Yahya Sinwar. la morte con cui e’ sopravvissuto

Articolo pubblicato sulla pagina Fb di Francesca Borri

L’orologio. Mi è bastato quello. Mancava ancora l’esito del test del DNA, e la sua morte non era ufficiale: ma certo che quel corpo era il corpo di Yahya Sinwar. Aveva sempre questo orologio di acciaio che si notava subito, perché era un orologio un po’ anni ’80, diceva: Non segna l’ora, segna il tempo. Il valore del tempo.

Diceva: Perché ho già sprecato troppa vita.

Era uno molto normale. Se aveva una caratteristica, era non avere caratteristiche. Era uno come tanti. Non conquistava la scena, quando arrivava. Anzi. Yahya Sinwar era uno molto semplice. Molto essenziale, sempre in camicia. In camicia grigia. O celeste. Non amava stare in primo piano. E in fondo, a Gaza chiunque avrebbe potuto essere Yahya Sinwar. O meglio: diventarlo. Tu sei italiana, mi diceva. Per te è diverso. Tu decidi la tua vita. Decidi che studiare, dove vivere. Cosa essere. Ma se sei palestinese, è la vita che ti decide.

E per vita intendeva: l’Occupazione.

Non ha vissuto altro.

La tua è una vita di azioni, mi diceva: la mia, di reazioni.

La prima immagine che ho di Yahya Sinwar, del nostro primo incontro, in realtà è l’immagine di quello che aveva intorno. Era sera. E come ogni sera, c’erano questi ragazzini sulla spiaggia, che fissavano l’orizzonte: domandandosi come fosse il mondo di là dal mare. Come fosse la vita. A Gaza, hai questi bambini che chiedi quanti anni hanno, e ti dicono: Ho 7 anni e tre guerre. E mi disse: Vorrei solo che fossero come tutti gli altri. Che sognassero di diventare calciatori, astronauti. Che diventassero medici per curare il cancro, non i feriti.

Era stato 22 anni in carcere. Ma di Gaza diceva: Ho solo cambiato prigione.

Gaza non aveva più neppure acqua potabile. Solo acqua di mare. Acqua salata. All’inizio, nel 2007, quando Hamas, con un mezzo colpo di stato, si insediò al potere, e Israele sigillò le frontiere, l’IDF aveva calcolato le calorie minime indispensabili alla sopravvivenza, 2.279 a testa al giorno, in media: e non entrava niente di più.

Sembra una vita fa, ora. Ma quella mia intervista a Yahya Sinwar si intitolava: “Non voglio più guerre”. Era il 2018. Hamas aveva tentato di tutto, dai razzi agli attentati alle manifestazioni, aveva tentato la violenza e la non violenza: ma le frontiere erano ancora chiuse. E ormai, aveva contro larga parte dei palestinesi. E quindi, tentò la strada della tregua. Della trattativa. Solo che in parallelo, Netanyahu stava trattando molto di più: stava trattando gli Accordi di Abramo con gli Emirati Arabi. Era più forte di sempre. Non aveva motivo per un compromesso. E Hamas si ritrovò ancora più nell’angolo. Poi venne il Covid. E dopo il Covid, l’Ucraina. E i palestinesi era come se non esistessero più.

Il 7 Ottobre, il 2023 era già stato l’anno con più morti dalla Seconda Intifada.

Ma il mondo pensava fosse in corso un processo di pace.

Come diceva Yahya Sinwar: la pace della tomba.

Il 7 Ottobre, non mi ha colpito solo la ferocia dei miliziani di Hamas, con quei resti di kibbutz che non erano i resti di una battaglia, di uno scontro, non erano una scena di guerra: ma di macelleria. Mi hanno colpito gli altri. I palestinesi comuni. Quelli che hanno visto la barriera sfondata, e sono corsi dietro a quelli di Hamas. In uno dei video, c’è quest’uomo tutto stracci, magro, la barba sfatta, tutto sbilenco, ha le stampelle: ma si scaglia sul primo israeliano che incrocia. Anche così. Anche con una gamba sola.

Quanta esasperazione c’è, quanta disperazione, dietro una cosa così?

Yahya Sinwar voleva la fine dell’Occupazione.

Non parlava mai del Medio Oriente, dell’Islam. Degli Stati Uniti.

No. Solo l’Occupazione, l’Occupazione. L’Occupazione.

Probabilmente, il piano era un altro. Un’operazione più limitata: per avere abbastanza ostaggi da avere la fine dell’assedio – Yahya Sinwar stesso, no?, era stato rilasciato in uno scambio di prigionieri. Ma poi è andata come è andata. E a finire, invece, è stata Gaza.

In un certo senso, Yahya Sinwar era già morto. In questa guerra, la vera svolta è stata l’eliminazione di Nasrallah: con cui è stato chiaro a tutti che l’intervento arabo in cui Hamas tanto confidava non si sarebbe mai avuto. Tra l’altro, fino al 6 ottobre Hamas era detestata. Durante l’intervista, proprio mentre eravamo insieme, e Yahya Sinwar parlava di tregua, poco più in là sei presunte spie venivano giustiziate in piazza. Questo era Hamas. Anche questo. E adesso, aveva demolito Gaza con questo attacco calcolato male, e condotto peggio. Ma poi, all’improvviso, è arrivata questa immagine di quest’uomo nella polvere, che è ai suoi ultimi istanti, con una mano tranciata via: e che con le sue ultime forze, scaglia uno spezzone di legno al drone da cui è braccato. Ed è un’immagine che per gli arabi, è un’icona: l’icona di un nuovo Che Guevara. Questa è esattamente la morte che Yahya Sinwar cercava.

La morte con cui è sopravvissuto.

Per Hamas, non cambia niente. Hamas è finita, ormai. Politicamente, ma anche militarmente: è allo sbando. Restano le armi, sì. Restano degli uomini armati. Resta la capacità di trasformare Gaza in un Vietnam di attentati e imboscate. Ma niente di più. L’idea di Hamas, però, adesso è più potente di sempre.

Un anno, o cinque, o dieci: e si avrà un’altra Hamas.

La domanda è piuttosto: E Netanyahu, ora?

Perché sta a Israele decidere cosa diventeranno i ragazzini di Gaza.

Quelli che stanno fissando il mare, in questo momento, mentre Gaza, dietro, brucia.

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