Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto
I soldati hanno fatto piovere decine di colpi su un’auto su cui viaggiavano due studenti nel loro villaggio in Cisgiordania. Uno è stato ucciso, l’altro è stato ferito e poi picchiato dai soldati. È la copia esatta di un altra esecuzione avvenuta il mese scorso, anche quella denunciata falsamente dall’esercito come tentativo di speronamento con un’auto.
Di Gideon Levy e Alex Levac

Un giovane studente universitario è fermo sulla strada, in lacrime. Tutto il suo corpo trema, la sua voce è soffocata; un parente cerca di abbracciarlo e calmarlo. Chiaramente è in stato di shock. Come potrebbe essere altrimenti? È stato in questo luogo, su una stradina che porta fuori dal centro del suo villaggio in Cisgiordania, Sebastia, che ha perso il suo più caro amico, ucciso davanti ai suoi occhi. A terra, infatti, sono ancora visibili le macchie di sangue del defunto.
Qui anche questo ragazzo di 19 anni è stato ferito e poi anche picchiato a lungo dai soldati. In questo luogo il suo amico ha perso il controllo dell’auto in cui si trovava, dopo essere stato colpito alla testa e al petto; il veicolo si è schiantato contro la recinzione lungo il ciglio della strada. Due fotografie del defunto che indossa una cravatta rossa fanno parte del memoriale improvvisato presso il sito, insieme ad alcuni fiori che sono già appassiti e una bandiera della Palestina.
È stato qui che Mohammed Mukheimar ci ha incontrato questa settimana e raccontato come i soldati delle Forze di Difesa Israeliane lo abbiano ferito e poi brutalizzato dopo aver ucciso il suo migliore amico, senza una ragione apparente. I soldati hanno affermato che l’auto aveva tentato di investirli. Il fatto che Mukheimar sia stato rilasciato dalla custodia dopo nove giorni da un tribunale militare prova solo la falsità delle accuse: non c’è stato alcun attacco terroristico e nessun tentativo di investimento con un’auto. Solo l’ebbrezza del potere e la spavalderia entusiasta di giovani soldati annoiati, assetati di azione, che sparano un colpo dopo l’altro. Sulla scena dell’esecuzione si vede un manifesto sbiadito di Yasser Arafat che saluta con la mano.
SOLDATI ISRAELIANI HANNO SPARATO E FERITO PRESUNTI “AGGRESSORI” PALESTINESI, MA NON LI HANNO ARRESTATI
Alcune settimane fa, questa rubrica ha riportato una storia sorprendentemente simile (“Soldati Israeliani Hanno Sparato e Ferito Presunti Aggressori Palestinesi, Ma Non li Hanno Arrestati”, 29 luglio*). Due giovani cugini della città di Yabad stavano guidando verso l’appezzamento della loro famiglia nel villaggio di Tura a-Sharkiya, quando i soldati delle Forze di Difesa Israeliane hanno sparato contro la loro auto, ferendoli gravemente entrambi. L’IDF ha affermato che avevano tentato di investire i soldati, ma i presunti autori “dell’attacco terroristico” che non è mai avvenuto non sono stati nemmeno arrestati. Ora, poche settimane dopo, un altro incubo.
[* SOLDATI ISRAELIANI HANNO SPARATO E FERITO PRESUNTI “AGGRESSORI” PALESTINESI, MA NON LI HANNO ARRESTATI: https://www.facebook.com/100023485904130/posts/1442814196511430/]
Mohammed Mukheimar e Fawzi Makhalfa erano amici d’infanzia che vivevano uno accanto all’altro a Sebastia e facevano tutto insieme. Venerdì 21 luglio non è stato diverso. Quella sera, il padre di Fawzi gli ha chiesto di andare alla sua fabbrica di sacchetti di plastica nel vicino villaggio di Deir Sharaf e di accendere i forni prima del lavoro del giorno successivo. Era la consuetudine del venerdì sera, dopo un giorno di riposo.
Fawzi chiamò Mohammed e gli suggerì di andare insieme, come sempre. Salirono nella Seat Ateka del padre di Fawzi. Mohammed è uno studente di ragioneria del primo anno. Anche Fawzi era uno studente, studiava gestione aziendale. Entrambi hanno frequentato la sede di Nablus dell’Università Al-Quds.
Mentre la Seat procedeva lungo la strada stretta, i soldati apparirono improvvisamente dall’oscurità. Erano le 23:50 Mohammed stima che circa 15 soldati avanzassero verso di loro sulla strada, che in quel punto curva leggermente. I due studenti sono ritrovati sotto una tempesta di fuoco, decine di colpi, senza alcun preavviso, ricorda. La testa di Fawzi era china, ma Mohammed dice che non pensava che il suo amico fosse morto. Lui stesso è stato colpito da un proiettile al braccio destro e da schegge in varie parti del corpo. Da una fotografia dell’auto, crivellata di fori di proiettile, è difficile credere che Mohammed sia sopravvissuto.
