Testimonianza pubblicata originariamente da B’tselem. Traduzione a cura della redazione di Bocche Scucite
Ogni sabato la redazione di Bocche Scucite riporta una testimonianza che fa parte del report “Benvenuti all’inferno” redatto dall’organizzazione israeliana B’tselem sulle condizioni dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane.
La storia di Ahmad Khalifah (42 anni), padre di tre figli di Um al-Fahem, Israele
Sono sposato e ho tre figli, uno di 10 e due gemelli di 7 anni. Viviamo nella città di Um al-Fahem. Sono un avvocato e un membro del Consiglio comunale di Um al-Fahem.
Giovedì 19 ottobre 2023, intorno alle 20, mi trovavo a una protesta contro l’attacco a Gaza e parlavo ai manifestanti con un megafono. All’improvviso, diverse unità di polizia hanno fatto irruzione nella protesta. Ho visto agenti che indossavano tre tipi diversi di uniformi. Hanno lanciato granate stordenti. Ho sentito uno di loro dire: “Khalifah, Khalifah”. Si è avvicinato a me. Ho teso le mani per dimostrare che non avevo paura di essere arrestato, ma sono rimasto sorpreso quando mi ha trattenuto e mi ha messo le manette di metallo. Mi hanno condotto a una jeep, dove c’erano altri 10 manifestanti detenuti. Durante il tragitto verso la jeep mi hanno colpito, strappato la camicia e preso a calci. Mi hanno buttato a terra e uno di loro mi ha dato diverse ginocchiate sul petto. È stato molto doloroso. Mi ha anche colpito duramente in faccia e anche altri agenti di polizia mi hanno picchiato.
Mi hanno fatto salire sulla jeep e ci hanno portato alla stazione di polizia di Iron. Quando siamo arrivati, mi hanno buttato a terra. C’erano circa 10 altri detenuti, tra cui quattro minorenni di circa 16 o 17 anni, ma mi hanno tenuto lontano da loro. Le percosse sono continuate alla stazione di polizia. Mi hanno colpito con le mani e a volte con mazze di legno e mi hanno preso a calci. Hanno sostituito le manette di metallo con fascette, che hanno stretto intorno ai miei polsi e mi hanno messo anche ai piedi. Mi hanno coperto gli occhi con la camicia che indossavo. Non potevo camminare con i piedi legati e dovevo saltellare. Gli agenti di polizia mi hanno scattato diverse foto, deridendomi e ridendo. Da quello che si dicevano, ho capito che stavano inviando le foto ai loro amici. Uno di loro chiese a un altro se avessi opposto resistenza all’arresto, e lui gli rispose che non l’avevo fatto – che avevo solo fatto dei movimenti e gridato in arabo: “Massacrate gli ebrei, massacrate gli ebrei”. Hanno mentito e distorto i fatti. C’erano circa 20 persone che mi hanno picchiato. Facevano i turni e passavano a picchiare anche altri detenuti. Mi hanno costretto a inginocchiarmi per più di tre ore e hanno continuato a minacciare di revocare la mia licenza di avvocato.
Da lì ci hanno portato tutti alla stazione di polizia di Hadera.
Lì non ci hanno picchiato. Hanno messo tutti gli adulti in una cella e i minori in un’altra, e ci hanno dato cibo e acqua. Ho chiesto di allentare le fascette perché mi facevano male alle mani, e allora un poliziotto è venuto da me con un coltello per tagliarle da cima a fondo. Ho detto che così mi sarei ferito e lui mi ha risposto: “Se Dio vuole, morirai”. Ha tagliato rapidamente le fascette con il coltello e mi ha ferito, ma per fortuna era solo una piccola ferita.
Avevo un dolore al petto, probabilmente dovuto al pestaggio precedente, e chiesi di essere portato in ospedale. Hanno aspettato fino al giorno successivo per portarmi. All’ospedale un medico mi ha prescritto una radiografia del torace. Mentre la aspettavo, è iniziata l’udienza per la nostra detenzione, quindi ho dovuto saltare la radiografia e partecipare a Zoom, altrimenti l’udienza sarebbe stata rinviata. Non volevo che fosse rinviata perché pensavo che mi avrebbero rilasciato, invece mi hanno accusato di incitamento alla violenza e al terrorismo e di identificazione con un’organizzazione terroristica. Poiché erano già le 16.30, l’udienza si è interrotta prima che venissero discussi i casi di tutti i detenuti ed è stata fissata per il giorno successivo.
Lo stesso giorno ci trasferirono alla prigione di Megiddo, dove ci spogliarono nudi. Non mi hanno picchiato, forse perché hanno visto che ero finito per le percosse precedenti. Sono stato seduto lì da mezzanotte alle 5 del mattino e li ho sentiti picchiare, maledire e umiliare gli altri detenuti, che urlavano e piangevano. È stato molto difficile. Sei seduto lì senza sapere se sarai il prossimo, senza poter fare nulla. A volte, sentire picchiare gli altri è più difficile che essere picchiati a propria volta.
