14 anni senza Vittorio

14 anni fa veniva ucciso Vittorio Arrigoni.

Oggi lo vogliamo ricordare con alcuni suoi racconti da Gaza durante l’Operazione Piombo fuso tra il 2008 e il 2009 pubblicati nel libro “Restiamo Umani”

 

I – GUERNICA IN GAZA

27 dicembre 2008

Il mio appartamento di Gaza dà sul mare, una vista panoramica che mi ha sempre riconciliato il morale, spesso affranto da tanta miseria a cui è costretta una vita sotto l’assedio.

Prima di stamane. Quando dalla mia finestra si è affacciato l’inferno.

Ci siamo svegliati sotto le bombe stamane a Gaza, e molte sono cadute a poche centinaia di metri da casa mia.

E amici miei ci sono rimasti sotto.

Siamo a 210 morti accertati finora, ma il bilancio è destinato drammaticamente a crescere. Una strage senza precedenti. Hanno spianato il porto, dinnanzi a casa mia, e raso al suolo le centrali di polizia.

Mi riferiscono che i media occidentali hanno digerito e ripetono a memoria i comunicati diramati dai militari israeliani secondo i quali gli attacchi avrebbero colpito chirurgicamente solo le basi terroristiche di Hamas.

In realtà visitando l’ospedale di Al-Shifa, il principale della città, abbiamo visto nel caos d’inferno di corpi stesi sul cortile, alcuni in attesa di cure, la maggior parte di degna sepoltura, decine di civili.

Avete presente Gaza? Ogni casa è arroccata sull’altra, ogni edificio è posato sull’altro, Gaza è il posto al mondo a più alta densità abitativa, per cui se bombardi a diecimila metri di altezza è inevitabile che compi una strage di civili. Ne sei cosciente, e colpevole, non si tratta di errore, di danni collaterali.

Bombardando la centrale di polizia di Al Abbas, nel centro, è rimasta seriamente coinvolta nelle esplosioni la scuola elementare lì a fianco.

Era la fine delle lezioni, i bambini erano già in strada, decine di grembiulini azzurri svolazzanti si sono macchiati di sangue.

Bombardando la scuola di polizia Dair Al Balah, si sono registrati morti e feriti nel mercato lì vicino, il mercato centrale di Gaza. Abbiamo visto corpi di animali e di uomini mescolare il loro sangue in rivoli che scorrevano lungo l’asfalto. Una Guernica trasfigurata nella realtà.

Ho visto molti cadaveri in divisa nei vari ospedali che ho visitato, molti di quei ragazzi li conoscevo. Li salutavo tutti i giorni quando li incontravo sulla strada recandomi al porto, o la sera camminando verso i caffè del centro.

Diversi li conoscevo per nome. Un nome, una storia, una famiglia mutilata.

La maggior parte erano giovani, sui diciotto vent’anni, per lo più non politicamente schierati nè con Fatah nè Hamas, ma che semplicemente si erano arruolati nella polizia finita l’università, per avere assicurato un posto lavoro in una Gaza che sotto il criminale assedio israeliano vede più del 60% della popolazione disoccupata.

Mi disinteresso della propaganda, lascio parlare i miei occhi, le mie orecchie tese allo stridìo delle sirene e dai boati del tritolo.

Non ho visto terroristi fra le vittime di quest’oggi, ma solo civili e poliziotti.

Esattamente come i nostri poliziotti di quartiere, i poliziotti palestinesi massacrati dai bombardamenti israeliani se ne stavano tutti i giorni dell’anno a presidiare la stessa piazza, lo stesso incrocio, la stessa strada.

Solo ieri notte li prendevo in giro per come erano imbacuccati per ripararsi dal freddo, dinnanzi a casa mia.

Vorrei che almeno la verità rendesse giustizia a queste morti.

Non hanno mai sparato un colpo verso Israele, nè mai lo avrebbero fatto, non è nella loro mansione. Si occupavano di dirigere il traffico, e della sicurezza interna,  tanto più che al porto siamo ben distanti dai confini israeliani.

Ho una videocamera con me ma ho scoperto oggi di essere un pessimo cameraman, non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime.

Non ce la faccio. Non riesco perché piango anche io.

All’ospedale Al-Shifa con gli altri internazionali dell’ISM ci siamo recati a donare il sangue. E lì abbiamo ricevuto la telefonata che Sara, una nostra cara amica è rimasta uccisa da un frammento di esplosivo mentre si trovava vicino alla sua abitazione nel campo profughi di Jabalia. Una persona dolce, un’anima solare, era uscita per comprare il pane per la sua famiglia. Lascia 13 figli.

Poco fa mi invece mi  ha chiamato da Cipro Tofiq.

Tofiq è uno dei fortunati studenti palestinesi che grazie alle nostre barche del Free Gaza Movement è riuscito a lasciare l’immensa prigionia di Gaza e ricominciare altrove una vita nuova. Mi ha chiesto se ero andato a trovare suo zio e se l’avevo salutato da parte sua, come gli avevo promesso. Titubante mi sono scusato perchè non avevo ancora trovato il tempo.

