Articolo pubblicato originariamente su Middle East Monitor. Traduzione a cura di Veronica Bianchini per Bocche Scucite
Foto di copertina: I vigili del fuoco cercano di spegnere un incendio scoppiato dopo gli attacchi israeliani contro una casa della famiglia Al-Shawa all’incrocio di Samer a Gaza City, Gaza, il 22 settembre 2025. [Khames Alrefi – Agenzia Anadolu]
Le bombe cadono a Gaza. Giorno dopo giorno, notte dopo notte. Le scuole crollano in nuvole di polvere. Gli ospedali, santuari della pietà, diventano obitori. I bambini, più fragili unità dell’esistenza umana, sono estratti dalle macerie, i loro nomi destinati a non essere mai iscritti nei registri delle scuole. L’acqua scarseggia, il cibo è impossibile, l’elettricità una voce non confermata. Eppure, mentre Gaza è ridotta in cenere, nelle capitali del mondo risuonano gli applausi, applausi non per il coraggio, ma per i gesti.
Ci viene detto di esultare quando i governi occidentali “riconoscono lo Stato di Palestina”. Di applaudire quando i principi sauditi e i generali pakistani siglano nuovi patti di difesa, come se la firma su un pezzo di carta potesse proteggere i bambini dai missili. Ci esortano a rimanere incollati alle soap opera dell’occidente, al finto “martirio” di uomini come Charlie Kirk, mentre i veri martiri, quelli che non hanno scelta, quelli che non sono ripresi dalle telecamere, sono sepolti dai bulldozer a Gaza.
Non è che teatro, messo in scena con maestria. Cerimonie di riconoscimento. Alleanze di difesa. Indignazione fabbricata ad arte. Ciascuna di esse è un velo profumato steso a coprire il fetore della morte di massa. Ognuna pensata non per fermare il genocidio, ma per distrarci da esso.
Riconoscimento senza salvataggio
Cosa significa “riconoscere” la Palestina adesso? Riconoscere uno Stato bombardato al punto da essere quasi cancellato? Riconoscere un popolo a cui sono negate le condizioni indispensabili alla vita? Il riconoscimento è diventato l’esercizio diplomatico degli indolenti: costoso nella retorica, economico nell’azione.
Ministri degli Esteri si posizionano sul podio. Parlamenti votano. Risoluzioni approvate. La stampa applaude. E poi? Continuano i trasferimenti di armi. I contratti militari rimangono firmati. L’esercito israeliano riceve altre armi, altro carburante, altro sostegno diplomatico. Il riconoscimento non è un’ancora di salvataggio, è un premio di consolazione, consegnato a quelli che muoiono di sete.
Il riconoscimento è un oppiaceo, pensato non per i palestinesi, ma per la coscienza occidentale. È un modo per dichiarare: “vi vediamo”, senza il l’onere di aiutarvi a vivere.
Accordi a difesa dei palazzi
L’Arabia Saudita e il Pakistan, ci dicono, stringono un’alleanza difensiva “di portata storica”. I commentatori si stupiscono. Gli analisti fanno congetture. I monarchi e i generali sorridono a favore di telecamera. E tuttavia a voler essere sinceri: cosa difendono precisamente?
Questi accordi non hanno nulla a che vedere con la difesa della Palestina, o la dignità dei musulmani, o degli oppressi. Invece mirano a difendere privilegi, palazzi e potere personale. Sono polizze assicurative stipulate da regimi terrorizzati dall’eventualità di dover rispondere delle proprie azioni, terrorizzati dal proprio popolo. I principi sauditi barattano le ricchezze petrolifere con garanzie di protezione. I generali pakistani, sempre animati da spirito imprenditoriale, offrono i loro eserciti come un servizio mercenario. Insieme festeggiano un accordo che difende tutto eccetto la giustizia.
Cosa arriva alle masse: niente pane, niente lavoro, niente dignità. Cosa incassano i governanti: altri arsenali, altro prestigio, altre scuse per non fare nulla mentre Gaza è sacrificata. Questi trattati sono una rete di sicurezza intessuta col filo dell’ipocrisia. Proteggono i governanti, non i governati.
Martiri creati per la TV
E poi ci sono i diversivi. I media occidentali ci propinano regolarmente una dieta a base di farse incentrate sulla guerra tra culture. Charlie Kirk vi è dipinto come un “martire”. Gli opinionisti sono cancellati o riabilitati a seconda delle occasioni. I social media esplodono, gli hashtag diventano virali, la macchina dell’indignazione ronza.
Nel frattempo, gli obitori di Gaza traboccano. Eppure il mondo è incollato allo spettacolo di controversie inventate, come se fossero queste il campo su cui si disputa la battaglia della moralità È tragico, sì. Ma è anche comico nella sua assurdità. Il copione è elaborato. La sceneggiatura è raffinata. Gli attori sono convincenti. Ma il set è costruito sulle tombe dei bambini.
L’obiettivo è sempre lo stesso: spacciare la soap opera per lotta, il sentimentalismo per sostanza, l’intrattenimento per etica.
