Articolo pubblicato originariamente su +972 Magazine e tradotto dall’inglese dalla redazione di Bocche Scucite

Una manifestazione contro il crescente antisemitismo sotto lo striscione “No Hate, No Fear”, 5 gennaio 2020. (Gili Getz)
Per anni i leader ebraici statunitensi hanno cercato di incentrare l’identità della diaspora su Israele. Ma la battaglia per ridefinire l’antisemitismo dimostra che non funziona più.
Gli analisti che stanno analizzando la “Strategia nazionale per la lotta all’antisemitismo” recentemente presentata dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden si chiedono giustamente quali saranno gli effetti della nuova politica. Ma c’è un retroscena nel documento della Casa Bianca – e nei più ampi sforzi per definire e combattere l’antisemitismo – che non dovrebbe essere taciuto.
Gran parte di questa storia è incentrata sul modo in cui diverse organizzazioni ebraiche americane, per più di due decenni, hanno unito con forza la difesa di Israele con la lotta all’antisemitismo nella ricerca di un’identità ebraica unificata. Questi stessi attori hanno fornito consulenza alla Casa Bianca nella preparazione della sua nuova strategia e, sebbene la loro vittoria sia stata limitata, le implicazioni dei loro sforzi potrebbero essere di vasta portata.
Le origini e lo sviluppo di questa campagna per l'”anti-antisemitismo” orientato a Israele rivelano che non si tratta tanto di proteggere gli ebrei quanto di un tentativo di salvare un approccio dominante ma minacciato per garantire la continuità ebraica. Ma con Israele che non costituisce più una forza unificante per gli ebrei americani, l’efficacia di questo progetto sembra sempre più in dubbio.
Infatti, mentre Israele si sposta sempre più a destra e sempre più giovani ebrei americani si allontanano, il tentativo di fare di Israele il centro dell’identità ebraica della diaspora – e di mettere a tacere chiunque lo critichi – non sembra più essere un garante della continuità ebraica, quanto piuttosto una minaccia.
Un ebraismo unificato?
Il tentativo di usare l'”anti-antisemitismo” per definire i giovani ebrei in base a ciò che sono contrari, e per isolarli dal dibattito su Israele, è una sfortunata conseguenza di un’evoluzione dell’identità ebraica americana che ha avuto altrimenti molte manifestazioni positive.
Sulla scia dell’Olocausto e della distruzione dei centri europei di vita ebraica, insieme alla loro crescente integrazione nel mainstream della società americana, i leader ebraici statunitensi hanno iniziato a preoccuparsi che il loro principale messaggio ai giovani sulla lotta all’antisemitismo fosse in gran parte negativo e poco attraente di per sé. Combattere questo razzismo era certamente una necessità costante, ma era necessario qualcosa di più di un messaggio negativo per garantire che le generazioni future apprezzassero il loro essere ebrei.
Ecco che entra in scena Israele, soprattutto dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Nel corso di sei decenni, la cultura israeliana (piuttosto che quella dell’Europa centrale e orientale), la lingua ebraica (piuttosto che lo yiddish) e i legami con un Israele romantico (piuttosto che con uno shtetl romantico) sono diventati sempre più centrali nell’identità ebraica americana, nella vita quotidiana e persino nella religione. Questa tendenza ha aiutato le nuove generazioni a vivere l’essere ebreo come qualcosa di positivo e persino divertente, che va oltre il negare a Hitler una vittoria postuma.
Il cambiamento fu profondo ma così sottile che solo chi aveva occhi e orecchie per i dettagli – e un’infarinatura di yiddish ed ebraico – poteva seguirlo. In quel periodo il bubbie è diventato savta; “Bei Mir Bistu Shein” (e anche “Sunrise, Sunset”) ha lasciato il posto a “Yerushalayim Shel Zahav”; il mitsvosav è passato al mitsvotav; e i falafel e l’hummus hanno spodestato il borscht e la punta di petto. Si è trattato di un cambiamento culturale e linguistico ma non politico, se non nel senso più vago che Ahavas Yisrael (o ora Ahavat Israel, l’amore per il popolo ebraico) e l’amore per lo Stato di Israele in quanto Stato ebraico hanno iniziato a fondersi l’uno nell’altro. Kiryat Arba e la gioventù dei coloni in cima alle colline erano generalmente trascurati; era la tenuta Zahal come moda, e non i suoi posti di blocco, a sembrare attraente.