Troppo tardi, è rimasto sotto alle macerie del porto insieme a tanti altri.

Da Israele giunge la terribile minaccia che questo è solo il primo giorno di una campagna di bombardamenti che potrebbe protrarsi per due settimane.

 

Faranno il deserto,

e lo chiameranno pace.

 

Il silenzio del “mondo civile” è molto più assordante delle esplosioni che ricoprono la città come un sudario di terrore e morte.

Restiamo umani.

II – UN LENTO MORIRE IN VANO ASCOLTO

29 dicembre 2008

Nell’aria acre odore di zolfo, nel cielo lampi intermezzano fragorosi boati.

Ormai le mie orecchie sono sorde dalle esplosioni e i miei occhi aridi di lacrime dinnanzi ai cadaveri.

Mi trovo dinnanzi all’ospedale di Al-Shifa, il principale di Gaza, ed è appena giunta la terribile minaccia che Israele avrebbe deciso di bombardare la nuova ala in costruzione.

Non sarebbe una novità, ieri è stato bombardato l’ospedale Wea’m.

Insieme ad un deposito di medicinali a Rafah, l’università islamica (distrutta),

e diverse moschee sparse per tutta la Striscia.

Oltre a decine di infrastrutture CIVILI.

Pare che non trovando più obbiettivi “sensibili”,

l’aviazione e la marina militare si dilettino nel bersagliare luoghi sacri, scuole e ospedali.

 

E’ un 11 settembre ad ogni ora, ogni minuto, da queste parti,

e il domani è sempre un nuovo giorno di lutto, sempre uguale.

Si avvertono gli elicotteri e gli aerei costantemente in volo,

quando vedi il lampo sei già spacciato, è troppo tardi per mettersi in salvo.

Non ci sono bunker antibombe in tutta la Striscia, nessun posto è al sicuro.

Non riesco a contattare più amici a Rafah, neanche quelli che abitano a Nord di Gaza City,

spero perchè le linee sono intasate.

Ci spero.

 

Sono 60 ore che non chiudo occhio, e come me tutti i gazawi.

Ieri io e altri 3 compagni dell’ISM abbiamo trascorso tutta la nottata all’ospedale di Al-Awda del campo profughi di Jabalia. Ci siamo andati perchè temevamo la tanto paventata incursione di terra che poi non si è verificata.

Ma i carri armati israeliani stazionano pronti lungo il confine tutto il confine della Striscia,

i loro cingoli affamati di corpi pare si metteranno in funerea marcia questa notte.

Verso le 23:30 una bomba è precipitata a circa800 metridall’ospedale, l’onda d’urto ha mandato in frammenti diversi vetri delle finestre, aggravando le condizioni dei pazienti già feriti.

Un’ambulanza si è recata sul posto, hanno tirato giù una moschea, fortunatamente vuota a quell’ora.

Sfortunatamente, anche se non di sfortuna si tratta ma di volontà criminale e terroristica di compiere stragi di civili, l’esplosione ha colpito anche l’edificio adiacente alla moschea, distruggendolo.

Abbiamo visto tirare fuori dalle macerie i corpicini di sei sorelline. 5 sono morte, una è gravissima.

Hanno adagiato le bambine sull’asfalto carbonizzato,

e sembravano bamboline rotte, buttate via perchè inservibili.

Non è un errore, è volontario cinico orrore.

Siamo a quota 320 morti, più di un migliaio i feriti,

secondo un dottore di Al-Shifa il 60% è destinato a morire nelle prossime ore,

nei prossimi giorni di una lunga agonia.

Decine sono i dispersi, negli ospedali donne disperate cercano i mariti, i figli,

da due giorni, spesso invano.

E’ uno spettacolo macabro all’obitorio.

Un infermiere mi ha detto che una donna palestinese dopo ore di ricerca fra i pezzi di cadaveri all’obitorio, ha riconosciuto suo marito da una mano amputata.

Tutto quello che di suo marito è rimasto,

è la fede ancora al dito dell’amore eterno che si erano ripromessi.

Di una casa abitata da due famiglie è rimasto ben poco: dei corpi umani seppelliti sotto.

Ai parenti hanno mostrato un mezzo busto, e tre gambe.

Proprio in questo momento una delle nostre barche del Free Gaza Movement sta lasciando il porto di Larnaca in Cipro. Ho parlato coi miei amici a bordo. Eroici, hanno ammassato medicinali un pò in ogni dove sull’imbarcazione.

Dovrebbe approdare al porto di Gaza domattina verso le otto.

Sempre che il porto esista ancora dopo quest’altra notte di costanti bombardamenti.

Starò in contatto con loro tutto questo tempo.

Qualcuno fermi questo incubo.

Rimanere in silenzio significa supportare il genocidio in corso.

Urlate la vostra indignazione, in ogni capitale del mondo “civile”,

in ogni città, in ogni piazza,

sovrastate le nostre urla di dolore e terrore.

C’è una parte di umanità che sta morendo in pietoso ascolto.

Restiamo umani.