I soldati gli intimarono di scendere dall’auto, racconta ora, fermo sulla strada e rivivendo gli eventi. Gli hanno puntato contro i fucili. “Non sparate!” gli gridò. Dopo essere uscito dal veicolo, i soldati lo hanno spintonato e gettato a terra. Uno di loro gli ha messo un piede sulla gola. Dopo circa tre minuti, racconta, lo hanno trascinato e sbattuto contro un muro di cemento alla fine della strada. Un soldato gli ha chiesto, in arabo: “Cosa stavate facendo?” Mohammed ha risposto che erano in viaggio per Deir Sharaf e sono stati colti di sorpresa dall’improvviso e inatteso fuoco dei soldati.
Mohammed dice che gli sembra di aver visto il soldato, che si era inginocchiato vicino a lui, alzarsi e lanciare uno sguardo perplesso ai suoi compagni, come per dire: Perché avete sparato? Nel frattempo, un’ambulanza palestinese è arrivata sul posto ed ha evacuato Fawzi. Mohammed voleva avvicinarsi al suo amico, non sapeva ancora che Fawzi fosse morto, ma i soldati glielo impedirono, minacciando di sparargli ancora.
Legarono a Mohammed le mani dietro la schiena con delle fascette di plastica. Il medico palestinese poi gli disse che Fawzi era morto. Ora, mentre ci parla, scoppia in lacrime e ricorda l’ultima immagine che ha dell’amico: la testa china sulle ginocchia. Nel frattempo i soldati gli ordinarono di salire sul loro blindato. Un soldato colpì Mohammed con il calcio del fucile. Mentre giaceva sulla strada, un soldato gli ha dato un calcio nella schiena. Mohammed è riuscito a rialzarsi ma i colpi con il calcio del fucile non si sono fermati mentre veniva portato in direzione di Shavei Shomron, un insediamento a poco più di un chilometro di distanza, dove si trova una base militare. Il braccio gli sanguinava. Accanto alla barriera all’ingresso dell’insediamento, gli fu detto di sedersi su una roccia mentre era bendato con uno straccio.
I soldati ripresero a picchiarlo e prenderlo a calci, ciascuno a turno. Un soldato lo costrinse ad alzarsi in piedi, ricorda, solo per stenderlo con un colpo. Alla fine è stato costretto a salire su un mezzo militare e sdraiarsi sul pavimento, mentre continuavano a colpirlo. Lo hanno calpestato, dice, un soldato gli premeva con il piede sulla gola, un altro sulla ferita al braccio.
Fu portato alla base dell’insediamento, dove un medico dell’esercito lo visitò e gli medicò la ferita. Un altro medico gli fece un’iniezione, violentemente, dice. Circa un’ora dopo è arrivata un’ambulanza israeliana che lo portò in un ospedale, anche se non ha idea quale (probabilmente l’Ospedale Meir, a Kfar Sava). In ambulanza ha avuto un mancamento.
Dopo aver trascorso una notte in ospedale in osservazione, è stato rilasciato e portato alla stazione di polizia dell’insediamento urbano di Ariel per essere interrogato. Un ufficiale ha chiamato suo padre per informarlo delle condizioni del figlio e ha anche permesso a Mohammed di informare il padre che sarebbe stato portato al tribunale di Salem per fissare un’udienza che si sarebbe tenuta dopo due giorni. A questo punto abbiamo interrotto il racconto nel caldo torrido di agosto e siamo andati a casa di Fawzi.
I genitori in lutto: Fatika, 42 anni, che piange senza sosta, e suo marito Hani, 48 anni, il produttore di sacchetti. Hani racconta di aver sentito degli spari quella notte e di aver chiamato con ansia entrambi i cellulari di suo figlio, ma non ha ricevuto risposta. Salì sul tetto della loro casa e vide un’auto e soldati raggruppati intorno. Non sapeva ancora che suo figlio fosse coinvolto. Ha chiamato i vicini che vivono sopra la scena dell’incidente per chiedere informazioni sull’auto. È una Seat Atika, gli dissero. Hani si è precipitato all’Ospedale Rafidia di Nablus, solo per apprendere che suo figlio era morto.
Anche la nonna, Nisam, 75 anni, vestita di nero, è in lacrime. Mohammed, con i piedi che battono nervosamente e incessantemente sul pavimento, continua a raccontare gli eventi di quel venerdì, scoppiando a tratti lui stesso in lacrime. È un giovane bello e raffinato, con l’apparecchio ai denti.