Mi hanno messo nell’ala 10, dove sono rimasto fino al 4 gennaio 2024. Le condizioni a Megiddo erano catastrofiche. Non avevamo diritti, né materassi, cuscini, coperte o vestiti puliti. Ricevevamo a malapena cibo e acqua. Le celle erano buie tutto il giorno, ma la sera – tra le 19 e le 23 – proprio quando volevamo andare a dormire, accendevano la luce. Nelle celle faceva freddo. Arrivava il vento e a volte anche la pioggia. Riuscivamo a malapena a dormire. Di notte suonavano musica ad alto volume, l’inno israeliano e a volte canzoni druse. Per i primi quattro o cinque giorni eravamo senza scarpe e avevamo solo i vestiti che avevamo addosso. Abbiamo ricevuto alcuni vestiti da detenuti che erano stati rilasciati e li hanno lasciati per noi, ma dovevamo indossarli sopra i nostri vestiti, altrimenti venivano confiscati ogni volta che le guardie facevano irruzione nella stanza. Le guardie rubavano dalla mensa oggetti che avevamo già pagato e fumavano sigarette accanto a noi, dicendo che erano le nostre sigarette.
Dalla nostra cella, potevamo vedere le guardie che conducevano i detenuti feriti alla testa, alle braccia e alle gambe nelle celle di isolamento. Erano in uno stato pietoso e poi abbiamo sentito che venivano picchiati lì dentro.
Nella nostra cella hanno messo uno sceicco (uomo anziano) di Hebron che appartiene a uno dei partiti politici della Cisgiordania e ha un account TikTok con più di un milione di follower. Mi ha detto che gli avevano strappato la barba. Entrambe le sue gambe erano gonfie e una sembrava molto preoccupante. Le sue ferite trasudavano sangue e pus e i ragazzi della cella pulivano il pavimento per questo motivo più volte al giorno. Non è riuscito ad alzarsi dal letto per molto tempo.
Anche Mahmoud al-Khatib di Hebron era nella nostra ala. Era in pessime condizioni e ha tentato il suicidio più di una volta. C’era anche Yusef al-Qazaz, un membro del Consiglio legislativo palestinese, che mi disse di essere stato torturato.
Dopo cinque giorni, alcune delle persone detenute con me alla protesta sono state rilasciate, lasciando lì solo me e un’altra persona. È ancora in carcere.
Facevano l’appello tre volte al giorno, durante il quale dovevamo inginocchiarci vicino al muro, lontano dalla porta, con le mani sulla testa. Dovevamo guardare una volta le guardie per farci identificare, ma oltre a questo ci era vietato guardarle negli occhi.
L’acqua da bere proveniva dal lavandino del bagno. Era torbida e aveva un cattivo sapore, ma dovevamo berla.
Il cibo era terribile e non era sufficiente. Risparmiavamo quello che ci veniva dato durante il giorno e lo mangiavamo prima di andare a letto, per non andare a dormire affamati. Tuttavia, non eravamo mai sazi perché era sufficiente per sopravvivere e molto era immangiabile. Non era cucinato correttamente e non aveva sale, zucchero o spezie. Quando ce lo davano, lo spingevano con i piedi, sporcandolo. Le verdure che abbiamo ricevuto, come cetrioli e peperoni, erano ammuffite. Le uova erano blu e il riso e il bulgur non si potevano mangiare.
Il 28 dicembre 2023 ho assistito di persona per la prima volta a un’udienza in tribunale. Era ad Haifa. Ho parlato delle circostanze del mio arresto e ho chiesto al giudice di usare la sua autorità per indagare.
Tre giorni dopo l’udienza, alle 7 del mattino, le guardie sono venute a prendermi. Quando ho chiesto dove stavo andando, mi hanno risposto che stavo andando da un medico. Era la prima volta che venivo visitato dopo la visita di ammissione in carcere, ma erano passati 50 giorni e non sentivo più il dolore delle percosse, quindi non era rilevante.
Quel giorno, durante la pausa, una delle guardie mi ha minacciato dicendomi che se avessi fatto il nome di una guardia del suo turno al giudice o a chiunque altro, mi avrebbe punito. Mi ha detto che nel carcere non c’erano leggi, tranne la sua. Mi ha minacciato di fronte agli altri prigionieri, dicendo che quando sarei stato rilasciato, avrebbe mandato un’unità speciale per uccidermi a Um al-Fahem. Gli ho detto che non sarebbe stato un problema: Um al-Fahem è vicina alla prigione e lui era libero di mandarli.
Più tardi, quel giorno, sono stato trasferito nell’ala 1 come punizione per aver parlato delle torture e degli abusi sui detenuti in tribunale. In particolare, sono stato punito per aver parlato di quanto accaduto a ‘Abd a-Rahman Mar’i, un detenuto dell’area di Salfit che era tenuto in isolamento vicino a quello in cui mi trovavo io in quel momento, insieme all’avvocato Sari Khuriyeh e a un’altra persona che conosco. L’ho sentito gemere dal dolore e chiedere assistenza medica. Dopo tre giorni, lo trasferirono in un’altra cella di isolamento (in un’ala nota come Tora Bora), e ho scoperto che è morto lì. Anche Sari è stato trasferito per punizione in isolamento vicino alla cella di ‘Abd al-Rahman, dopo aver mostrato il dito medio al giudice durante un’udienza in tribunale a San Giovanni d’Acri.