I non ebrei, o anche molti ebrei che non hanno vissuto questa evoluzione, potrebbero aver bisogno di un glossario per aiutarli a superare il paragrafo precedente. Ma l’attuale leadership ebraica americana non solo ha vissuto il cambiamento, ma ha imparato ad amarlo. Per la maggior parte, l’orientamento israeliano si è evoluto rapidamente da una tendenza graduale a una strategia consapevole e ben sostenuta per la continuità ebraica.
La ragione della sua adozione era semplice: funzionava. Sociologi e filantropi, con solo un’infarinatura di figure spirituali e politiche, hanno aperto la strada e il processo è stato particolarmente efficace tra i giovani. I programmi orientati a Israele, in particolare i viaggi Birthright in età universitaria, hanno prodotto una generazione che non solo apprezzava la propria ebraicità per gli anni a venire, ma era anche più propensa a sposare altri ebrei e a trasmettere la propria identità ai figli.
È un diritto di nascita
Uno sguardo al modo in cui viene presentato il programma Birthright rende esplicito questo processo in forme sia visive che verbali. Il materiale promozionale mostra giovani ebrei americani che fanno cose divertenti in luoghi divertenti, con gruppi misti di genere in primo piano. I testi di accompagnamento parlano poco della politica e della sicurezza di Israele, ma molto dell’impatto di una vita, o di un impatto più lungo di una vita. L’obiettivo esplicito, secondo i materiali, è “assicurare un futuro ebraico”, con l’implicazione (o il presupposto) che non esiste un futuro ebraico senza Israele al centro.
I partecipanti a un viaggio Birthright possono incontrare i palestinesi durante un tour di una cosiddetta “città mista” in Israele, ma più spesso in un contesto in cui non sono etichettati come palestinesi e possono essere parte del divertimento piuttosto che del conflitto. Per esempio, i partecipanti vengono ospitati per una “appetitosa cena hafla” seduti a gambe incrociate in una tenda beduina” subito dopo aver fatto un giro in cammello nel Negev; l’assedio terribilmente crudele di Gaza, a pochi chilometri di distanza, viene visto solo attraverso la lente delle comunità ebraiche in prima linea nei combattimenti intermittenti tra Israele e Hamas.
Perché questo approccio ha funzionato? Man mano che la memoria e il legame diretto con l’ebraismo europeo si sono ridotti, e dopo l’Olocausto che ha distrutto gran parte di quella popolazione, l’enfasi su quel patrimonio si è assottigliata. Israele ha quindi fornito non solo una risposta all’antisemitismo globale, ma anche una serie di attività allettanti ed eccitanti in una società vivace (e forse anche un luogo dove incontrare qualcuno).
Tuttavia, questo approccio si sta scontrando con un problema: Israele stesso. La chiara realtà odierna è che Israele governa tutto il territorio tra il fiume e il mare sotto un unico Stato, concedendo la cittadinanza solo ad alcuni, pattugliando duramente chi non ce l’ha e discriminando i cittadini che non sono ebrei. Gran parte di questa realtà potrebbe non essere esposta durante i viaggi Birthright, ma gli studenti universitari cercano su Google e non tutti apprezzano ciò che trovano.
È vero che l’attuale governo di estrema destra di Israele ha trasformato i fischietti per cani in corni da nebbia. Ma l’idea che i difetti di Israele siano normali – e che stiano per essere risolti – ha perso forza da anni. Anche l’attaccamento a Israele come elemento centrale dell’identità ebraica è in calo tra i giovani da un po’ di tempo.
Programmi come Birthright hanno rallentato la tendenza, ma non l’hanno invertita. Se la maggior parte dei veterani di Birthright è tornata con una maggiore simpatia per Israele, non tutti lo hanno fatto, e i più giovani sono talvolta tornati nei campus con vivaci dibattiti su Israele. Per coloro che hanno abbandonato le danze popolari israeliane e i pranzi a base di falafel dei loro genitori a favore dell’attivismo per la giustizia sociale, valeva la pena partecipare a questi dibattiti.
Ma i dati concreti hanno iniziato a portare cattive notizie per coloro che hanno investito così tanto in Israele come un’ancora per la continuità ebraica. È particolarmente snervante per l’approccio orientato a Israele vedere l’idea di boicottare, disinvestire e sanzionare Israele (BDS) diffondersi lentamente tra i giovani ebrei americani.