L’ufficiale di polizia ha chiesto a Mohammed di raccontare l’accaduto accusando il giovane di aver tentato di investire i soldati. Mohammed dice che pensava di impazzire quando l’ha sentito. “Come le viene in mente? Non abbiamo fatto nulla ai soldati”, dichiara. Dopo l’interrogatorio, è stato portato nel carcere di Ofer, vicino a Ramallah. La mattina dopo è stato trasferito al centro medico del servizio carcerario a Ramle, e il giorno seguente alla prigione di Megiddo.
Il martedì successivo è comparso davanti al tribunale militare di Salem, solo per vedersi rinviare l’udienza alla domenica successiva. In prigione è stato nuovamente interrogato, questa volta da un agente dei servizi di sicurezza dello Shin Bet che si è identificato con il soprannome di “Tayaar” (Aereo), e che minacciò Mohammed se avesse mentito che lo avrebbe “fatto volare di fuori”. L’agente lo accusò anche di aver pianificato, con Fawzi, di investire i soldati. Gli mostrò un video in cui Fawzi si filmava mentre cantava, non è chiaro perché. Di nuovo, mentre racconta questi eventi, Mohammed scoppia in lacrime. “Sei un grande bugiardo”, gli disse Tayaar a conclusione dell’interrogatorio, in cui si ostinava di associare i due studenti a qualche organizzazione.
L’Unità del Portavoce dell’IDF questa settimana ha rilasciato la seguente dichiarazione ad Haaretz: “Durante l’attività operativa di un’unità IDF nel villaggio di Sebastia il 21 luglio, è stato compiuto un tentativo di investire le truppe con un’auto. I soldati hanno risposto sparando ai due sospetti nel veicolo. Nel corso della sparatoria, l’autista è stato ucciso e un altro sospetto che viaggiava con lui è stato ferito. Il ferito è stato evacuato per ricevere assistenza medica. Le circostanze dell’accaduto sono in fase di chiarimento. Non siamo a conoscenza di denunce di violenze da parte dei soldati contro il sospettato: se tali denunce verranno presentate, saranno esaminate com’è comune prassi”.
Come nell’incidente di Tura al-Sharkiya, anche qui non è possibile accettare la versione dell’esercito: Se ci fosse stato anche uno straccio di prova, Mohammed non sarebbe stato rilasciato. Salma a-Deb’i, una ricercatrice sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem che ha indagato sul caso, ha giustamente osservato che se anche Mohammed fosse stato ucciso, non ci sarebbe stato modo di dimostrare che non si è verificato un attacco terroristico, che si trattava solo di un’altra esecuzione di quella che apparentemente era una persona innocente.
Domenica 6 agosto Mohammed è stato portato nuovamente al tribunale di Salem, dove il suo avvocato, Salah Ayoub, lo ha informato che era stato deciso il suo rilascio. Cosa hai provato in quel momento, chiediamo. “Tutto quello che volevo era vedere Fawzi.” Ma Fawzi era già stato sepolto.
Mohammed è andato direttamente a casa del suo amico e insieme ai genitori di Fawzi ha visitato la tomba. Secondo Abdulkarim Sadi, un altro ricercatore sul campo di B’Tselem, che ha visto il video della visita alla tomba, Mohammed era molto scosso e in una condizione molto instabile, i cui segni erano ancora visibili questa settimana.
“Perché un’amicizia come questa non permetterà mai ai nostri cuori di dimenticare, l’amore santificato nel sangue tornerà a sbocciare tra di noi”, ha scritto il poeta ebreo Haim Gouri in “Canto dell’Amicizia”.
Mohammed dice che Fawzi era come un fratello per lui, dall’età di sei anni.
Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.
Alex Levac è diventato fotografo esclusivo per il quotidiano Hadashot nel 1983 e dal 1993 è fotografo esclusivo per il quotidiano israeliano Haaretz. Nel 1984, una fotografia scattata durante il dirottamento di un autobus di Tel Aviv smentì il resoconto ufficiale degli eventi e portò a uno scandalo di lunga data noto come affare Kav 300. Levac ha partecipato a numerose mostre, tra cui indiani amazzonici, tenutesi presso l’Università della California, Berkeley; la Biennale israeliana di fotografia Ein Harod; e il Museo di Israele a Gerusalemme. Ha pubblicato cinque libri.

[…] dalla “devastazione che si è dispiegata davanti agli occhi del mondo”. ( https://bocchescucite.org/difendere-la-dignita-e-la-presenza-del-popolo-di-gaza/ ) Mai così espliciti e rinunciando…
Grazie per il vostro coraggio Perché ci aiutate a capire. Fate sentire la voce di chi non ha voce e…
Vorrei sapere dove sarà l'incontro a Bologna ore 17, grazie
Parteciperò alla conferenza stampa presso la Fondazione Basso il 19 Mercoledì 19 febbraio. G. Grenga
Riprendo la preghiera di Michel Sabbah: "Signore...riconduci tutti all'umanità, alla giustizia e all'amore."