Di Chiara Cruciati
Articolo pubblicato originariamente sul Manifesto.
La pratica israeliana di trattenere i cadaveri dei palestinesi risale alle origini, una forma di controllo totale, dei vivi e dei morti. Ne sono stati individuati 630: donne, uomini, bambini. Ma con Gaza i casi sono esplosi: 1.500 morti mai riconsegnati
Con una mano Umm Fayez stringe il braccio di una carriola, con l’altra saluta. Due nipoti caricano dentro il motore di un’auto, lei spinge la carriola lungo una discesa. Salta di gioia quando l’impresa è compiuta. «L’auto è di mio figlio Fayez, ha avuto un incidente. Recuperiamo i pezzi». Appoggiati a un muro ci sono due pneumatici sgonfi, un sedile spellato e il parabrezza anteriore.
La figlia Sama osserva la scena dall’uscio. Il terzo figlio, Fadi, non c’è. «È scomparso», dice Umm Fayez. Non ce la fa a dire che è morto. Tecnicamente è vero, non gliel’ha comunicato mai nessuno: «Ce l’hanno ancora gli israeliani. Da due anni».
IL SALOTTO è tappezzato di sue foto. Gigantografie e cornici da tavolo, poster in plastica, un pezzo di legno dove qualcuno ha intagliato il volto del giovane. Fuori, un cartellone alto due metri guarda al minuto spazio del campo profughi di Dheisheh dove vive la famiglia Ghattas: il volto di Fadi, sullo sfondo la Cupola della Roccia e la data di scomparsa, 2 settembre 2022.
«Era un venerdì – continua la donna – Era rimasto sveglio fino a tardi per aggiustare un computer. Poi è uscito. Alle 13.40 mi ha telefonato un funzionario del mukhabarat, i servizi israeliani. Mi ha chiesto se Fadi avesse la barba e cosa indossasse quel giorno».
Poco prima al checkpoint di Beit Anun, a Hebron, Fadi si era avvicinato a piedi ai soldati, lo si vede in un video di sorveglianza. Ne ha accoltellato uno, al collo. Gli altri hanno sparato. Aveva 19 anni e si era appena iscritto all’università, infermieria.
Il padre è corso alla base militare nella colonia di Gush Etzion. Gli hanno mostrato una foto su un telefonino: Fadi in camicia bianca, due macchie di sangue sull’addome, una mano ripiegata in modo innaturale, sul petto l’impronta di una scarpa. «È questo Fadi?», gli ha chiesto un militare. Il padre si è accasciato. Da allora non hanno più avuto notizie.
Umm Fayez, due anni dopo, si chiede ancora perché lo abbia fatto. Continua a mostrarci i video del figlio mentre balla in modo buffo, si tuffa in piscina, fa scherzi al padre. «Era così divertente. Con gli amici girava sketch e li pubblicava su Tik Tok».
«La sua attività politica? Disegnare graffiti sui muri, Mandela, Arafat, la bandiera della Palestina. Nelle ultime due settimane però era silenzioso, cupo. Da quando hanno ucciso Ibrahim al-Nabulsi».
NABULSI ERA un combattente di Nablus, aveva 18 anni quando è stato ucciso dall’esercito israeliano che assediava la casa dove era nascosto. Prima di morire ha chiamato la madre, la registrazione della telefonata ha fatto il giro della Palestina: le diceva che le voleva bene e di continuare a lottare, di dirlo a tutti di non arrendersi altrimenti la sua morte sarebbe stata vana.
Quel messaggio ha avuto un effetto valanga. Tanti giovani hanno aderito a gruppi armati, da lì è nata la Fossa dei Leoni di Nablus. Fadi ha agito da solo, senza un’organizzazione dietro o una visione. È andato a morire, un atto di disperazione che da fuori può apparire senza senso. Viveva in un campo profughi, con un villaggio di origine cancellato dalle mappe nel 1948, troppi pochi soldi per pensarsi altrove e le incursioni dell’esercito con cadenza settimanale.
Fadi non ha avuto un funerale. Come non ce l’hanno avuto altre centinaia di palestinesi uccisi dall’esercito e mai riconsegnati alle famiglie. Li chiamano «missing bodies» e c’è chi prova a contarli. È la campagna nazionale del Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center (Jlac). È iniziato tutto con Mashrour Al Arouri: nato nel 1956, si era unito alle fila del Fronte democratico per la liberazione della Palestina. È stato ucciso il 18 maggio 1976 nella Valle del Giordano mentre con altri combattenti tentava di raggiungere Nablus.
Per anni la famiglia ha provato a farsi riconsegnare il corpo seppellito in una base al confine con la Giordania. Si è rivolta al Jlac nel 2007, ne è seguita una battaglia legale di due anni. Alla fine l’esercito ha accettato di riconsegnare il corpo. Di corpi in realtà ne sono stati esumati sette: le condizioni del “cimitero” sono pessime, una placca in metallo con su un numero indica che lì sotto c’è un cadavere, così vicini che finiscono per mischiarsi. I costi dei test del Dna li ha sopportati la famiglia, che è stata “fortunata”: hanno individuato Mashrour al secondo tentativo. Dopo 40 anni la famiglia ha una tomba su cui piangere.
Da lì è nata l’iniziativa del Jlac. Nell’ufficio di Ramallah ci accoglie Hussein Shejaeya, coordinatore della campagna. «Negli anni abbiamo tracciato i corpi scomparsi, ne abbiamo individuati 630: 256 sono seppelliti nei “cimiteri dei numeri”, altri 374 nei freezer dell’Abu Kabir Institute di Tel Aviv. Siamo stati in grado di riconsegnarne alle famiglie 390».