Certo, il BDS è ancora una posizione minoritaria, ma a questo punto la quota di ebrei americani che lo sostengono sta superando quella degli ortodossi. Ma ancora più preoccupante per coloro che si preoccupano di Klal Israel (tutto Israele, cioè il popolo e l’unità ebraica) è che la quota di entrambi sta crescendo – e le due cose non si sovrappongono affatto. Le divisioni tra gli ebrei sulla base della religione si sovrappongono sempre più alla polarizzazione politica nel mondo – o nei mondi – ebraico americano.
Questo è un problema che Birthright non può risolvere. Le realtà israeliane profondamente problematiche non sono tanto una shanda fur die goyim quanto una fadicha per i figli di Israele. I recenti avvenimenti in Israele-Palestina e l’insediamento di ministri suprematisti ebrei con l’obiettivo di rimodellare le istituzioni statali, hanno aggravato la minaccia di far dipendere la continuità ebraica da uno Stato ebraico idealizzato. La maggior parte degli ebrei potrebbe trovarsi nel mezzo, se solo esistesse ancora una solida via di mezzo su Israele.
Persino l’Associazione per gli Studi su Israele, un gruppo di studiosi che in precedenza insisteva sulla propria apoliticità, ha espresso “grave preoccupazione” per i “cambiamenti incombenti nel sistema politico e giuridico dello Stato e per il crescente sostegno al razzismo e all’incitamento”.
L’anti-antisemitismo in soccorso
Entra in scena l’anti-antisemitismo. Negli ultimi anni, un’ala della leadership ebraica americana ha cercato di inoculare i giovani ebrei con l’affermazione che sono in pericolo e non graditi nei campus universitari. Come educatori che hanno trascorso la maggior parte della loro vita in un campus o nelle sue vicinanze, troviamo l’idea sconcertante. Le critiche a Israele possono ovviamente derivare da molte fonti, ma l’odio per gli ebrei non è certo la più comune, nemmeno tra i critici più accesi o più duri. Lo scopo dell’anti-antisemitismo sembra quindi non essere tanto quello di proteggere i giovani ebrei, quanto quello di spaventare i loro genitori e di intimorire gli amministratori lamentando che il problema è il razzismo e non la realtà israelo-palestinese. E questo è lo sforzo in atto.
Dall’inizio degli anni 2000, i gruppi di difesa degli ebrei e di Israele hanno lavorato per “aggiornare” la comprensione dell’antisemitismo nel mondo. Il culmine dei loro sforzi – la “definizione operativa” di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) – ha generato molte polemiche: accetta le “critiche a Israele”, ma solo se sono considerate “simili a quelle rivolte a qualsiasi altro Paese”, e poi dipinge come antisemita il “negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione”. Quello che era iniziato come un onesto tentativo di affrontare il crescente antisemitismo è diventato rapidamente un’arma per i guerrieri della definizione, tra cui l’Organizzazione sionista d’America (ZOA), l’American Jewish Committee (AJC) e il Brandeis Center, che hanno fatto pressione su istituzioni e governi affinché lo adottassero.
Come fanno un responsabile per la diversità, l’equità e l’inclusione, un preside di studenti, un funzionario statale o locale per i diritti umani, o un burocrate del Dipartimento dell’Istruzione a ideare e utilizzare un metro di giudizio per determinare se Israele, ad esempio, è criticato in misura simile ad altri Paesi o meno – soprattutto quando le politiche che lo Stato segue non trovano facili equivalenti?
È un po’ azzardato dire che chi si concentra in particolare sul comportamento di Israele deve essere motivato dall’odio per gli ebrei. Un membro dell’African National Congress che chiedeva un “Sudafrica multirazziale” era razzista perché negava l’autodeterminazione nazionale ai sudafricani bianchi? Perché un residente di Tel Aviv che marcia contro l’attuale governo e ne chiede uno laico e democratico è un buon cittadino, mentre un palestinese che chiede uno “Stato per tutti i suoi cittadini” è un bigotto? E un palestinese che vive sotto il dominio israeliano è antisemita se il suo attivismo prende di mira i diritti umani di Israele, ma non quelli della Cina?
Negli Stati Uniti e in Europa, termini ormai abitualmente usati nei discorsi degli ebrei israeliani critici nei confronti dell’attuale governo – anche dal centro – come “apartheid” o “supremazia ebraica” vengono spesso denunciati come “demonizzazione” antisemita, suggerendo che i guerrieri della definizione considerano l’unico campo esente da antisemitismo quello della destra israeliana. Se la negazione dell’autodeterminazione nazionale è un metro di misura, decenni e decenni di dichiarazioni dei leader israeliani sui palestinesi non superano il test.
