Joao e la banalità del bene: Zahony, confine tra Ungheria e Ucraina

Articolo pubblicato originariamente su Lungo la rotta balcanica

“Bom dia, como està?”. Quando capisce che siamo italiani, João ci saluta in portoghese, ma poi, per ovvie ragioni, la comunicazione passa subito all’inglese. Dai primi giorni di marzo si trova a Zahony con la moglie ma è in Unione europea già dall’inizio della guerra in Ucraina. Dopo l’arrivo di altre organizzazioni più grandi, ha deciso di lasciare la Polonia alla ricerca di un confine meno affollato dove ci fosse comunque bisogno di supporto, con un approccio dal basso. E così, dopo varie ricerche, si è stabilito al principale valico di frontiera tra Ungheria e Ucraina.

“In questo confine cerchiamo di accogliere le persone nella maniera più umana possibile. Abbiamo mediatori di ucraino perché ci siamo resi conto che per incontrare queste persone non basta la buona volontà, sono portatrici di sofferenza che hanno bisogno di esternare e non lo possono fare se non comunicano nella loro lingua. Contribuiamo insieme ad altre organizzazioni ad accoglierle quando arrivano e cerchiamo di capire quali siano le loro necessità”, ci racconta João.

Poche, se non nulle, sono invece le risorse messe a disposizione dal neo rieletto governo di Orban, che, nonostante si sia allineato al resto dei Paesi europei nel permettere spostamenti gratuiti alle persone ucraine, non ha esitato a ribadire il suo sostegno alla Russia il giorno dopo aver ottenuto il quarto mandato consecutivo. A Zahony tuttavia, ad attendere gli ucraini alla frontiera, non sono i respingimenti illegali e i manganelli di Frontex e dei poliziotti di frontiera come continua ad accadere a tutte le persone in movimento che percorrono da anni queste e altre rotte, ma hub di smistamento, tendopoli, trasporti gratuiti in tutto il Paese e iniziative di accoglienza e supporto lasciate in mano alla solidarietà locale e internazionale. Scenario che ricorda molto da vicino le dinamiche del 2015 quando è stato aperto il corridoio lungo la rotta balcanica. In base a quanto ci raccontano i volontari locali e internazionali, chi scappa verso l’Ungheria ha deciso di lasciare definitivamente l’Ucraina e cerca di raggiungere parenti e amici in altri Paesi europei. Tanti ci stavano già pensando prima della guerra, a causa delle condizioni sociali, politiche ed economiche all’interno del Paese.

Zahony dista pochi chilometri dalla cittadina ucraina di Chop, a unirle è una linea ferroviaria con frequenti treni in entrambe le direzioni. Il tragitto dura una decina di minuti ma molto spesso i treni tardano ad arrivare, accumulando a volte fino a 10 ore di ritardo. A Chop le persone vengono fatte attendere, dentro e fuori i treni, creando una situazione molto complessa in termini umanitari, in un paesino con poche migliaia di abitanti dove ora si riversano persone in fuga da aree circostanti fino a un raggio di 500 chilometri.

“Nei primi giorni di guerra, quotidianamente arrivavano numerosi treni con centinaia di ucraini. Era un esodo. Le persone erano disorientate, spaventate, senza un posto dove andare, senza idea di dove andare. Così sono state sistemate per qualche giorno qui a Zahony in alcuni edifici adibiti per la crisi a centri di transito. Oggi invece i numeri sono molto più bassi, parliamo di poche decine di persone per ogni treno, per un totale di 100-150 persone al giorno. C’è addirittura un flusso inverso di ucraini che ha deciso di tornare nel proprio Paese. Ed è proprio ora che riusciamo a fare meglio il nostro lavoro. Abbiamo tempo per creare un ambiente sicuro, protetto, per instaurare un legame con le persone, per capire i loro bisogni. Ora per noi è diventato un requisito fondamentale allargare il team della nostra piccola organizzazione con volontari che parlino ucraino”.

João si ferma, guarda la moglie accanto a lui, capelli lunghi appena stirati, occhiali alla moda, pantaloni attillati e una casacca gialla con la scritta “volontari” e prendendola per mano ci racconta.

“Non possiamo non sentirci vicini a queste persone che fuggono dalla guerra. La storia della mia famiglia mi impone di essere qui a dare sostegno. Io sono nipote di due ebrei polacchi che negli anni ’40 sono fuggiti in Argentina per scappare dai campi di concentramento nazisti, sarebbero finiti sicuramente ad Auschwitz. Poi si sono spostati in Brasile dove mia mamma si è sposata. Lì sono nato io e lì ho conosciuto mia moglie. Da qualche anno viviamo in Israele, siamo israeliani. Per questo penso che tra poche settimane ce ne andremo da qui e inizieremo un progetto di sostegno per i rifugiati ucraini ebrei che Israele sta accogliendo. Anche loro hanno tanto bisogno di supporto e forse noi nel nostro Paese riusciremo a dargli una degna accoglienza e un posto dove ricominciare”.

Ci congediamo e facciamo un giro per la stazione di Zahony dov’è appena arrivato un treno con qualche decina di ucraini, mamme e bambini. Un’organizzazione arrivata dalla Gran Bretagna con un bus carico di peluche intrattiene i bambini con regali e spettacoli improvvisati mentre la polizia di frontiera blocca le persone appena scese dal treno per controllare che abbiamo i documenti in regola. Chi ha qualche problema viene accompagnato in un’area della stazione dove Unhcr, Oim e autorità locali supportano e orientano le persone. La scuola principale della cittadina è stata adibita a centro di transito per chi ha bisogno di prima accoglienza per qualche giorno, ma ci sono anche tanti locali che forniscono posti letto per famiglie con bambini piccoli. All’uscita della stazione seguiti dai tanti volontari internazionali presenti nel tendone allestito dall’ong italiana Cesvi si può trovare un pasto caldo, c’è chi aiuta i più anziani a camminare, chi si offre di portare valigie e zaini pesanti, chi fa foto rubate per vendere pornografia della sofferenza e chiedere fondi, chi fornisce le prime informazioni di emergenza. Qualche organizzazione affitta autobus per portare persone nel proprio Paese in Ue ed essere lì accolte. Tante però, scelgono di ripartire autonomamente in treno alla volta di Debrecen o Budapest per rimanervi o, più facilmente, per ripartire per altre mete.

A Zahony tra le varie organizzazioni c’è anche l’Agenzia Ebraica, braccio destro dello Stato di Israele nel promuovere e gestire l’immigrazione ebraica nel Paese, uno dei principali strumenti, assieme alla brutale occupazione della terra e al sistema di apartheid in vigore in Palestina – come denunciato dall’Onu e da Amnesty International in recenti report – per arrivare a una superiorità demografica ebraica in Israele. Non appena la Russia ha dichiarato guerra all’Ucraina, il governo israeliano ha infatti immediatamente chiesto agli ebrei ucraini di fare l’Aliya (il ritorno) in Israele, creando una task force ministeriale e rimuovere le lungaggini burocratiche per favorire l’arrivo dei nuovi immigrati ebrei, istituendo sei punti di accoglienza dell’Aliya ai valichi di confine dell’Ucraina con Polonia, Moldavia, Ungheria e Romania. Quasi 8.500 ucraini hanno già avviato le pratiche, mentre altri 25.000 hanno chiamato il numero verde dell’Agenzia Ebraica per chiedere informazioni sulla procedura. Fuggire da una aggressione per poi diventare strumento di aggressione, questo è uno dei volti assunti oggi dalla banalità del male.

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