III – LE FABBRICHE DEGLI ANGELI

30 dicembre 2008

Jabalia, Beit Hanoun, Rafah, Gaza City, le tappe della mia personale mappa dell’inferno.

Checchè vadano ripetendo i comunicati diramati dai vertici militari israeliani, e ripetuti a pappagallo in Europa e Usa dai professionisti della disinformazione, sono stato testimone oculare in questi giorni di bombardamenti di moschee, scuole, università, ospedali, mercati, e decine e decine di edifici civili.

Il direttore medico dell’ospedale di Al-Shifa mi ha confermato di aver ricevuto telefonate da esponenti dell’IDF, l’esercito israeliano, che gli intimavano di evacuare all’istante l’ospedale, pena una pioggia di missili. Non si sono lasciati intimorire. Il porto, dove dovrei dormire, ma a Gaza non si chiude un occhio da 4 giorni, è costantemente soggetto a bombardamenti notturni. Non si odono più sirene di ambulanze rincorrersi all’impazzata, semplicemente perchè al porto e attorno non c’è più anima viva, sono morti tutti, sembra di poggiare i piedi su di un cimitero dopo un terremoto.

La situazione è davvero da catastrofe innaturale, un cataclisma di odio e cinismo piombato sulla popolazione di Gaza come “piombo fuso”, che fa a pezzi corpi umani e, contrariamente a quanto si prefigge, compatta i palestinesi tutti, gente che fino a qualche tempo fa non si salutava nemmeno perchè appartenenti a fazioni differenti, in un corpo unico.

Quando le bombe cadono dal cielo da diecimila metri di quota state tranquilli, non fanno distinzioni fra bandiere di Hamas o Fatah esposte sui davanzali, non hanno ripensamenti neanche se sei italiano.

Non esistono operazioni militari chirurgiche, quando si mette a bombardare l’aviazione e la marina, le uniche operazioni chirugiche sono quelle dei medici che amputano arti maciullati alle vittime senza un attimo di ripensamento, anche se spesso braccia e gambe sarebbero salvabili. Non c’è tempo, bisogna correre, le cure impegnate per un arto seriamente ferito sono la condanna a morte per il ferito susseguente in attesa di una trasfusione. All’ospedale di Al-Shifa ci sono 600 ricoverati gravi e solo 29 macchine respiratorie. Mancano di tutto, soprattutto di personale preparato. Per questa ragione, esausti più che dalle notti insonni dall’immobilismo e dall’omertà dei governi occidentali, complici di fatto dei crimini d’Israele, abbiamo deciso di far partire ieri da Larnaca, Cipro, una delle nostre barche del Free Gaza Movement con a bordo 3 tonnellate di medicinali e personale medico. Li ho aspettati invano, avrebbero dovuto attraccare al porto alle otto di questa mattina. Sono invece stati intercettati a90 miglianautiche da Gaza da 11 navi da guerra israeliane, che in piene acque internazionali hanno provato ad affondarli. Li hanno speronati tre volte, producendo un’avaria ai motori e una falla nello scavo.  Per puro caso l’equipaggio e i passeggeri sono ancora tutti vivi, e sono riusciti ad attraccare in un porto libanese.

Essendo sempre più frustrasti dall’assordante silenzio del mondo “civile”, i miei amici ci riproveranno presto, hanno scaricato infatti i medicinali dalla nostra nave danneggiata, la Dignity, e li hanno ricaricati su di un’altra pronta alla partenza alla volta di Gaza.

Certi che la volontà criminale di Israele nel calpestare diritti umani e leggi internazionali non sarà mai forte come la nostra determinazione nella difesa di questi stessi diritti e uomini.

Molti giornalisti che mi intervistano mi chiedono conto della situazione umanitaria dei palestinesi di Gaza, come se il problema fossero la mancanza di cibo, di acqua, di elettricità, di gasolio, e non chi è la causa di questi problemi sigillando confini, bombardando impianti idrici e centrali elettriche.

Lunghe file ai pochi panettieri con ancora le serrande semiaperte, 40 50 persone che si accapigliano per accappararsi l’ultima pagnotta. Uno di questi panettieri, Ahmed, è un mio amico, e mi ha confidato il suo terrore degli ultimi giorni. Più che per le bombe, teme per gli assalti al forno. Dinnanzi al suo, si sono già verificate risse.

Se fino a poco tempo fa c’era lo polizia a mantenere l’ordine pubblico, specie dinnanzi alle panetterie, ora non si vede più un poliziotto in divisa in tutta Gaza. Si sono nascosti, alcuni. Gli altri stanno tutti sepolti sotto due metri di terra, amici miei compresi. A Jabalia ancora strage di bambini, due fratellini di 4 e 10 anni  colpiti e uccisi da una bomba israeliana mentre guidavano un carretto trainato da un asino, in strada as-Sekka.

