La radicalizzazione delle élite israeliane

Articolo pubblicato originariamente su 972mag e tradotto dall’inglese dalla redazione di Bocche Scucite

Di Nimrod Flaschenberg*

Nella lotta contro i piani di controllo totale del governo di estrema destra, le élite israeliane potrebbero portare il regime a un punto di rottura.

Israeliani protestano contro il governo di estrema destra di Israele, Tel Aviv, 7 gennaio 2023. (Tomer Neuberg/Flash90)

Settori influenti dell’opinione pubblica israeliana sono in preda al panico – e per una buona ragione. La narrazione dominante tra quasi tutti gli israeliani che non sostengono il primo ministro Benjamin Netanyahu è che sia in corso un colpo di Stato. I piani del Ministro della Giustizia Yariv Levin per la revisione del sistema giudiziario, che daranno un potere incontrollato al governo a scapito della Corte Suprema, rappresentano effettivamente un drastico cambiamento nel regime israeliano. Chi vede Israele come una democrazia liberale (spesso omettendo milioni di palestinesi) dice che il Paese sta per diventare una dittatura. La sensazione generale è che Israele, così come lo conosciamo, sia sull’orlo del collasso.

Alcuni chiamano questo momento la fine della democrazia. Altri, più precisamente, lo descrivono come un deterioramento verso il fascismo. La maggior parte delle centinaia di migliaia di manifestanti scesi in piazza si concentra sulle riforme di Levin, mentre gli israeliani di sinistra e i palestinesi non possono fare a meno di sottolineare l’intensificarsi della violenza dell’occupazione sotto la guida del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e l’escalation di oppressione nei confronti dei cittadini palestinesi. A prescindere dal preciso orientamento politico, c’è un senso generale di emergenza.

Migliaia di israeliani, che partecipano a uno sciopero generale, manifestano davanti alla Knesset contro la riforma giudiziaria proposta dal governo, Gerusalemme, 13 febbraio 2023. (Oren Ziv)

Questo panico collettivo è diffuso, ma è particolarmente potente tra le classi più elevate – sia tra i sostenitori del partito Yesh Atid di Yair Lapid, sia tra i milionari e i miliardari che siedono in cima ai settori finanziari e tecnologici di Israele. Nelle ultime settimane, da quando Netanyahu e Levin hanno annunciato i loro piani di revisione del sistema giudiziario, una parte consistente del capitale israeliano e straniero è entrata in modalità difensiva: i venture capitalist stanno pensando di ritirare i fondi dalle imprese israeliane, i ricchi israeliani stanno gradualmente spostando il loro denaro all’estero e i giovani professionisti privilegiati che non possiedono un passaporto dell’Unione Europea si stanno affannando per ottenerne uno.

È in gioco una possibile dinamica di “corsa alle banche”: i manifestanti sono convinti che la fine della democrazia sia vicina, quindi si aspettano il peggio. La conclusione pragmatica è quella di coprire le perdite. Queste piccole azioni, come lo spostamento di alcuni fondi all’estero, segnalano che il panico è reale. I media colgono il malcontento dell’élite e riportano gli sviluppi utilizzando una messaggistica allarmistica, che serve solo ad alimentare il panico del pubblico. Questa dinamica è ancora relativamente localizzata, ma ci sono segnali che indicano che continuerà a crescere se il governo porterà avanti il suo programma legislativo.

L’economia israeliana, per ora, rimane solida e ci vorrebbe qualcosa di simile a un massiccio disinvestimento per destabilizzarla. Ma tra le élite israeliane c’è un nuovo senso di estraneità e malcontento nei confronti dello Stato e del futuro antiliberale che associano alla coalizione di estrema destra. Per la prima volta in molti anni, una recessione economica sembra realistica, ed è questa precarietà economica che mette Netanyahu in difficoltà.

