Lezioni palestinesi

Letizia

Quando nel 2009 mi proposero una missione a Gaza ed il mio ospedale mi rifiutò un’aspettativa, mi licenziai senza ripensamenti. Rimasi 9 mesi; il mio team di fisioterapisti, medici e infermieri divenne la mia famiglia; mi insegnarono moltissimo sulla riabilitazione, sul dolore, sulla Resilienza. Più di tutto, in quei mesi a Gaza, imparai la non violenza. Mai, in quasi un anno, mi capitò di sentire un abitante di Gaza arrabbiato, vendicativo, rancoroso verso Israele. Mi dicevano sempre: noi non vogliamo niente, vogliamo solo essere liberi. Liberi di andare a fare un master all’estero, di viaggiare e studiare. Io rimanevo stordita da bagni di umiltà continui, dalla tolleranza, dalla capacità di non odiare.

Lasciai Gaza nel 2010. Da allora, ad ogni attacco di Israele, ho vissuto nel terrore. Perché ora non stavo più in pensiero per una popolazione in generale. Ora erano Ahmed, Rafat, Momo, Ramy, Sana’a, Nariman… ora erano gli amici che rischiavano di morire sotto i bombardamenti. Il dolore e il panico erano lancinanti. Ad ogni attacco, era un continuo controllare che le persone che amavo fossero vive.

Il 7 ottobre ha aperto due lunghi anni di angoscia. Ora, oltre a sperare per la sopravvivenza dei colleghi, convivo col dolore quotidiano di sapere che hanno perso tutto: le loro case, i libri su cui studiavano, i giocattoli comprati con sacrificio ai loro figli. Sapere degli amici costretti a vivere in tende di fortuna e a fare la fame, fa malissimo.

Iniziai subito a cercare qualsiasi modo per raggiungere Gaza, perché per quanto potesse far paura, nulla appariva (e tuttora appare) più sensato che essere là con loro. Quando arrivò una telefonata e mi fu chiesto se fossi disposta ad andare a Gaza, non mi sembrò vero.

Dissi sì immediatamente. Con il cuore molto pesante: lasciavo a casa una famiglia che avrebbe avuto paura per me. Quella stessa paura che avevo provato io per anni, sapendo amici in pericolo. Ma non potevo non andare. Dovevo essere a Gaza. Per portare il mio contributo tecnico, ma anche per dire loro: non siete soli. Siamo qui. Siamo qui con voi sotto queste bombe. Siamo qui e restiamo aggrappati alla vita insieme.

Il rischio di essere rifiutata era altissimo. Il controllo è totale e strettissimo; Israele decide chi entra e chi no. A volte a caso, a volte in modo crudele e calcolato. Si scopre la sera prima della partenza se si è accettati o no. Quando, alle 20.30 di un lunedì sera, arrivò la conferma che il giorno dopo sarei in effetti entrata a Gaza, ero frastornata, incredula.

Immensamente felice all’idea di entrare. Terrorizzata da quello che mi aspettava. Temevo l’impatto emotivo di vedere Gaza distrutta.

Dopo un interminabile viaggio da Amman di 12 ore, entrai a Gaza. Il piccolo pulmino sgangherato si muoveva lento, tra campi abbandonati ed edifici disintegrati. Bambini inspiegabilmente sorridenti ci salutavano dalle cime di cumuli di macerie. Gruppetti di uomini rassegnati ci guardavano passare, silenziosi.

Ho trascorso a Gaza 6 settimane. Coordinavo un team medico che gestiva un posto medico di primo livello (ambulatori, primo soccorso, salute materno-infantile di base), un ospedale da campo e il pronto soccorso del più grande ospedale della zona (già vandalizzato dai soldati israeliani e rimesso in sesto con tanta fatica).

Di queste 6 settimane potrei raccontarvi un sacco di dettagli medici, della mancanza di farmaci e di farina, degli spostamenti continui a cui è obbligata la popolazione, o delle piogge di bombe ininterrotte che cadono ovunque. Potrei raccontarvi dei drammi umani inspiegabili che abbiamo incontrato, del dolore immenso a cui abbiamo assistito. Ma spero che, a questo punto, tutto ciò sia ormai cosa nota.

Vi racconterò degli asinelli.

Perché nessuno vi racconterà che a Gaza, con i bombardamenti e la devastazione, anche spostarsi è un’impresa eroica. Benché ci siano attacchi continui, la vita non si ferma. Perché i palestinesi non li fermerete mai. Continuano a lavorare, benché esausti; soprattutto lo staff che ancora fa funzionare gli ospedali, nonostante tutto. Ma per raggiungere gli ospedali non ci sono strade, non ci sono più macchine, non c’è più trasporto pubblico: tutto è stato sistematicamente distrutto e vandalizzato. E così, sono gli asinelli che a Gaza muovono il mondo. Scheletrici, ormai denutriti da mesi, asinelli instancabili tirano carretti con decine di persone sopra e li portano al lavoro, o a cercare cibo, o a cercare cure mediche. Le famiglie in fuga si muovono su carri colmi del poco che è rimasto delle loro case distrutte. Se non ci fossero gli asinelli, Gaza sarebbe paralizzata. Le poche auto non basterebbero per continuare a far proseguire la vita a Gaza.

Una mattina la mia vice rideva, mentre mi raccontava che era appena stata a un meeting con le Nazioni Unite. Ci era arrivata su un carretto tirato da un asino. Rideva e mi diceva: “Ma ci pensi… ora vado ai meeting con le Nazioni Unite su un carretto.” Ci siamo fatte una dissacrante risata insieme: Dio benedica gli asinelli di Gaza. E i gazawi che non si fermano mai.

Vi racconterò delle tende.

Di come ormai chiunque, ricco o povero, laureato o no, viva in una tenda. Da questo punto di vista, non c’è più disuguaglianza sociale. A quasi nessuno è rimasta una casa e quasi tutti ormai vivono in una tenda. I più fortunati ne hanno ottenuta una vera. Moltissimi hanno dovuto costruirsi un riparo con mezzi di fortuna. Mohammed un giorno mi ha fatto vedere le foto di casa sua: una elegante villa bianca su due piani. Ora vivono in una baracca creata con legni trovati per caso e teli di plastica donati dalle organizzazioni umanitarie. Il direttore di uno degli ospedali più grandi della Striscia è arrivato in ritardo a un meeting un giorno. Si è scusato, spiegando che aveva dovuto spostare la sua tenda e la sua famiglia prima di venire al lavoro, perché le IDF stavano avvicinandosi troppo e avrebbero raso tutto al suolo presto.

E, benché direttori d’ospedale, medici, vice-direttori di organizzazioni umanitarie, insegnanti, … vivano ora in tende precarie, nessuno si presenta affranto o in disordine. Tenda o no, ognuno è sempre ben vestito, ordinato, dignitoso. È qualcosa che non si può spiegare: la dignità del popolo palestinese.

Di nuovo, per 6 settimane, ho avuto l’onore immenso di servire questa Popolazione che Resiste. Di nuovo, ho visto donne e uomini che nonostante siano vittime di un tentativo sistematico di sterminio da mesi, si ergono al di sopra di macerie e morte e continuano a Vivere. Continuano a studiare come possono, a lavorare e a far funzionare un sistema disintegrato. Continuano instancabili a far funzionare ospedali e a prendersi cura dei loro feriti. Seppelliscono con dignità e contegno i loro morti. In tutto questo, mai una parola d’odio, desiderio di vendetta, rancore. I Palestinesi vogliono solo vivere.

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