Nel campo dell’istruzione statunitense, l’obiettivo è stato quello di dare alla ridefinizione dell’IHRA la forza di legge nei casi del Titolo VI, ai sensi della legge sui diritti civili del 1964, ponendola come standard di riferimento per giudicare i casi di antisemitismo. La maggior parte delle analisi legali si scontra rapidamente con l’inattuabilità della ridefinizione dell’IHRA, con il conseguente tentativo di trasformare la legge scritta in politica scritta e di adottarla come “guida”. Ma questo deve essere fatto “contestualmente”, in effetti utilizzando lo stesso tipo di doppio standard che si pretende di combattere (come ignorare un critico israeliano centrista dello Stato, ma colpire un critico straniero di Israele che dice la stessa cosa).
L’attenzione alla politica non ha comunque impedito ai lobbisti di spingere la ridefinizione. Ad oggi, sette Stati hanno adottato ufficialmente la ridefinizione per l’applicazione delle leggi sui diritti civili e sui crimini d’odio. Nel 2021, l’amministrazione Trump ha firmato un ordine esecutivo (pochi giorni dopo aver pronunciato commenti che molti hanno giudicato antisemiti) in cui si chiede alle agenzie governative statunitensi di prendere in considerazione la ridefinizione dell’IHRA nel valutare le accuse di discriminazione presso le scuole e le università pubbliche, provocando un’ondata di denunce contro il patrocinio palestinese nei campus.
La Casa Bianca di Biden era probabilmente consapevole del ginepraio che le definizioni di antisemitismo hanno creato. Hanno ricevuto consigli dai sostenitori dell’IHRA, ma anche dalle organizzazioni ebraiche progressiste, che hanno esortato la Casa Bianca a rifiutare qualsiasi definizione di antisemitismo o ad adottarne una diversa – come la Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo o il Documento Nexus – che non soffoca o punisce il discorso politico. La strategia di Biden ha “abbracciato” l’IHRA, ma ha citato l’esistenza di altre definizioni, menzionando per nome il Nexus. Il risultato ha lasciato che i sostenitori e i critici dell’IHRA discutessero all’interno dei propri schieramenti su cosa fosse stato vinto o perso.
L’effetto reale di tutto ciò sarà quello di togliere per il momento le questioni definitorie dalla scrivania di Biden e metterle nella casella di posta di molti altri. L’ambiguità trasformerà i disaccordi su Israele in lotte sull’antisemitismo, che saranno giudicate con poche indicazioni dagli amministratori dei college, dai responsabili delle risorse umane, dalle piattaforme dei social media e, inevitabilmente, dal Congresso. Ci sono già esperti che cercano di trovare accuse di discriminazione da presentare, sperando di creare precedenti che insinuino lo standard dell’IHRA nella pratica operativa.
La ridefinizione dell’IHRA non è l’unica strategia di lawfare radicata nell’anti-antisemitismo. Un gruppo di organizzazioni – tra cui il Ministero israeliano degli Affari strategici, la Israel Allies Foundation (IAF), Christians United for Israel (CUFI) e l’American Legislative Exchange Council (ALEC) – sta lavorando in tandem per punire il movimento BDS e gli altri americani che sostengono un certo livello di boicottaggio per fare pressione su Israele per quanto riguarda i suoi diritti umani.
Ad oggi, 35 Stati hanno in vigore leggi che fanno almeno una delle due cose: impongono agli appaltatori statali di firmare una certificazione che attesti che non boicottano Israele; e/o impongono allo Stato di creare una lista nera di aziende impegnate nel boicottaggio – anche dei territori occupati da Israele – e di chiedere al Controllore di disinvestire o di rifiutarsi di fare affari con loro. Le leggi sono spesso presentate come leggi anti-discriminazione, con preamboli che definiscono il boicottaggio di Israele (o dei territori controllati da Israele) intrinsecamente antisemita, una pretesa spuria resa possibile solo dall’uso improprio di strumenti come la ridefinizione dell’IHRA.
Forzare il consenso dove non esiste
Ci sono molte strade per giungere alla conclusione che lo sforzo di costruire uno Stato-nazione ebraico sia stato mal indirizzato o mal applicato. Ma per evitare discussioni e punire i critici, i guerrieri della definizione spingono su standard legali e normativi volti a rendere tale conclusione automaticamente insicura per gli ebrei. In effetti, alcuni legislatori stanno facendo pressione sulle società di social media affinché includano il sionismo come “caratteristica/identità protetta”, al pari delle identità fondamentali che gli Stati Uniti già proteggono: “razza, colore, religione, sesso (compresa la gravidanza, l’orientamento sessuale o l’identità di genere), origine nazionale, età (40 anni o più), disabilità e informazioni genetiche (compresa la storia medica della famiglia)”. A nessun altro nazionalista o ideologo verrebbe concesso tale status.