Il punto di forza del lungo governo di Netanyahu non è mai stato il suo appeal populista, ma piuttosto la sua competenza nei risultati, in particolare per quanto riguarda l’economia. È stato un bene per i grandi imprenditori israeliani, che lo hanno sostenuto in silenzio finché ha fatto progredire la tecnologia israeliana e ha mantenuto alto il rating del Paese. Anche se probabilmente non erano entusiasti della sua corruzione o dei suoi attacchi ai media, si sono astenuti dall’affrontarlo finché ha aperto nuovi mercati nel Golfo e ha mantenuto basse le tasse sulle imprese.

Ora, però, i partner messianici della coalizione di Netanyahu lo stanno raggiungendo e lui non ha più il pieno controllo della situazione. Le élite imprenditoriali se ne accorgono e sono preoccupate. Il primo ministro non può essere visto come un moderato responsabile quando i suoi principali ministri sono razzisti dichiarati come Ben Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. Ma non ha nemmeno un’alternativa politica: la divisione tra fazioni pro e contro Netanyahu alla Knesset è così ampia che Netanyahu ha una sola coalizione possibile, e i suoi partner si aspettano un’azione. Chiedono una completa revisione legale per poter realizzare i loro grandi piani per questo Paese: rafforzare l’apartheid, portare avanti l’annessione ed espellere i rappresentanti palestinesi dalla Knesset. E non si muovono.

Le élite israeliane – milionari start-up, sedicenti liberali dei sobborghi di Tel Aviv, intellettuali urbani di sinistra ed ex ufficiali militari – si stanno rapidamente allontanando dallo Stato. Le persone che hanno agito da dominatori privilegiati si trovano ora lontane dai centri di potere e questo li fa infuriare. Il fatto che il centro israeliano, salito alla ribalta negli ultimi due decenni evitando la questione palestinese e concentrandosi sulla prosperità economica, consideri ora lo Stato una minaccia significa che è possibile un’ulteriore radicalizzazione.

È strano parlare di radicalizzazione delle élite, ma è proprio quello che sta accadendo. Gli antagonismi all’interno delle classi dirigenti israeliane si stanno acuendo. Tra le prove più evidenti di questa radicalizzazione ci sono i segnali di erosione del nazionalismo militarista all’interno del campo anti-Netanyahu.

Gli elettori centristi ora parlano apertamente di non mandare i propri figli nell’esercito se la riforma passa. I riservisti marciano contro il governo, sventolando gli emblemi delle loro unità militari. Questo tipo di resistenza, in cui il servizio militare viene apertamente politicizzato, non ha precedenti nelle comunità sioniste tradizionali. E nel frattempo si parla prevalentemente di disinvestimento dall’economia israeliana per motivi politici – un’azione che, quando viene proposta dai palestinesi e dal movimento BDS, viene considerata una chiara prova di antisemitismo.

È vero che la maggior parte di questi manifestanti non lotta contro l’occupazione o le politiche razziste di Israele, ma solo contro la riduzione della democrazia per gli ebrei israeliani. Eppure sembra che oggi, più che mai, siano disposti a voltare le spalle a ciò che un tempo ritenevano sacro. Se Netanyahu continua a portare avanti la riforma e l’antagonismo e l’allontanamento delle élite si intensificano, questo potrebbe significare problemi significativi per il governo israeliano – dal punto di vista politico, economico e diplomatico. L’allontanamento delle élite israeliane, se incanalato correttamente, potrebbe portare la società israeliana e il regime a un punto di rottura.

Il nuovo governo di Netanyahu è estremamente pericoloso e distruttivo sia per i palestinesi che per gli israeliani, e tutto ciò che può rappresentare una minaccia per esso deve essere incoraggiato. Come primo passo, coloro che si oppongono all’occupazione e sostengono la lotta per la liberazione della Palestina, sia in Israele che all’estero, devono considerare queste crepe come un’opportunità per costruire un fronte più ampio contro l’apartheid israeliana.

*Nimrod Flaschenberg è un ex consigliere parlamentare del partito Hadash. Ora studia storia a Berlino.

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