Intervista a Zingonia Zingone

Di Rania Hammad

Zingonia Zingone è nata a Londra, cresciuta in Centro America, Svizzera e Italia. Laureata in Economia, è poeta, scrittrice e traduttrice. Scrive in italiano, spagnolo, inglese e francese, e i suoi libri sono pubblicati in Italia, Spagna, Messico, Colombia, Nicaragua, Costa Rica, Francia e India. I titoli più recenti editi in Italia sono: I naufragi del deserto (Edizioni della Meridiana, 2015), le tentazioni della Luce (Edizioni della Meridiana, 2017), Viaggio del Sangue (CAPIRE Edizioni, 2020) e La voliera senza reti (Edizioni della Meridiana, 2022). È curatrice e traduttrice di libri di poesia in inglese, spagnolo e italiano, consigliere editoriale della rivista letteraria messicana El Golem e fondatrice dei laboratori di poesia in carcere FreeFromChains.

Raccontaci un po’ di te, di come sei diventata una poetessa? Quale il ruolo del poeta?

La spinta per scrivere a me è arrivata dalla morte di mio padre: le domande sulla vita, il dolore, la rabbia, il bisogno di sfogarmi; avevo circa dodici anni, quando ho iniziato a comporre delle piccole prose poetiche che definivo in inglese “bursts of emotion”. Durante tutta l’adolescenza ho tenuto un diario, scrivevo lettere, racconti, e persino due piccoli romanzi sulla scia de Il tempo delle mele. Nulla di serio, soprattutto perché ero cresciuta parlando quattro lingue e di nessuna di queste avevo una padronanza. Al liceo mi sono appassionata alla letteratura, soprattutto quella francese, e ho preso a scrivere poesie in modo più consapevole, anche se si manifestavano ora in inglese, ora in italiano, talvolta in spagnolo e più di rado in francese, a seconda delle letture del momento. Passavo il mio tempo libero scrivere ma non sospettavo di poter essere una scrittrice, infatti ho indirizzato i miei studi, e successivamente il mio lavoro, in ambito economico.

Per fortuna una vocazione può essere ignorata ma non soppressa, così tra il 2000 e il 2005 la poesia si è fatta sempre più insistente e ho dovuto darle ascolto. Abitavo in Nicaragua, un paese come disse Cortázar “così violentemente dolce”, dove tutto mi riportava alla poesia: il profumo della terra bagnata, gli occhi dei vitelli, il cinguettìo assordante dei pappagalli al tramonto, i bambini scalzi ma ben pettinati lungo le vie polverose dei villaggi, le poesie dei poeti caduti nelle trincee della rivoluzione… lì ho conosciuto e frequentato poeti di tutti i tipi, tra cui alcuni grandi nomi della poesia ispanoamericana come Ernesto Cardenal e Claribel Alegría. Incitata da quest’ultima ho preso coraggio per pubblicare la mia prima raccolta di poesie in spagnolo Da loro ho imparato a “prendere sul serio” la poesia. Non me stessa, ma la poesia. Ho capito che il poeta nasce già con il seme della sua arte piantato nella sua umanità, e il suo “diventare” poeta è più che altro uno “scoprirsi” poeta; è scoprire l’esistenza di quel seme. Prendere sul serio la poesia vuol dire mettere quel seme nella condizione di poter germogliare, cioè circondarlo di terra buona, quella umile e aperta, che sa accogliere il concime delle esperienze, delle letture e della vita stessa.

Dunque, se mi chiedi qual è il ruolo del poeta ti dico che il suo unico ruolo è di prendere sul serio la poesia. Nel momento in cui un poeta si assegna un ruolo, ecco che sta prendendo sul serio sé stesso e non la poesia. Mi spiego: il poeta è un mezzo attraverso il quale si esprime la poesia e il suo lavoro è quello di permettere alla poesia di esprimersi nel modo migliore possibile. Infatti si dice che i poeti, come i bambini, provano stupore per le cose che accadono, e da questo stupore nasce la poesia. Dunque, quello del poeta non è un ruolo, ma un’esigenza di manifestare il proprio stupore di fronte a una circostanza. Un’esigenza è sempre autentica ed è questo a rendere la sua parola potente.