Mohammad Rujailah, nostro collaboratore dell’ISM, ha scattato una foto che è più di un fermo immagine, è una storia, è la rivelazione di ciò che di tragico viviamo intensamente ogni minuto, contandoci ogni ora, perdendo amici, fratelli, familiari. Carri armati, caccia, droni, elicotteri Apache, il più grande e potente esercito del mondo in feroce attacco contro una popolazione che si muove ancora sui somari come all’epoca di Gesù Cristo:

Secondo Al Mizan, centro per i diritti umani,  al momento in cui scrivo sono 55 bambini coinvolti nei bombardamenti, 20 gli uccisi e 40 i gravemente feriti.

Israele ha trasformato gli ospedali e gli obitori palestinesi in fabbriche di angeli,

non rendendosi conto dell’odio che fomenta non solo in Palestina, ma in tutto il mondo.

Le fabbriche degli angeli sono in produzione a ciclo continuo anche questa sera, lo avverto dai fragori delle esplosioni che sento fuori dalle mie finestre.

Quei corpicini smembrati, amputati, quelle vite potate ancora prima di fiorire, saranno un incubo per tutto il resto della mia vita, e se ho ancora la forza di raccontare delle loro fine è perchè voglio rendere giustizia a chi non ha più voce, a chi non ha mai avuto un fiato di voce, forse a chi non ha mai avuto orecchie per ascoltare.

Restiamo umani.

IV – CATASTROFE INNATURALE

1 gennaio 2009

Il nuovo anno è subentrato a quello vecchio con gli stessi auspici di morte e desolazione, elevati alla massima potenza distruttiva. Mai viste così tante bombe cadere attorno a casa mia, dinnanzi al porto. Un’esplosione a meno di100 metriha scosso violentemente i sette piani del mio palazzo, facendolo oscillare come un pendolo impazzito. Per un momento ho temuto venisse giù, i vetri delle finestre sono scoppiati tutti. Momenti di panico, ho pregato iddio che il nostro edificio fosse stato costruito con criteri antisismici, ben conscio della mia effimera illusione, Gaza poggia su di una striscia di terra che non trema. Il terremoto qui è innaturale, si chiama Israele. Sarà per questo che i governanti occidentali, così compassionevoli e caritatevoli, lesti nel mettersi una mano sul cuore e l’altra nel portafoglio, spesso per propaganda personale, quando si tratta di versare parole e fondi in soccorso delle popolazioni colpite da catastrofi naturali, dinnanzi a questa di catastrofe innaturale, progettata a tavolino in ogni suo minimo dettaglio a Tel Aviv mesi fa, si mettono una mano dinnanzi agli occhi l’altra a pararsi l’orecchio, e sembrano non prestare attenzione alle strazianti urla di dolore di corpi innocenti fatti a brandelli senza pietà. Disinteressarsi della costante e progressiva distruzione di moschee (e siamo già a otto), scuole, università, ospedali, decine e decine di edifici civili.

Proseguo nella disperata ricerca di quegli amici che non rispondono più al mio telefono. Ahmed l’ho rintracciato a casa sua, una delle poche ancora in piedi, nel centro del quartiere Tal Alhawa di Gaza City, attorniata da uno scenario apocalittico che ricorda tanto il quartiere sciita di Beirut dopo la pioggia di bombe del 2006, bombe della stessa fabbricazione e provenienza di quelle ci stanno cadendo addosso in questi giorni. Ahmed sta bene, i suoi familiari pure, ma sua madre se l’è vista davvero brutta sabato. E’ un’insegnante della scuola “Balqees” delle Nazioni Unite, quel giorno si è trattenuta in aula più del consueto, è stata la sua salvezza. Molti suoi studenti in attesa alla fermata dei bus sono rimasti seppelliti dalle macerie prodotte dalle esplosioni.

Una bomba è caduta sull’auto di Ahmed, un’utilitaria verde pistacchio, la stessa con cui giusto la sera prima scorrazzavamo in cerca di pane in una città in cui la farina viene venduta a peso d’oro. Rafiq invece alla fine l’ho rintracciato al telefono, la sua voce cavernosa sembra provenire da un pozzo senza fondo, un cunicolo di tristezza e disperazione per aver appena appreso della morte di tre dei suoi migliori amici durante l’attacco al porto.

In uno degli ultimi caffè aperti a Gaza, che riforniscono di caffeina e connessione internet (bombe ed energia elettrica permettendo) ho mostrato dallo schermo del mio portatile ad un paio di amici, amaramente sorridendo, la notizia di un morto e 382 feriti. Non il computo delle vittime dei lanci di “razzi” Qassam su Israele di ieri, che fortunatamente non hanno fatto registrare alcun morto, ma i numeri della strage compiuta dai nostri botti di fine anno in Italia. Quelli di Hamas sono dei pivelli, ho detto ai miei amici, se credono di guerreggiare contro Israele con i loro giocattolini artigianali. Dovrebbero andare a scuola a Napoli per confezionare dei razzi veramente mortiferi, nei quartieri spagnoli si assemblano fuochi d’artificio ben più esplosivi dei Qassam gazawi.