Il volto di un’azione reale
Se il mondo facesse sul serio, se i governanti fossero sinceri, la soluzione sarebbe inequivocabile. Non servono gesti simbolici, ma una rottura netta. Non risoluzioni garbate, ma misure radicali:
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tagliare le armi. Fermare immediatamente tutti i trasferimenti di armi a Israele. Senza armi, le bombe si fermano. Senza bombe, Gaza respira;
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sanzioni che lasciano il segno. Congelare i beni dei criminali di guerra. Impedirgli di viaggiare. Tagliare i commerci. Isolare lo Stato dell’apartheid fino a quando la sua macchina di morte non sarà smantellata;
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disconoscere Israele. Ritirare il riconoscimento fino a quando apartheid, occupazione e genocidio non saranno finiti. Se il riconoscimento è una moneta morale, smettiamo di elargirla ai criminali;
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rendere noto pubblicamente, e coprire di vergogna, il nome di quelli che lucrano sul genocidio. I cittadini devono chiedere ai loro governi: di chi sono le bombe cadute oggi? Quale azienda le ha prodotte? Quale ministro ha firmato l’accordo?
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solidarietà che produce risultati. Meno tweet, più organizzazione. Meno gesti eclatanti, più aiuti materiali. La solidarietà deve essere misurata non in slogan, ma in vite salvate.
Generali e principi: i mercanti del tradimento
Il tradimento non è solo occidentale. Esso attraversa nel profondo anche lo stesso mondo arabo- musulmano.
I generali pakistani, desiderosi di atteggiarsi a difensori degli oppressi, in realtà si comportano come subappaltatori dell’impero. La loro lealtà non è rivolta al popolo pakistano, ne’ ai bambini di Gaza, ma ai loro conti svizzeri, ai loro contatti a Washington, alle loro carriere. Pronunciano discorsi infuocati, poi si ritirano nelle loro ville climatizzate, impassibili davanti alle nuvole di cenere che ricoprono Gaza.
I principi dell’Arabia Saudita, nel frattempo, parlano di solidarietà musulmana mentre firmano contratti con le stesse potenze che armano Israele. Costruiscono torri dorate mentre quelle di Gaza sono ridotte in macerie. I loro accordi non riguardano la Palestina, ma la salvaguardia dei loro troni. Difendono i loro palazzi, non al-Aqsa.
E poi c’è il cosiddetto revival di una versione farsesca del precedente “Movimento dei Paesi non Allineati”, ora non più di una messinscena attuata da monarchi e generali che indossano il linguaggio dell’antimperialismo come un costume preso in prestito. Si schierano con la ricchezza, non con la giustizia. Si schierano con l’impero, non con la liberazione.
Questa non è solidarietà. È tradimento, vestito con abiti da cerimonia.
Perché la farsa funziona
Questi diversivi funzionano perché sono facili. Riconoscere lo stato di Palestina non costa nulla. I patti di difesa producono titoli sui giornali. L’indignazione nei confronti degli opinionisti è divertente, piacevole, condivisibile. Tutto questo dà l’impressione qualcosa si muova senza che si debba affrontare il peso del cambiamento.
Quello che è difficile è tagliare le armi a Israele. Ciò che è costoso è imporre sanzioni. Ciò che è pericoloso è smantellare l’apartheid e combattere le strutture di potere che lo sostengono. I gesti sono gratuiti, la giustizia è costosa. E il mondo, a quanto pare, preferisce finire in bancarotta in materia di giustizia.
Il finale della storia: la resa dei conti non può essere rimandata
Siamo chiari: ogni riconoscimento vuoto è una frode truffa. Ogni patto di difesa firmato mentre Gaza muore di fame è un tradimento. Ogni diversivo orchestrato dall’occidente è complice del genocidio.
La storia non ricorderà le risoluzioni approvate dai parlamenti europei. Non ricorderà le strette di mano tra monarchi e generali. Non ricorderà il martirio degli opinionisti trasmesso in televisione. Ricorderà, con rabbia, che mentre Gaza sanguinava, il mondo applaudiva sé stesso per i gesti compiuti.
Se il riconoscimento deve significare qualcosa, deve essere collegato a una rottura: la chiusura dei rubinetti delle armi, l’imposizione di sanzioni, il rifiuto di normalizzare l’apartheid. Se la solidarietà deve significare qualcosa, deve essere disposta a sacrificare comodità, alleanze e ricchezza. Il mondo deve scegliere: Gaza o lo spettacolo, giustizia o gesti, azione o complicità. E che non si dica, quando verrà il momento di contare le macerie e le tombe saranno piene, che nessuno sapeva. Sapevamo e abbiamo visto. Il teatro è stato sfolgorante, sì, ma il rumore delle bombe è stato più forte.

[…] dalla “devastazione che si è dispiegata davanti agli occhi del mondo”. ( https://bocchescucite.org/difendere-la-dignita-e-la-presenza-del-popolo-di-gaza/ ) Mai così espliciti e rinunciando…
Grazie per il vostro coraggio Perché ci aiutate a capire. Fate sentire la voce di chi non ha voce e…
Vorrei sapere dove sarà l'incontro a Bologna ore 17, grazie
Parteciperò alla conferenza stampa presso la Fondazione Basso il 19 Mercoledì 19 febbraio. G. Grenga
Riprendo la preghiera di Michel Sabbah: "Signore...riconduci tutti all'umanità, alla giustizia e all'amore."