Articolo pubblicato originariamente su Virtù Quotidiane
Nel conflitto che strazia ogni giorno la Striscia di Gaza, una delle emergenze più gravi è quella legata al cibo. In una terra stretta tra bombe, blocchi e blackout, l’accesso a questa fonte è diventato una sfida quotidiana e un simbolo della lotta per la sopravvivenza.
La crisi alimentare che si sta consumando a Gaza non è solo la conseguenza collaterale di una guerra, è parte integrante del conflitto stesso, usata come leva di pressione e controllo. Con l’intensificarsi delle operazioni militari e il blocco quasi totale degli aiuti, le derrate alimentari scarseggiano, le cucine si svuotano e diventa un’impresa eroica il solo potersi avvicinare ai punti di rifornimento preposti.
Le famiglie riducono i pasti, digiunano per necessità, inventano ricette di fortuna con quel poco che riescono a trovare. Nel dramma quotidiano, però, emergono anche forme di resistenza e solidarietà. Le cucine comunitarie, i forni collettivi e le reti di mutuo aiuto raccontano una popolazione che, pur stremata, si rifiuta di arrendersi. Il cibo diventa identità, dignità e memoria.
Parlare di cibo, oggi a Gaza, significa parlare di sopravvivenza, ma anche di umanità. La cultura gastronomica palestinese è essa stessa una forma di resistenza culturale. In un contesto segnato da occupazione, diaspora e conflitto, preservare e raccontare questa cucina significa difenderne l’identità.
È proprio in questa direzione che si muove il lavoro di Fidaa Abuhamdiya, chef, autrice e attivista culturale palestinese di origine e padovana di acquisizione. Fidaa ha trasformato la sua passione per la cucina in una missione di valorizzazione e divulgazione del patrimonio gastronomico palestinese, sia dentro che fuori i confini della Palestina.
Fidaa, dopo importanti esperienze sul campo, come quella in casa Alajmo a Le Calandre, si occupa oggi di raccogliere ricette e storie di famiglia, trasmettendole attraverso libri, video, workshop e social media, raggiungendo un pubblico sempre più ampio e internazionale.
Cucinare e insegnare a farlo diventa un modo per affermare l’esistenza di un popolo troppo spesso raccontato solo attraverso il filtro del conflitto. Fidaa restituisce voce soprattutto alle donne palestinesi che da sempre custodiscono e tramandano queste tradizioni.
Suo e di Silvia Chiarantini il libro Pop Palestine, non un semplice ricettario, ma un viaggio vero e proprio nella cultura gastronomica palestinese che tocca le principali realtà geografiche attraverso mercati, feste, celebrazioni, ristoranti e cibo di strada.
Recentemente è stata portavoce del movimento social “Stop food content for Gaza”, giornata in cui gli addetti a questo settore hanno messo in pausa i contenuti legati al cibo sui social media. Una ribellione globale a una situazione sempre più insostenibile dal punto di vista umano.
Per conoscere meglio il punto di vista sullo stato degli eventi, Virtù Quotidiane ha rivolto alcune domande a Fidaa Abuhamdiya.
In un contesto dove la fame viene usata come arma, come può il cibo diventare simbolo di identità e resistenza?
Il cibo è sempre un simbolo di identità e resistenza in Palestina, perché non è solo ora che il cibo viene usato come arma, cambia la sua ferocia, ma è sempre stato usato come tale a Gaza e in Cisgiordania. Le persone che non stanno vivendo in modo diretto gli eventi hanno il compito di conservare le tradizioni, le ricette e le storie legate al cibo per confermarne l’esistenza, di conseguenza l’esistenza del popolo stesso. Il cibo è stato usato anche dal 2007 come arma, l’occupazione calcolava le calorie per la popolazione di Gaza, impediva l’entrata di alcuni prodotti come la cioccolata considerata un prodotto di lusso. Anche continuare a raccogliere il timo selvatico e la salvia è un atto di resistenza e una conferma alla solidità del rapporto tra i palestinesi (gli indigeni) con la loro terra. Ora purtroppo a Gaza, con i pochi ingredienti che giungono, si riescono a cucinare piatti inventati, a volte composti da un ingrediente solo. Rigirando attorno alle ricette tradizionali si fanno piatti “bugiardi”. Solitamente da noi un piatto si chiama bugiardo quando si cucina senza carne una preparazione che solitamente la contiene. Cucinare, coltivare, raccogliere nelle condizioni che si vivono è resistenza. Alzarsi al mattino con il pensiero di cosa si mangia oggi? Come si accende il fuoco? Cosa si inventa oggi per mangiare? Sono domande che non hanno una risposta immediata e banale come lo pensiamo noi. Tante volte ci si mette una giornata per pensare a un piatto, per quanto possa essere povero.
C’è un piatto, un ingrediente o una preparazione tipica che per lei racchiude la forza e la resilienza della comunità palestinese?
