessuno li ferma», spiega il sacerdote. «Questa mattina (ieri) un colono ha portato le sue mucche a pascolare quasi dentro la chiesa di San Giorgio», ci racconta. «Gli abbiamo detto che quello è un luogo religioso, un sito storico, e non può portarci il bestiame. Non ci ha degnati di una risposta; anzi, a un certo punto ha agitato un bastone per minacciarci. È andato via quando ha deciso di farlo, incurante delle nostre proteste».

L’ACCELERAZIONE delle intimidazioni e dei raid dei coloni ha contribuito al declino di Taybeh, considerata un «gioiello» in Palestina, aggravando il pericolo di una espulsione indiretta dei palestinesi. Benyamin Netanyahu e Donald Trump la chiamano «emigrazione volontaria» e, con le bombe e la costruzione di «città umanitarie» sul confine con l’Egitto (campi di internamento per sfollati), vogliono imporla ai palestinesi di Gaza.

«Anche qui in Cisgiordania facciamo i conti con quella politica, anche se in forme diverse», ci dice Anton, seduto dietro a un banco nel suo negozio. «Nelle ultime settimane — racconta — i coloni hanno creato un avamposto all’estremità orientale di Taybeh. Quella è una zona agricola vitale, ben 17.000 dunum (1.700 ettari). È il sostentamento economico per tante famiglie del villaggio. Ci sono migliaia di ulivi, allevamenti di pollame e pecore, e ampi campi coltivati. I nostri contadini, però, sempre più spesso sono bloccati durante il raccolto, costretti ad abbandonare le olive. E ora i coloni mandano le loro mucche e pecore a mangiare ortaggi e verdure nelle nostre terre».

Tanti pensano a lasciare Taybeh, alcuni lo fanno. «Solo negli ultimi mesi, più di dieci famiglie hanno deciso di trasferirsi all’estero», ci riferisce padre Bashar. «Se si tiene conto che la popolazione è di 1.200 persone, vuol dire che quasi il 10% degli abitanti è andato via. Chi parte va negli Usa, in Guatemala e in Cile, dove hanno parenti e vivono migliaia di persone originarie di Taybeh. Lì trovano una vita normale, senza oppressione, uccisioni e pericoli».

Si calcola che la popolazione cristiana in Cisgiordania sia scesa sotto le 40.000 persone, rispetto alle 46.000 del 2017. Una tendenza destinata a continuare, per l’instabilità economica, i raid dei coloni, le restrizioni e il dissolversi della speranza di una vita migliore.

«I palestinesi cristiani sono palestinesi come tutti gli altri: resistiamo, non ci arrendiamo, perché questa è la nostra terra. Ci basta poco per sopravvivere»Butheina Khouri

BUTHEINA KHOURI, 52 anni, non ha la minima intenzione di fare i bagagli. «I palestinesi cristiani sono palestinesi come tutti gli altri: resistiamo, non ci arrendiamo, perché questa è la nostra terra. Ci basta poco per sopravvivere», dice accogliendoci nella sua abitazione, accanto al birrificio e alla casa vinicola che portano il nome del villaggio. «Nel 1994, dopo la firma degli Accordi di Oslo (tra Israele e OLP, nda), ci siamo illusi che la Palestina avrebbe avuto il suo Stato indipendente e la nostra economia avrebbe spiccato il volo. Così mio fratello Nadim ed io decidemmo di dare vita a questa azienda. Ma siamo in affanno», spiega, mentre osserva gli unici tre operai a cui ancora riesce a garantire il salario.

«L’occupazione israeliana ci ha tolto l’aria – aggiunge Butheina Khouri -. Trasportare i fusti di birra e il vino da un posto all’altro è sempre più difficile a causa dei posti di blocco militari e delle chiusure. Facciamo fatica a garantire le forniture a negozi e ristoranti. I coloni fanno il resto. Noi non ce ne andremo, ma temo che altri lo faranno, palestinesi cristiani e musulmani. Gli occupanti ci rendono esausti e infelici per mandarci via. Il mondo, purtroppo, sembra non capirlo».

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