Ti sei sempre interessata a temi sociali e ai diritti umani. Scrivi di questo. Cosa ha fatto nascere questo interesse e come può la poesia raccontare questioni umane profonde e universali?

La poesia è la mia espressione più intima e vera e nasce sempre dall’amore. Non mi considero un’attivista o né mi occupo in modo esplicito di diritti umani, semplicemente scrivo dal mio sentire più profondo che è, appunto, l’amore. L’amore desidera sempre il bene altrui e viene ferito ogni volta che vede il male in azione. L’empatia (la parola deriva dal greco “dentro” e “sofferenza o sentimento”) mi porta a sentire compassione (la parola rimanda a “patire con”) per il dolore altrui. Dunque, anche senza scrivere intenzionalmente poesie sui diritti umani, le mie poesie tendono naturalmente verso ciò che è umano e stanno sempre dalla parte di chi soffre.

La poesia “vera” è universale perché i poeti sono esseri empatici, ma ogni poeta mette a fuoco la realtà attraverso la lente personalissima del suo sentire. È proprio in questa unicità che risiede l’universalità della sua espressione.

Hai scritto molti libri di poesia e ora hai contribuito a un libro di poesia su Gaza. Come è nato il progetto del libro che ha portato numerosi poeti a scrivere di Gaza e del genocidio?

Il progetto, che fa capo alla casa editrice svedese Simon Editor, è nato lo scorso mese di ottobre su iniziativa dell’Editore Víctor Rojas e la psicologa colombiana Beatriz Hincapié. L’idea iniziale era quella di coinvolgere cinque poeti svedesi e cinque latinoamericani (tra cui la sottoscritta) presenti al festival internazionale di poesia di Jöngköping, Svezia, in una specie di “canto per la pace in Palestina”. Con l’inasprirsi del conflitto, il contenuto del libro ha preso una piega diversa, assumendo più un tono di “grido di denuncia” contro la carneficina che sta subendo il popolo palestinese. Vi sono raccolti i contributi di 25 poeti provenienti da Cuba, Spagna, Italia, Portogallo, Canada, Colombia e Svezia; alcuni scrittori di rilievo e altri giovani dalla voce forte e commovente.

Riporto queste parole significative dalla prefazione del libro: Nessuna guerra è giusta. E coloro che stanno sterminando il popolo palestinese porteranno attraverso la storia la vergogna di aver sconfitto nel modo più miserabile un “esercito” di neonati, asili e adolescenti che non possiedono nemmeno la strada dove giocavano ignari a pallone. È in onore di quei bambini che abbiamo voluto pubblicare questo libro, anche se abbiamo la sensazione che in questi momenti di follia un verso sia meno efficace di una rosa su una rotaia per fermare un treno.

Cosa vuol dire l’intifada delle parole? Quanto sono importanti le parole? possono le parole abbattere i muri e far conoscere le ingiustizie del mondo?

Si sa che il termine “Intifada” si riferisce alla rivolta, iniziatasi alla fine del 1987, degli arabi palestinesi nello Stato d’Israele e nei territori da questo occupati. Dunque si parla di “ribellione”. L’editore e poeta Víctor Rojas dice che tutti i popoli hanno il diritto a ribellarsi contro l’oppressione, pertanto ci tiene a sottolineare che “intifada” non è un termine violento ma un diritto, soprattutto in questo caso che si tratta di un’intifada di poesie, cioè una ribellione in versi contro le ingiustizie.

L’etimologia del termine “intifada” rimanda al tremore della coda del cane, a uno scuotimento. Queste poesie vogliono essere uno scuotimento che riporta l’attenzione verso l’atrocità che sta accadendo e che l’umanità non dovrebbe permettere.

Le parole non abbattono i muri, ma mentre i muri possono essere abbattuti, le parole no. Le idee superano chi le ha generate e una volta in circolazione non si possono più fermare. Questa è la forza della poesia. Infatti, anche se una poesia non riesce a far conoscere le ingiustizie del mondo, diceva il poeta palestinese Mahmoud Darwish che “ogni bella poesia è un atto di resistenza”.

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