A un certo punto ci hanno portato delle forbici per tagliarci i capelli, ma non tutti sono stati tagliati perché la macchina si è rotta.
Ogni volta che ci portavano in tribunale, picchiavano gli altri detenuti sull’autobus durante il tragitto. Non picchiavano me, forse perché sono un avvocato, ma gli altri detenuti venivano costantemente picchiati davanti a me. È stato un vero viaggio di sofferenza. Inoltre, alcuni dei detenuti non avevano scarpe e venivano portati in tribunale a piedi nudi.
Verso la fine di dicembre o l’inizio di gennaio, ho visto le guardie trascinare un ragazzo su una coperta e portarlo fuori dall’ala della prigione. Più tardi ho saputo che si trattava di un giovane di Nablus, della famiglia al-Bahash, che è stato torturato ed è morto dopo non aver ricevuto cure per due settimane.
I detenuti di Megiddo hanno iniziato a parlare di sciopero e le guardie mi hanno accusato di averli incitati. Di conseguenza mi hanno trasferito nel carcere di Gilboa.
A Gilboa, 30 di noi sono stati portati insieme nel cortile per fare la doccia, e ci è stata concessa un’ora o poco più. Il tempo non era sufficiente per tutti, quindi dovevamo fare la doccia a turno. Ognuno faceva la doccia una volta ogni due o tre giorni. Ci davano una quantità molto piccola di shampoo, e solo raramente, quindi lo diluivamo per farlo durare per tutti. Non ci davano nemmeno gli asciugamani, quindi dovevamo vestirci ancora bagnati. Il più delle volte non c’era nemmeno la carta igienica, perché ricevevamo solo due rotoli a settimana per una cella di 10-12 detenuti. Le guardie venivano nelle nostre celle e ci filmavano, raccontando il video e vantandosi delle dure condizioni della prigione. Il cibo era un po’ migliore a Gilboa – almeno veniva cucinato – ma le porzioni erano comunque molto piccole. La luce nelle celle era accesa 24 ore al giorno e se qualcuno osava spegnerla, le guardie entravano e picchiavano tutti.
A volte le guardie entravano in cella senza motivo, sceglievano un detenuto e iniziavano a picchiarlo. Oppure entravano per effettuare una perquisizione, ci costringevano a sdraiarci a faccia in giù, ci ammanettavano e lasciavano solo una persona libera, per poi farla strisciare e baciare le loro scarpe. Se si rifiutava, veniva ovviamente picchiato.
Una volta ci hanno detto di firmare una confessione in cui affermavamo di aver versato un bicchiere d’acqua in cortile e che, di conseguenza, non avremmo fatto la doccia per sette giorni. Ci siamo rifiutati e ci hanno punito: diverse volte, circa 20 guardie sono entrate nella cella gridando, hanno effettuato perquisizioni corporali, ci hanno legato le mani dietro la schiena e i piedi, per poi gettarci con forza in cortile e perquisire la stanza. Non c’era nulla da cercare nella cella perché era completamente vuota. Al massimo trovavano un contenitore di cibo vuoto che avevamo conservato. A volte arrivavano durante l’ora dei pasti e scaricavano il cibo su di noi e sui materassi. Non avevamo modo di pulire. Non ci hanno permesso di fare la doccia per una settimana, e poi hanno esteso la punizione a 13 giorni.
Il 9 febbraio 2024 sono stata rilasciata agli arresti domiciliari, che sono ancora in corso perché le udienze del mio caso non sono finite. Quando sono stato rilasciato, pesavo 10-15 kg in meno rispetto a quando sono entrato, ed ero molto debole a causa della mancanza di alimentazione e di sonno.
Ora devo indossare un braccialetto elettronico e mi è vietato tornare a casa a Um al-Fahem perché incito la gente della zona. Ho dovuto affittare una casa ad Haifa per 3.500 shekel (~970 USD) al mese. Mia moglie è il mio garante, quindi deve vivere qui con me. I miei figli, che frequentano ancora la scuola elementare, devono stare dagli zii durante la settimana per essere vicini alla scuola. Dato che gli arresti domiciliari si sono prolungati, abbiamo trovato altri garanti per permettere a mia moglie di spostarsi da un paese all’altro.
[…] dalla “devastazione che si è dispiegata davanti agli occhi del mondo”. ( https://bocchescucite.org/difendere-la-dignita-e-la-presenza-del-popolo-di-gaza/ ) Mai così espliciti e rinunciando…
Grazie per il vostro coraggio Perché ci aiutate a capire. Fate sentire la voce di chi non ha voce e…
Vorrei sapere dove sarà l'incontro a Bologna ore 17, grazie
Parteciperò alla conferenza stampa presso la Fondazione Basso il 19 Mercoledì 19 febbraio. G. Grenga
Riprendo la preghiera di Michel Sabbah: "Signore...riconduci tutti all'umanità, alla giustizia e all'amore."