Intendiamoci, come pacifista e non violento aborro in maniera più totale e convinta qualsiasi attacco di palestinesi contro israeliani, ma quaggiù siamo stanchi di sentire la cantilena che questa strage di civili è la risposta di Israele ai lanci dei modesti “razzi” artigianali palestinesi. Per inciso, dal 2002 sino ad oggi i Qassam su Israele hanno prodotto 18 morti, qui sabato in una manciata di ore di civili morti negli ospedali ne abbiamo contati più di 250.

Chiedo conto agli avventori del caffè della tregua proposta dall’Unione Europea e cassata da Israele, che evidentemente possiede ampie scorte di materiale bellico nei magazzini militari da smaltire, scuotono tutti la testa. Tregua c’è mai davvero stata, prima di questo feroce attacco su una popolazione inerme? Solo nel mese di novembre l’esercito israeliano ha fatto fuori ben 17 palestinesi (43 intutto dall’inizio della “tregua”).

E ancora, prima di allora, l’assedio criminale imposto a Gaza aveva prodotto più di duecento vittime fra i malati palestinesi. Malati con le carte in regola per essere ricoverati in ospedali all’estero ma impossibilitati a muoversi per la chiusura dei confini. L’assedio criminale israeliano aveva distrutto l’economia già precaria, provocando più del 60% di disoccupazione, costringendo l’80% delle famiglie palestinesi a vivere di aiuti umanitari. Aiuti che stentavano a filtrare oltre la cortina di ferro tesa da Israele attorno alla più grande prigione a cielo aperto del mondo: Gaza.

Da quel caffè alla fine abbiamo poi dovuto evacuare, e a gambe levate. E’ giunta l’ennesima  telefonata di minaccia: il locale sarebbe stato bombardato entro pochi minuti.

I crimini contro l’umanità di cui si macchia Israele in queste ore non conoscono limiti, e davvero pochi paragoni.

Ieri al campo profughi di Jabalia caccia F16 hanno lanciato missili contro un’ambulanza, sono morti un dottore, Ihab El Madhoun, e il suo infermiere di fiducia, Mohamed Abu Hasira.

Per questa ragione oggi noi, internazionali dell’ISM, abbiamo indetto una conferenza stampa dinnanzi alle telecamere di una delle televisioni palestinesi più popolari. Per informare Israele che da stanotte saliremo sulle ambulanze per dare una mano nei soccorsi, sperando che la nostra presenza, in quanto internazionali, funga da minimo deterrente a questi sanguinari crimini.

Anche se Israele mostra di non avere alcuna remora in questi giorni a massacrare civili, semmai una remora l’abbia mai avuta.

A volte quando ci troviamo fra di noi i discorsi si fanno molti cupi, è probabile che alla fine di questa massiccia terrificante offensiva, qualcuno di noi andrà ad annoverare il drammatico conto dei morti, degli scomparsi.

Non ci pensiamo, andiamo avanti.

Se il mondo “civile” tace e volta ignobilmente le spalle dinnanzi a questa tragedia, noi che ci consideriamo ancora umani, membri di una sola stessa famiglia che è l’umanità intera, faremo di tutto per fermare questa emorragia, occorre far presto,

è un’emergenza.

Restiamo umani.