TRA I 630 CASI documentati, dagli anni ‘70 a oggi, nove sono donne, 57 minori, 12 palestinesi cittadini israeliani e 57 prigionieri morti in custodia, di cui almeno 47 hanno perso la vita in carcere dopo il 7 ottobre 2023. Due giorni fa la Prisoners’ Society ha confermato il dato.
Non si hanno numeri sui missing bodies di libanesi e siriani uccisi negli anni ‘60 e ‘70 durante azioni contro Israele. È stato invece il quotidiano Haaretz a dare i numeri su Gaza: citando fonti dell’esercito, indica in almeno 1.500 i corpi di palestinesi nella base di Sde Teiman, tutti nei freezer e senza nome. Gli stessi soldati hanno parlato di condizioni pessime: alcuni malamente decomposti, altri amputati. Molti sono stati riesumati dalle fosse comuni durante l’offensiva, Tel Aviv cercava eventuali ostaggi.
I cimiteri dei numeri sono almeno cinque, distribuiti in zone militari tra Galilea, Naqab e Valle del Giordano. «Sono conservati malissimo. Ci sono stati casi di alluvioni e di animali randagi che hanno scavato tra i resti. Le tombe non hanno nome. E poi ci sono i sistemi di refrigerazione. La pratica è emersa dopo il 2015. Dai freezer abbiamo recuperato 270 corpi. In molti casi sono stati riconsegnati ancora congelati, un unico pezzo di ghiaccio. Come nel caso di Amjad Abu Sultan».
Aveva 14 anni quando è stato ucciso al checkpoint di Beit Jala. Da lontano, aveva tirato una molotov verso i soldati, gli hanno sparato tre colpi. Era l’ottobre 2021. Il corpo è stato riconsegnato un mese dopo: «Il medico ha rinviato l’autopsia per giorni: ha dovuto aspettare che si scongelassero anche gli organi interni».
LO STESSO è successo con il 15enne Hassan Manasra, ucciso a Gerusalemme nel 2015. E poi c’è il caso della dottoressa Mai Afana, uccisa per errore a un checkpoint nel luglio 2021 e riconsegnata un anno dopo grazie a Jlac che si è rivolto alla Corte suprema. Prima che si giungesse a sentenza, l’esercito l’ha riportata ai familiari, «volevano evitare che la Corte si esprimesse e la decisione divenisse un precedente».
«Tre giorni fa al checkpoint vicino Jenin hanno portato i corpi di tre palestinesi di cui non conosciamo l’identità – continua Shejaeya mentre ci mostra le foto – I sacchi blu sono rimasti a terra, sotto il sole e tra la polvere, per un giorno intero: l’esercito aspettava il via libera. Non è arrivato, i corpi sono spariti di nuovo». In altri casi dei cadaveri ci sono solo dei pezzi: di Tamer Fuqaha, 32 anni, ucciso a Tulkarem lo scorso maggio, manca la testa.
L’origine della pratica affonda nel mandato coloniale britannico, l’Emergency Regulation 133. Dopo la fondazione dello Stato, Israele ha assorbito la norma nella legge nazionale. Nel 2018 la Knesset ha approvato un emendamento alla Counterterrorism law con cui autorizza polizia ed esercito a ritardare la riconsegna dei corpi di palestinesi per «proteggere la pubblica sicurezza, prevenire disturbi, incitamento al terrore o atti di terrorismo».
Ovvero, impedire i funerali manterrebbe la pace. Soprattutto dentro Gerusalemme occupata e nello Stato di Israele: «Le autorità pongono condizioni al rilascio dei corpi – dice Shejaeya – Funerali di notte, con un numero limitato di partecipanti che vanno comunicati prima, divieto di girare video o scattare foto».
LA CHIAMANO necropolitica, secondo la definizione di Achille Mbembe, il controllo totale dell’autorità sui vivi e sui morti, «l’esercizio della sovranità attraverso il controllo della mortalità e la definizione di vita»: è Israele che decide se, quando e dove seppellire un proprio caro, con i cadaveri che diventano l’ennesimo campo di battaglia, a disposizione dell’autorità in quanto «minaccia alla sicurezza» e strumento di controllo della comunità oppressa.
«Le ragioni sono varie – spiega Shejaeya – Punizione collettiva per la famiglia; controllo della comunità di appartenenza; pressione psicologica attraverso il controllo del lutto e del dolore. È una violazione della Convenzione di Ginevra, eppure va avanti da decenni».
Nel campo di Dheisheh, Umm Fayez aspetta: «Lascio la porta di casa sempre aperta. Se Fadi tornasse e la trovasse chiusa?».
[…] dalla “devastazione che si è dispiegata davanti agli occhi del mondo”. ( https://bocchescucite.org/difendere-la-dignita-e-la-presenza-del-popolo-di-gaza/ ) Mai così espliciti e rinunciando…
Grazie per il vostro coraggio Perché ci aiutate a capire. Fate sentire la voce di chi non ha voce e…
Vorrei sapere dove sarà l'incontro a Bologna ore 17, grazie
Parteciperò alla conferenza stampa presso la Fondazione Basso il 19 Mercoledì 19 febbraio. G. Grenga
Riprendo la preghiera di Michel Sabbah: "Signore...riconduci tutti all'umanità, alla giustizia e all'amore."