Bashir e Goldberg: «Un binazionalismo egualitario dalle memorie di Shoah e Nakba»

Articolo pubblicato originariamente sul Manifesto

Di Micol Meghnagi, Simon Levis Sullam

Intervista al teorico politico palestinese e allo storico israeliano, guide di un dialogo collettivo che ha condotto al progetto “Olocausto e Nakba”: «Le due tragedie non vanno né equiparate né isolate, ma pensate insieme: l’uno è entrato nella costituzione politica dell’altro. Sono due eventi storici fondativi intrecciati»

Il teorico politico palestinese Bashir Bashir, della Open University of Israel, e lo storico israeliano Amos Goldberg, dell’Università Ebraica di Gerusalemme, sono tra le voci più autorevoli del dibattito su memoria, storia e binazionalismo in Israele/Palestina. Insieme hanno curato il volume The Holocaust and the Nakba: a New Grammar of Trauma and History (Columbia University Press 2018), tradotto come Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma (Zikkaron 2023, trad. di A. Barchi e P. P. Bastia; revisione scientifica di Sarah Parenzo).

Li abbiamo incontrati in questi giorni a Forlì, in occasione del 900Fest organizzato dalla Fondazione Alfred Lewin. Il colloquio che segue rappresenta il punto di vista e il contributo delle radicali voci dei due studiosi.

Potete raccontarci come è nato il progetto di «Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma»?

Amos Goldberg: Il poeta ebreo israeliano Avot Yeshurun ha scritto nel 1958 che l’Olocausto degli ebrei europei e la Nakba possono essere visti come un unico «Olocausto», in quanto le due tragedie «si guardano negli occhi». Questo verso, rimasto a lungo rimosso, tocca il cuore del problema: Olocausto e Nakba si incontrano, si interrogano, si «sfidano» a vicenda, perché sono due eventi storici fondativi intrecciati, certamente diversi ma che sono stati sistematicamente separati sul piano del ricordo collettivo da una rigida disciplina politico-memoriale. Sfidare questa separazione è stato il punto di partenza della nostra riflessione. Quando abbiamo elaborato il progetto di questo libro eravamo consapevoli di infrangere un tabù. In Israele e in Occidente è stato costruito un regime della memoria che vieta non solo ogni paragone, ma persino ogni accostamento tra i due eventi. Metterli in relazione non significa proporre una comparazione semplicistica né sostenere che siano equivalenti. L’Olocausto è una forma estrema e radicale di genocidio. Un progetto su scala industriale di annientamento totale degli ebrei. La Nakba è un processo ancora in atto di espulsione, pulizia etnica, frammentazione e spossessamento sistematico della popolazione palestinese, che oggi è evoluto nel genocidio a Gaza. Non vanno né completamente equiparati né isolati, ma pensati insieme storicamente, perché l’uno è entrato nella costituzione politica dell’altro. Ciò che accadde in Europa negli anni Trenta e Quaranta – l’antisemitismo e l’Olocausto – ebbe anche un impatto decisivo su quanto avvenne in Palestina e successivamente in Israele. Lo Stato di Israele nacque in larga misura come risposta all’antisemitismo europeo, che portò all’annientamento di due terzi degli ebrei d’Europa, ma si costruì al tempo stesso sulla distruzione e sulle rovine nazionali del popolo palestinese attraverso la Nakba. Per uscire dalla prigione delle memorie contrapposte, abbiamo introdotto il concetto di «turbamento empatico» (empathic unsettlement). È un invito a confrontarsi con il trauma dell’altro senza rinunciare al proprio. Questa disponibilità a lasciarsi dislocare dalla memoria dell’altro è il senso della nuova grammatica morale e storica che abbiamo voluto proporre: un tentativo di rendere possibile un futuro di eguaglianza sostanziale.

Bashir Bashir: Il progetto risale a oltre dieci anni fa ed è il frutto di un dialogo continuo tra noi. Ha preso avvio dalla convinzione comune che fosse necessario trovare un nuovo linguaggio per pensare insieme le memorie dell’Olocausto e della Nakba. Tuttavia non è stato un lavoro a due voci, ma un progetto intellettuale e morale collettivo, che ha coinvolto studiosi e studiose palestinesi, israeliani, arabi ed ebrei, diversi dei quali hanno contribuito al nostro volume, sentendo di non poter più rinviare ulteriormente questo confronto. Nella letteratura palestinese, araba, israeliana ed ebraica esistono da tempo autori che hanno colto questa relazione. Penso ai lavori, tra gli altri, di Ghassan Kanafani, Elias Khoury, Edward Said: tutti hanno intrecciato nei loro racconti il cammino traumatico di ebrei e palestinesi. Ci siamo inseriti in questa tradizione, ma abbiamo voluto andare oltre per capire che cosa comporta, sul piano etico e politico, mettere l’Olocausto e la Nakba dentro una stessa cornice concettuale. Il nostro obiettivo non è comparare i due eventi, ma piuttosto tracciare ed esplorare la relazione che li lega. Riconoscere l’Olocausto non inficia le ragioni dei palestinesi riguardo all’enormità del torto loro inflitto dal sionismo e dallo Stato di Israele. L’empatia per le vittime ebree non equivale a un’identificazione completa, né comporta la cancellazione dell’alterità. Significa accettare che ci sono due traumi fondativi che si rispecchiano e si feriscono reciprocamente e non potranno essere separati senza continuare a produrre violenza. Le attuali, orribili politiche coloniali ed eliminatorie di pulizia etnica portate avanti da Israele in Cisgiordania e il genocidio in corso a Gaza, che continuano la Nakba, sono un crudele promemoria della violenza insita nel colonialismo d’insediamento e nell’apartheid, fondato sull’abuso della memoria dell’Olocausto e sull’impiego del linguaggio della sicurezza, della maggioranza e della sovranità ebraiche.