V – FANTASMI CHE CHIEDONO GIUSTIZIA

3 gennaio 2009

Mentre scrivo i carri armati israeliani sono entrati nella Striscia. La giornata è iniziata allo stesso modo in cui è finita quella che l’ha preceduta, con la terra che continua a tremare sotto i nostri piedi, il cielo e il mare, senza sosta alcuna, a tramare sulle nostre teste, sui destini di un milione e mezzo di persone che sono passate dalla tragedia di un assedio alla catastrofe di bombardamenti che fanno dei civili il loro bersaglio predestinato. Il mio orizzonte è avvolto dalle fiamme, cannonate dal mare e bombe dal cielo per tutta la mattina. Le stesse imbarcazioni di pescatori che scortavamo fino a quale giorno fa in alto mare, ben oltre le sei miglia imposte da Israele come assedio illegale e criminoso, le vedo ora ridotte a tizzoni ardenti. Se i pompieri tentassero di domare l’incendio finirebbero bersagliati dalle mitragliatrici degli F16, è già successo ieri. Dopo questa massiccia offensiva, finito il conteggio dei morti, se mai sarà possibile, si dovrà ricostruire una città sopra un deserto di macerie. Il ministro degli esteri israeliano Livni dichiara al mondo che non esiste un’emergenza umanitaria a Gaza: evidentemente il negazionismo non va di moda solo dalle parti di Ahmadinejad. I palestinesi su una cosa sono d’accordo con la Livni, ex serial killer al soldo del Mossad (come mi dice Joseph, autista di ambulanze): più beni alimentari stanno davvero filtrando all’interno della Striscia, semplicemente perché a dicembre non è passato pressoché nulla, oltre la cortina di filo spinato teso da Israele. Ma che senso realmente ha servire pane appena sfornato all’interno di un cimitero? L’emergenza è fermare subito le bombe, prima ancora che far arrivare i rifornimenti di viveri. I cadaveri non mangiano, vanno solo a concimare la terra, che qui a Gaza non è mai stata così fertile di decomposizione. I corpi smembrati dei bimbi negli obitori invece dovrebbero nutrire i sensi di colpa negli indifferenti, verso chi avrebbe potuto fare qualche cosa. Le immagini di un Obama sorridente che gioca a golf alle Hawaii sono passate su tutte le televisioni satellitari arabe (da queste parti nessuno si illude che basti il pigmento della pelle a marcare radicalmente la politica estera statunitense). Ieri Israele ha aperto il valico di Erez per far evacuare tutti gli stranieri presenti a Gaza. Noi internazionali dell’Ism siamo gli unici a essere rimasti. Abbiamo risposto oggi tramite una conferenza stampa al governo israeliano, illustrando le motivazioni che ci costringono a non muoverci da dove ci troviamo. Ci ripugna che i valichi vengano aperti per evacuare cittadini stranieri, gli unici possibili testimoni di questo massacro, e non si aprano in direzione inversa per far entrare i molti dottori e infermieri stranieri che sono pronti a venire a portare assistenza ai loro eroici colleghi palestinesi. Non ce ne andiamo perché riteniamo essenziale la nostra presenza come testimoni oculari dei crimini contro l’inerme popolazione civile ora per ora, minuto per minuto. Siamo a 445 morti, più di 2.300 feriti, decine i dispersi. 73, al momento in cui scrivo, i minori maciullati da bombe. Al momento Israele conta tre vittime in tutto. Non siamo fuggiti come ci hanno consigliato i nostri consolati perché siamo ben consci che il nostro apporto sulle ambulanze come scudi umani nel dare prima assistenza ai soccorsi potrebbe rivelarsi determinante per salvare vite. Anche ieri un’ambulanza è stata colpita a Gaza City, il giorno prima due dottori del campo profughi di Jabalia erano morti colpiti in pieno da un missile sparato da un elicottero Apache. Personalmente non mi muovo da qui perché sono gli amici ad avermi pregato di non abbandonarli. Gli amici ancora vivi, ma anche quelli morti, che come fantasmi popolano le mie notti insonni. I loro volti diafani ancora mi sorridono.

Ore 19.33, ospedale della Mezza Luna Rossa, Jabalia. Mentre ero in collegamento telefonico con la folla in protesta in piazza a Milano, due bombe sono cadute dinanzi all’ospedale. I vetri della facciata sono andati in pezzi, le ambulanze per puro caso non sono rimaste danneggiate. I bombardamenti si sono fatti ancora più intensi e massicci nelle ultime ore, la moschea di Ibrahim Maqadme, qui vicino, è appena crollata sotto le bombe: è la decima in una settimana. Undici vittime per ora, una cinquantina i feriti. Un’anziana palestinese incontrata per strada questo pomeriggio mi ha chiesto se Israele pensa di essere nel Medioevo, e non nel 2009, per continuare a colpire con precisione le moschee come se fosse concentrato in una personale guerra santa contro i luoghi sacri dell’Islam a Gaza. Ancora un’altra pioggia di bombe a Jabalia e alla fine sono entrati. I cingoli di carri armati che da giorni stazionavano al confine, come mezzi meccanici a digiuno affamati di corpi umani, stanno trovando la loro tragica soddisfazione. Sono entrati in un’area a nord-ovest di Gaza e stanno spianando le case metro per metro. Seppelliscono il passato e il futuro, famiglie intere, una popolazione che scacciata dalle proprie legittime terre non aveva trovato altro rifugio che una baracca in un campo profughi. Siamo corsi qui a Jabalia dopo la terribile minaccia israeliana piovuta dal cielo venerdì sera. Centinaia e centinaia di volantini lanciati dagli aerei intimavano l’evacuazione generale del campo profughi. Minaccia che si sta dimostrando purtroppo reale. Alcuni, i più fortunati, sono scappati all’istante, portandosi via i pochi beni di valore, un televisore, un lettore dvd, i pochi ricordi della vita che era in una Palestina occupata e perduta una sessantina di anni fa. La maggioranza non ha trovato alcun posto dove fuggire. Affronteranno quei cingoli affamati delle loro vite con l‘unica arma che hanno a disposizione, la dignità di saper morire a testa alta. Io e i miei compagni siamo coscienti degli enormi rischi a cui andiamo incontro, questa notte più delle altre; ma siamo certo più a nostro agio qui, nel centro dell’inferno di Gaza, che nei paradisi metropolitani europei o americani, dove la gente festeggia il nuovo anno e non capisce quanto in realtà sia complice di tutte queste morti di civili innocenti.

Restiamo umani.

 VI – MEDICI CON LE ALI: ARAFA ABED AL DAYEM R.I.P.