La battaglia sulle definizioni si è svolta in molti contesti, con una curiosa caratteristica che si ripete: I gruppi ebraici si schierano da entrambi i lati del dibattito, come hanno fatto nella battaglia sulla formulazione di una risoluzione dell’American Bar Association che condanna l’antisemitismo. Alcuni cercano di stare a cavallo tra le due parti, ma questo diventa sempre più difficile. Anche chi, guardando l’attuale primo ministro israeliano, non vede Hendrik Frensch Verwoerd (che portò il Sudafrica all’apartheid), vede invece Victor Orban, che sta allontanando il suo Paese dalla democrazia e dai valori liberali.
Alcuni che hanno spinto definizioni o guide espansive sull’antisemitismo hanno cominciato a fare marcia indietro quando hanno visto come sono state usate in modo improprio. Un grande gruppo di leader ebraici – generalmente di centro e di sinistra – ha recentemente affermato che “è profondamente irresponsabile confondere le accuse di antisemitismo con le critiche alle politiche israeliane”. Citando il BDS, il gruppo proclama che “le azioni non violente che premono per un cambiamento delle politiche israeliane non sono ipso facto antisemite”, ma continua a sostenere che “è antisemita sostenere la distruzione di Israele o negare il diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione”.
L’anti-antisemitismo, come impiegato da parti significative dell’odierno establishment ebraico americano mainstream, centra quindi l’identità ebraica attorno ai suoi nemici percepiti – proprio il problema che l’orientamento verso Israele avrebbe dovuto risolvere. Per essere sicuri, i sociologi sono già al lavoro per scoprire se la strategia funziona. La nostra impressione, come professori e genitori, è che il modo più semplice per una vecchia generazione di perdere influenza sui pensieri e sulle parole di una più giovane sia quello di controllarli troppo duramente.
Molti giovani ebrei americani, soprattutto quelli di orientamento progressista, non considerano più la parola “apartheid” come un tabù quando descrivono Israele. L’anti-antisemitismo probabilmente non metterà a tacere i dubbi di chi vede le gradazioni di cittadinanza, privilegi e diritti imposti da Israele nel territorio che controlla. I giovani ebrei che sono arrivati a insistere a gran voce sul fatto che le vite dei neri contano, probabilmente vedranno le tattiche di silenziamento come tentativi di persuaderli che le vite dei palestinesi non contano. Anche i più anziani, che non riescono a usare la parola A e che solo di recente hanno imparato in che ordine mettere le lettere L, G, B, T e Q, saranno probabilmente inorriditi nel sentirsi dire da coloro che parlano a nome di Israele che nessuna di queste lettere è gradita.
Centrare l’identità ebraica su Israele – e difenderlo a tutti i costi – è stato per decenni l’impulso centrale dell’establishment ebraico americano. E per un certo periodo è stato un messaggio unificante logico e potente che ha infuso orgoglio e nuova vita in una società quasi decimata. Ma Israele non è più la forza unificante di una volta. Oggi, la difesa indiscussa di Israele da parte della leadership ebraica sta causando spaccature in una comunità che non può permetterselo.
Lanciare accuse di slealtà agli ebrei che contestano Israele come qualcosa di diverso da un progetto santo e intoccabile, o accuse di antisemitismo ai non ebrei (e persino agli ebrei) che criticano lo Stato, non è solo disonesto, è profondamente dannoso. Inquadrare l’identità ebraica attorno al tema negativo dell’anti-antisemitismo è probabilmente in grado di mobilitare una parte della vecchia generazione e un’infarinatura di quella più giovane, ma si ritorcerà contro nel lungo periodo.

[…] dalla “devastazione che si è dispiegata davanti agli occhi del mondo”. ( https://bocchescucite.org/difendere-la-dignita-e-la-presenza-del-popolo-di-gaza/ ) Mai così espliciti e rinunciando…
Grazie per il vostro coraggio Perché ci aiutate a capire. Fate sentire la voce di chi non ha voce e…
Vorrei sapere dove sarà l'incontro a Bologna ore 17, grazie
Parteciperò alla conferenza stampa presso la Fondazione Basso il 19 Mercoledì 19 febbraio. G. Grenga
Riprendo la preghiera di Michel Sabbah: "Signore...riconduci tutti all'umanità, alla giustizia e all'amore."