Ingredienti immancabili nella cucina palestinese come il timo – alla base dello zaatar – portano la popolazione, soprattutto le donne, a rischiare il carcere pur di andare a raccoglierlo, o addirittura la vita perché i coloni ammazzano a vista. Lo zaatar è per noi un elemento molto importante. I primi due raccolti di timo sono dolci, quindi si usano per il pane, mentre il terzo si essicca, si macina, si mescola al sommacco e si aggiunge il sesamo. I palestinesi sono convinti che lo zaatar li faccia diventare intelligenti quindi, in Palestina si mangia al mattino assieme all’olio d’oliva. Quest’ultimo è un altro ingrediente resistente e resiliente visto che gli alberi vengono tagliati e bruciati dai coloni e molti palestinesi non possono arrivare ai loro campi per raccogliere le olive e produrlo.
Come ha vissuto l’urgenza di raccontare la Palestina attraverso il cibo, soprattutto dopo l’aggravarsi della situazione in Gaza?
Per me il cibo è uno strumento di comunicazione, e io credo di saperlo usare abbastanza bene. Il cibo è al centro della nostra quotidianità, cosa che manca nei racconti sulla Palestina. La gente è abituata a vedere un luogo di conflitti, distrutto. Oltre a questo, c’è un popolo che ha una vita, una cultura e una storia che meritano di essere raccontate come si raccontano quelle di altri popoli, come l’Italia per esempio. Alla fine, gli esseri umani sono uguali. Dopo il genocidio a Gaza, raccontare le ricette era un modo per conservare la cultura, successivamente ho scelto di fare silenzio per protesta perché questo cibo è diventato un’arma fatale.
Cucinare questi piatti è per lei un gesto politico oltre che culturale?
Cucinare, raccontare, offrire i miei piatti per me è sempre stato un gesto politico.
Pensa che raccontare Gaza attraverso il cibo possa avvicinare le persone alla comprensione della realtà che si sta vivendo in questo momento?
Il cibo avvicina sempre. Quello che è stato fatto sempre anche da giornalisti, non solo da politici, è disumanizzare la popolazione di Gaza, per giustificare il genocidio. Prima di tutto li vedono alla pari, con il lavaggio dei cervelli che attuano li mettono sullo stesso piano. Mangiare i piatti degli altri è, invece, un modo per condividere con quel popolo storie personali. Può far ridere, ma vorrei dire che chi assaggia il cibo scopre che gli individui sono uguali come lo sono sempre stati.
Quale ruolo può avere un progetto come Pop Palestine nel creare empatia e consapevolezza durante la crisi attuale?
Pop Palestine, non è solo un libro di ricette. Attualmente, oltre a narrare la Palestina, trattandosi di un libro pubblicato per la prima volta nel 2016, racconta l’occupazione e le difficoltà che i palestinesi vivevano già prima dell’ottobre del 2023. C’è un capitolo dedicato a Gaza, quando le case avevano i muri e un tetto, dove le famiglie potevano riunirsi e condividere un piatto. C’erano i piatti che si preparano per occasioni speciali legati ai matrimoni, ma anche ai funerali nonostante l’assedio. Perché sappiamo che Gaza era un carcere a cielo aperto e adesso è diventata un campo di sterminio. Pop Palestine racconta la Palestina attraverso i colori, la cura del cibo, l’ospitalità e l’amore per la vita che hanno i palestinesi. In una terra segnata dalla distruzione e dalla privazione, parlare di cibo può sembrare un lusso. Eppure, è anche grazie a esso che molte famiglie a Gaza continuano a riaffermare la propria umanità. Le crisi umanitarie spesso riducono le persone a numeri, il cibo restituisce loro un volto, una voce, una storia.
L’intervista a Fidaa Abuhamdiya ci ricorda che la cucina palestinese non è solo un’eredità del passato, ma un filo che tiene unita una comunità anche ora con tutte le ferite che porta con sé. Nel suo operato c’è un messaggio potente: la cultura può sopravvivere alla guerra, la memoria può attraversare le frontiere, e anche nei momenti più bui, il gesto di nutrire resta un atto profondamente politico e umano.

[…] dalla “devastazione che si è dispiegata davanti agli occhi del mondo”. ( https://bocchescucite.org/difendere-la-dignita-e-la-presenza-del-popolo-di-gaza/ ) Mai così espliciti e rinunciando…
Grazie per il vostro coraggio Perché ci aiutate a capire. Fate sentire la voce di chi non ha voce e…
Vorrei sapere dove sarà l'incontro a Bologna ore 17, grazie
Parteciperò alla conferenza stampa presso la Fondazione Basso il 19 Mercoledì 19 febbraio. G. Grenga
Riprendo la preghiera di Michel Sabbah: "Signore...riconduci tutti all'umanità, alla giustizia e all'amore."