5 gennaio 2009

 

All’ innocente gente di Gaza: la nostra guerra non è una guerra contro di voi ma contro Hamas, se non la smettono di lanciare razzi voi vi troverete in pericolo“. E’ la trascrizione di una registrazione che è possibile ascoltare rispondendo al telefono in queste ore a Gaza. L’esercito israeliano la sta diffondendo illudendosi che i palestinesi non abbiano occhi e orecchi. Occhi per vedere che le bombe colpiscono quasi esclusivamente obiettivi civili, come moschee (15, l’ultima quella di Omar Bin Abd Al Azeez di Beit Hanoun), scuole, università, mercati, ospedali. Orecchie per non udire le urla di dolore e terrore dei bambini, vittime innocenti eppure predestinate di ogni bombardamento. Secondo fonti ospedaliere, nel momento in cui sto scrivendo sono 120 i minori rimasti sotto le bombe, 548 i morti totali, più di 2700 i feriti, decine e decine i dispersi.

Due giorni fa, all’ospedale della mezzaluna rossa nel campo profughi di Jabalia, la notte non è mai calata. Dal cielo elicotteri Apache hanno lanciato ordigni luminescenti in continuazione, tanto da non farci accorgere di una qualche differenza tra alba e tramonto.

Il cannoneggiare ripetuto di un carro armato posto a meno di un chilometro dall’ospedale ha crepato seriamente le mura dell’edificio, ma abbiamo resistito fino alla mattina. Verso le 10, bombe al fosforo bianco sul campo incolto adiacente all’edificio, fuoco di mitragliatrice tutt’attorno. Per i dottori della mezzaluna rossa quello era un messaggio dell’esercito diretto a noi: evacuazione immediata, pena la vita. Abbiamo trasferito i feriti in altre strutture ospedaliere e ora la base operativa delle ambulanze è sulla strada di Al Nady: il personale medico se ne sta seduto sui marciapiedi in attesa di chiamate, che si susseguono febbrilmente.

Per la prima volta dall’inizio dell’attacco israeliano ho visto negli ospedali alcuni cadaveri di membri della resistenza palestinese. Un numero infinitamente piccolo, proporzionato alle centinaia di vittime civili, che dopo l’invasione di terra si sono moltiplicate esponenzialmente. Dopo l’attacco alla moschea di Jabalia, coinciso con l’entrata dei carri armati, che ha causato 11 morti e una cinquantina di feriti, per tutta la notte di sabato scortando le ambulanze ci siamo resi conto della tremenda potenza distruttiva degli obici sparati dai tanks israeliani. A Beit Hanoun una famiglia che si stava scaldando nella propria casa dinnanzi ad un fornellino a legna è stata colpita da uno di questi micidiali colpi di cannone. Abbiamo raccolto 15 feriti, 4 casi disperati. Successivamente verso le 3 e mezza del mattino abbiamo risposto ad una chiamata d’emergenza, troppo tardi, dinnanzi all’uscio di un’abitazione tre donne in lacrime ci hanno messo in braccio una bambina di quattro anni avvolta da un lenzuolo bianco, il suo sudario, era già gelida. Ancora una famiglia colpita in pieno, questa volta dall’aviazione, a Jabalia, due adulti con in corpo schegge di esplosivo. I due figli hanno riportato ferite lievi, ma da come strillavano era evidente il trauma psicologico che stavano vivendo, qualcosa che li segnerà indelebilmente per tutta la vita più di uno sfregio su una guancia. Anche se nessuno si ricorda di citarli, sono migliaia i bambini afflitti da gravi turbe mentali procurate dal terrore dei continui bombardamenti, o peggio dalla vista dei genitori e dei fratellini dilaniati dalle esplosioni.

I crimini di cui si sta macchiando Israele in queste ore vanno ben oltre i confini dell’immaginabile.

I soldati non ci permettono di soccorrere i superstiti di questa immensa catastrofe innaturale. Quando i feriti si trovano in prossimità dei mezzi blindati israeliani che li hanno attaccati, a noi sulle ambulanze della mezzaluna rossa non è concesso avvicinarsi, i soldati ci bersagliano di colpi. Avremmo bisogno della scorta di almeno un’ambulanza della croce rossa, e del coordinamento di questi ultimi coi vertici militari israeliani, prima di correre a cercare di salvare vite. Provate a immaginare quanto tempo necessiterebbe una procedura del genere, una condanna a morte certa per dei feriti in attesa di trasfusioni o di trattamenti di emergenza. Tanto più che la croce rossa ha i suoi di feriti a cui pensare, non potrebbe in nessun modo rendersi disponibile ad ogni nostra chiamata. Ci tocca allora stazionare in una zona “protetta”, eufemismo qui a Gaza, ed attendere che i parenti ci portino i congiunti moribondi, spesso in spalla.

Così è andata verso le o5.30 di stamane, abbiamo arrestato col motore acceso l’ambulanza al centro di un incrocio e indicato tramite telefono la nostra posizione ad uno dei parenti dei feriti. Dopo una decina di minuti di snervante attesa, quando avevamo già deciso di ingranare la marcia ed evacuare l’area per andare a rispondere ad un’altra chiamata, abbiamo visto girare l’angolo e dirigersi verso di noi, lentamente, un carretto carico di persone sospinto da un mulo. Una coppia con i suoi due figlioletti. La migliore rappresentazione possibile di questa non-guerra.

