125 anni tra resistenza e solitudine

Articolo pubblicato originariamente su Jacobin

Di Chiara Cruciati

125 anni tra resistenza e solitudine

La lotta palestinese è legata alle trasformazioni regionali e globali, all’avanzata delle destre religiose e sovraniste, all’arretramento delle forze della sinistra. Coglierne evoluzioni e crisi significa capire cosa accade oggi

Per affrontare la lunga storia della resistenza palestinese, è necessario partire dalla ragione per cui, 125 anni dopo, non è una storia del passato. La ragione va ricercata nella natura e nei tempi del progetto sionista e del colonialismo israeliano. L’emersione di una spinta nazionale e nazionalistica all’interno dell’élite ebraica europea, laica e socialista, alla fine dell’Ottocento e la sua successiva messa in pratica giungono «fuori tempo massimo»: una forma di colonialismo d’insediamento in un’epoca in cui si era già formata un’identità nazionale palestinese e in cui il sud colonizzato stava avviando un processo irreversibile, seppur non definitivo, di decolonizzazione.

L’idea di poter creare uno spazio geografico privo della sua popolazione indigena o con una presenza talmente labile da non rappresentare più un ostacolo si è rivelata un sogno impossibile. Un’operazione come quella avvenuta negli Stati uniti o in Australia che ha permesso l’annichilimento delle popolazioni indigene e la loro evaporazione, duecento anni dopo ha fallito sia in termini numerici che in termini di soggettività politica e sociale. La Palestina non solo non era una terra senza popolo, ma era una terra già consapevole di sé, organizzata politicamente, socialmente e culturalmente, ed era una terra inserita all’interno di un più ampio processo di decolonizzazione.

La resistenza palestinese assumerà nel tempo forme diverse e vedrà la partecipazione di fette diverse di popolazione, facendosi elitaria o popolare nelle varie epoche che attraversa. Si legherà alle trasformazioni regionali e globali, si assicurerà rapporti stabili con altre resistenze, li perderà in concomitanza con l’avanzata delle destre religiose e sovraniste di fine millennio nella regione e nel mondo, soffrirà l’arretramento delle forze della sinistra interna e internazionale.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha aperto questioni irrisolte, accendendo la luce sulla crisi interna della politica palestinese e dei suoi corpi intermedi, ma ribadendo – in questo caso con un attacco brutale – una realtà mai venuta meno in questi 125 anni di storia: la questione palestinese non è scomparsa.

I primi decenni del Novecento

Tra fine Ottocento e inizi del Novecento, i palestinesi avevano già sviluppato un movimento nazionale per liberarsi dal controllo ottomano. I precedenti decenni di riforme, le tanzimat, avviate dall’Impero e la centralizzazione portata avanti da Istanbul avevano permesso la crescita di un sentimento identitario palestinese. Terra fertile, agricola e pastorale, con un commercio fiorente, la Palestina aveva nelle sue città più importanti – Giaffa, Acri, Haifa, Gerusalemme, Gaza – il centro dell’attività intellettuale. I primi giornali che escono, ben presto con cadenza quotidiana, si occupano di politica, cultura e cronaca trasmettendo nella società idee altrimenti confinate negli ambienti intellettuali. Le città sono sedi di radio, giornali, partiti, sindacati, teatri, organizzazioni femministe, tutti quegli strumenti che definiscono l’identità collettiva. Una consapevolezza che fa sorgere i primi e forti appelli all’autonomia se non all’indipendenza da Istanbul, che emergono in concomitanza con l’arrivo dei primi coloni sionisti, a fine Ottocento.

All’inizio non c’è ostilità. Le prime forme di resistenza appaiono nei primi anni del Novecento quando diviene centrale la questione delle terre. I primi coloni comprano terreni per dare vita a insediamenti per soli ebrei cacciando i contadini palestinesi che le avevano coltivate per generazioni. Scoppiano proteste, i nazionalisti palestinesi si pongono a difesa degli agricoltori, ma gli scontri più significativi hanno come protagonisti i contadini stessi, come ricostruisce Rashid Khalidi in Identità palestinese: la prima vera reazione all’avanzata coloniale sionista sono le campagne, in risposta alla quale nasce già nel 1909 la prima formazione armata paramilitare sionista, embrione di quelle che seguiranno e che segneranno i decenni precedenti alla Nakba.

La resistenza dei contadini, scrive Khalidi, «colpì l’immaginario popolare ed ebbe un ruolo fondamentale nel mobilitare l’opinione pubblica in Palestina e nel mondo arabo. Questa opposizione creò un legame unitario tra i contadini – che cercavano disperatamente di aggrapparsi alla loro terra e, se la perdevano, mettevano in atto violente rappresaglie contro i coloni sionisti – e gli intellettuali e i notabili urbani, che si resero conto di ciò che il sionismo realmente significava solo quando videro con i loro occhi gli spossessamenti».

Sarà l’alleanza tra campagne e città, tra resistenza contadina e opposizione urbana, il seme da cui nascerà la rivolta del 1936.

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