Come vi rapportate alla definizione di «genocidio» rispetto a quanto è avvenuto e sta avvenendo a Gaza dopo il 7 ottobre 2023?

AG: Ho scritto l’articolo «Sì, è un genocidio», apparso in ebraico nell’aprile 2024 in un quotidiano israeliano, dopo un mio breve periodo all’estero, il primo dopo il 7 ottobre 2023. Finché mi trovavo in Israele ero intrappolato nella sua atmosfera emotiva totalizzante. Solo a distanza ho potuto recuperare una posizione pienamente critica e assumermi la responsabilità di dire ciò che vedevo. In quell’articolo ho anche spiegato come, nella maggior parte dei casi, il genocidio emerga da un profondo senso di «autodifesa» da parte del perpetratore. Riconosco che l’accusa di genocidio è grave e non la prendo alla leggera, anche come storico della Shoah. È stato molto difficile per me scrivere questa denuncia, perché riguarda il mio popolo e la società cui appartengo. L’entità delle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre, insieme alla distruzione delle comunità e alla paura per la sorte degli ostaggi portati a Gaza, sono state sconvolgenti. Tuttavia, una volta colta la portata di ciò che stava e sta accadendo da parte di Israele, non si poteva e non si può più tacere. Esistono diverse definizioni di genocidio, ma solo una è accettata a livello globale: quella introdotta dalla Convenzione sul Genocidio adottata dalle Nazioni unite nel dicembre 1948. La Convenzione, come è noto, descrive il genocidio come un crimine commesso con l’intento di distruggere «in tutto o in parte» un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso «in quanto tale». L’«intento» di annientare è ugualmente cruciale. In quanto storico, sostengo che a Gaza si riconoscono ora tutti gli elementi di un genocidio condotto da Israele, con la premessa di una pervasiva deumanizzazione dei palestinesi da parte della società israeliana e l’incitamento alla cancellazione totale di un’intera società per volontà della leadership israeliana. Gaza non esiste più. Bisogna ricordare che un genocidio non deve necessariamente assomigliare all’Olocausto, con camere a gas e la persecuzione sistematica di ogni singolo individuo, per essere un genocidio. La maggior parte dei genocidi non ha quell’aspetto.

Come si esce da questa gigantesca tragedia? Nel vostro progetto intellettuale e politico parlate di binazionalismo egualitario come unica possibilità. Che cosa significa?

BB: Di fronte al genocidio a Gaza parlare di futuro rischia di risultare anacronistico o utopistico. In effetti, la priorità ora è che i palestinesi, e i gazawi in particolare, guariscano le proprie ferite, allevino le loro condizioni psicologiche e materiali, ricostruiscano Gaza, risorgano dalle ceneri del genocidio, ricostruiscano le loro istituzioni nazionali e confrontino Israele per i crimini che ha commesso. Eppure è proprio in questo contesto che riteniamo anche necessario insistere sulla possibilità di immaginare un futuro alternativo per ebrei israeliani e arabi palestinesi. Per troppo tempo la questione palestinese è stata ridotta a un problema da risolvere con ingegnerie geopolitiche, confini variabili, scambi di terre e soluzioni temporanee camuffate da processi e accordi di pace. Tutto questo ha sistematicamente fallito perché, tra le altre cose, ha eluso la dimensione reale del problema: ci sono due collettività nazionali che condividono la stessa terra, ma lo fanno in condizioni di radicale asimmetria, assumendo generalmente la forma di un apartheid israeliano che promuove la supremazia ebraico-israeliana e la segregazione. Il binazionalismo egualitario, che noi proponiamo nel nostro progetto condiviso, parte dal fatto che l’intera area compresa tra il fiume Giordano e il Mediterraneo costituisce oggi un unico spazio politico condiviso da due collettività: quella ebraica israeliana, che ne detiene la totale sovranità e definisce lo spazio politico e giuridico; e quella araba palestinese, sottoposta a frammentazione territoriale, espropriazione e violenza coloniale. La nostra prospettiva è binazionale perché riconosce e promuove l’esistenza di due gruppi nazionali con pari diritti all’autodeterminazione. Ciò significa che non può esserci una soluzione che preservi la supremazia di un gruppo sull’altro e che continui a trattare una delle due collettività come un problema demografico da contenere, espellere o eliminare. Il cuore del nostro progetto è l’uguaglianza politica e sostanziale: la redistribuzione del potere politico, l’abbattimento dei dispositivi di discriminazione, l’accesso equo alle risorse, il riconoscimento reciproco come collettività legittima e diritti simmetrici individuali e collettivi, inclusa l’autodeterminazione, per entrambi i popoli sulla terra che condividono. In questo senso, il binazionalismo egualitario impone anche un processo di decolonizzazione: una lettura che tenga conto del colonialismo di insediamento, dell’espulsione e dello sradicamento dei palestinesi nel 1948 e delle loro conseguenze visibili ancora oggi, fino al genocidio a Gaza. Il binazionalismo egualitario non è una soluzione politica; è un principio etico che dovrebbe guidare qualsiasi soluzione politica e processo di riconciliazione storica in Palestina/Israele, e dovrebbe porre al centro proprio le memorie dell’Olocausto e della Nakba e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

*Simon Levis Sullam è storico contemporaneo all’Università Ca’ Foscari Venezia. Si occupa di storia degli intellettuali, fascismo, antisemitismo, Shoah, memoria. Su Israele e Palestina ha scritto tra l’altro negli anni in “Il Manifesto”, Domenica de “Il Sole 24 ore”, “Il Domani”, “Il Mulino” online, leparolelecose.it, glistatigenerali.com, novantatrepercento.it

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