Questa infatti non è una guerra, perché non ci sono due eserciti che si battagliano su di un fronte; è un assedio unilaterale condotto da un’aviazione, una marina, ed ora pure una fanteria fra le più potenti del mondo, sicuramente le più avanzate in fatto di tecnologia militare, che ha attaccato una misera striscia di terra di 360 kmq, dove la popolazione si muove ancora sui muli e c’è una resistenza male armata la cui unica forza è quella di essere pronta al martirio.

Quando il carretto si è fatto abbastanza vicino gli siamo andati incontro, e con orrore abbiamo scoperto il suo macabro carico. Un bimbo stava sdraiato con il cranio fracassato, gli occhi letteralmente saltati fuori dalle orbite dondolavano sul viso come quelli al termine dei peduncoli dei granchi, lo abbiamo raccolto che ancora respirava. Il suo fratellino invece presentava il torace sventrato, gli si potevano distintamente contare le costole bianche oltre i brandelli di carne lacera. La madre teneva poggiate le mani sul quel petto scoperchiato, come se cercasse di aggiustare quel che il frutto del suo amore aveva saputo generare e l’odio anonimo di un soldato, obbedendo fermamente a dei sadici ordini, aveva per sempre distrutto.

Devo denunciare un ulteriore crimine, e nostro ennesimo personale lutto. L’esercito israeliano continua a prendere di mira le ambulanze. Dopo il dottore e l’infermiere morti a Jabalia 4 giorni fa, ieri è toccato ad un nostro amico, Arafa Abed Al Dayem, 35 anni, che lascia 4 figli. Verso le 8.30 di ieri mattina abbiamo ricevuto una chiamata da Gaza City, due civili falciati da una mitragliatrice di un carro armato, una delle nostre ambulanze della mezza luna rossa è accorsa sul posto. Arafa e un infermiere hanno caricato i due feriti sull’ambulanza, hanno chiuso gli sportelli pronti a correre verso l’ospedale quando sono stati centrati in pieno da un obice sparato da un carro armato. Il colpo ha decapitato uno dei feriti e ha ucciso anche il nostro amico. Nader, l’infermiere che lo accompagnava, se l’è cavata ma è ora ricoverato nello stesso ospedale dove lavora.

Arafa, maestro elementare, si offriva come volontario paramedico quando c’era carenza di personale. Siamo sotto una pioggia di bombe e nessuno se l’era sentita di chiamarlo in una situazione di così alto rischio. Arafa si era presentato da solo, e lavorava conscio dei pericoli convinto che oltre la sua famiglia c’erano anche altri essere umani da difendere, da soccorrere.

Ci mancano le sue burle, il suo irresistibile e contagioso sense of humour che rallegrava l’intero ospedale Al-Awda di Jabalia anche nelle ore più cupe e drammatiche, quando sono di più i morti e i feriti che confluiscono e ci sente quasi colpevoli, inutili per non aver potuto fare qualcosa per salvarli, schiacciati come siamo da una forza micidiale inesorabile, la macchina di morte dell’esercito israeliano.

Qualcuno deve arrestare questa carneficina, ho visto cose in questi giorni, udito fragori, annusato miasmi pestiferi che difficilmente avrò il coraggio di raccontare a miei eventuali, futuri figli. C’è qualcuno là fuori? La desolazione del sentirsi isolati nell’abbandono è pari alla veduta di un quartiere di Gaza dopo una campagna di raid aerei. Sabato sera mi hanno passato al telefono la piazza di Milano in protesta, ho passato a mia volta il cellulare agli eroici dottori e infermieri con cui stiamo lavorando, li ho visti rincuorarsi per un breve attimo. Le manifestazioni in tutto il mondo dimostrano che esiste ancora qualcuno in cui credere, ma non sono ancora abbastanza partecipate per esercitare quella pressione necessaria affinché i governi occidentali costringano Israele in un angolo, ad  assumersi le sue responsabilità come criminale di guerra e contro l’umanità.

Moltissime le donne gravide terrorizzate che in queste ore stanno dando alla luce figli frutti di parti prematuri. Ne ho accompagnate personalmente tre a partorire. Una di queste, Samira, al settimo mese, ha dato alla luce uno splendido minuscolo bimbo di nome Ahmed. Correndo con lei a bordo verso l’ospedale di Auda e lasciandoci dietro negli specchietti retrovisori lo scenario di morte e distruzione dove poco prima stavamo raccogliendo cadaveri, ho pensato per un attimo che questa vita in procinto di fiorire potesse essere d’augurio per un futuro di pace e speranza. L’illusione si è dissolta col primo razzo che è piombato a fianco della nostra ambulanza tornando da Auda verso il centro di Jabalia. Queste madri coraggio mettono tristemente al mondo creature le quali assorbono come prima luce nei loro occhi nient’altro oltre il verde militare dei tank e delle jeep e i lampi intermittenti che precedono le esplosioni. Quali prospettive di vita attendono bimbi che fin dal primo istante della loro nascita avvertono sofferenza e urla di disgrazia?

 

Restiamo umani.

 

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