Articolo pubblicato originariamente su Chiasmo
di Costanza Mazzucchelli
L’esposizione From Palestine With Art, evento collaterale della Biennale di Venezia, è stata riproposta nel mese di febbraio all’Accademia di Belle Arti di Roma: le tematiche aperte e discusse nella grande manifestazione lagunare continuano a interrogare il pubblico, che in questa mostra si confronta con opere dalle quali emerge in modo urgente una dichiarazione di esistenza e del diritto di raccontare la propria storia.
A due mesi dalla chiusura della 59a Biennale di Arte Il latte dei sogni, l’esposizione From Palestine With Art (evento collaterale che ha avuto luogo a Palazzo Mora a Venezia) è stata riproposta nell’Aula Colleoni dell’Accademia di Belle Arti di Roma, rimanendo visitabile per il pubblico della capitale dal 4 al 24 febbraio, grazie al sostegno di MedArtandCultures, un’associazione che favorisce il dialogo e gli scambi culturali nel bacino del Mediterraneo per «costruire una nuova civiltà del vivere insieme». La direttrice dell’Accademia, Cecilia Casorati, ha curato tale esposizione nell’ottica di mettere in contatto gli studenti con i linguaggi e le tecniche di fenomeni artistici mondiali, al fine di attuare uno scambio proficuo tra culture. Tra statue e gessi bianchi, l’esposizione ha dunque ripreso vita, offrendo uno spaccato di una realtà culturale che spesso giunge solo attraverso notizie riguardanti la dimensione bellica e militare e non tanto artistica e culturale.
Le opere che erano in mostra, nate dalle mani e dalle menti di diciannove artisti e artiste, provengono dal Palestine Museum di Woodbridge, in Connecticut, primo museo di arte palestinese in Occidente, fondato da Faisal Saleh e con la curatela di Nancy Nesvet. Saleh cinque anni fa ha deciso di iniziare a lavorare nel mondo dell’arte, per documentare e «raccontare al pubblico la storia della Palestina attraverso l’arte», dando al popolo palestinese la possibilità di narrare da sé della propria storia, della propria tradizione e del suo contemporaneo evolvere. Oggi il museo ospita più di duecento lavori di oltre cinquanta artisti, affiancati a ricami, libri, monete, vestiti tradizionali e artefatti; la sua attività spazia in tutto l’ambito artistico, prevedendo conferenze, letture, concerti, proiezioni di film e consentendo, dunque, un affondo multidisciplinare e da prospettive diverse nella cultura palestinese. Inizialmente le attività si concentravano prevalentemente negli Stati Uniti, ma in un futuro alquanto prossimo Saleh, che ha dato la sua disponibilità per rispondere a qualche domanda, intende estendere il campo d’azione del Museo per coprire altri Stati europei.
In mostra sono state esposte opere di artisti di generi diversi (con una prevalenza di donne, dato che rispecchia il bilancio di genere della Biennale), di varia provenienza – alcuni vivono in Palestina, altri sono artisti della diaspora attivi in varie parti del mondo –, di età diverse, dai ventiquattro agli ottantasei anni, e che si esprimono con una notevole eterogeneità di tecniche artistiche. Il fine della mostra è uno: parlare al cuore delle persone con un linguaggio comprensibile a tutti, dar vita a un messaggio politico attraverso immagini e colori, far conoscere una storia che rischia di essere cancellata, presentare la vitalità, la varietà e la ricchezza della cultura palestinese e aprire nuove prospettive su quello che può (e deve) essere un futuro radioso.
Nelle opere degli artisti selezionati per Venezia (e poi portate a Roma), che siano dipinti, sculture, fotografie o installazioni, emergono gli aspetti più profondi e caratteristici della storia del Paese, a partire da immagini, tematiche e soggetti in molti casi noti anche a un pubblico che può non essere avvezzo alla storia della Palestina o della questione palestinese: si vede una kefiah, si interroga il tema della diaspora, si attraversa una mappa del Paese risalente al 1887, su cui si leggono i nomi di località esistenti nel XIX secolo, ma distrutte nel 1948. Vicino a questa mappa storica, si trovano due abiti tradizionali, che esemplificano la tradizionale tecnica del ricamo (dichiarata dall’UNESCO patrimonio culturale dell’umanità nel 2021), e un albero di ulivo, simbolo di pace, ma anche della terra palestinese, una terra in cui questo albero affonda le sue radici e dai cui rami spuntano le chiavi di coloro che sono stati costretti ad abbandonare le proprie case, nella speranza di un prossimo ritorno.
Un ritorno in una casa che sia finalmente libera dall’occupazione israeliana, una casa che sia in grado di prosperare e recuperare il legame con la natura e la tradizione; un ritorno, dunque, a un paesaggio fiorente, placido, quieto, rigoglioso come quello presentato in In Pursuit of Utopia #7 (2020, acrilico su tela) di Nabil Anani; il legame ed equilibrio tra territorio, persone e paesaggio antropico è fortemente sentito dalla popolazione palestinese e il disturbo di tale equilibrio è altrettanto sofferto: non stupisce, dunque, che i paesaggi siano soggetti ricorrenti, come in Spring without horizon (2021, acrilico su tela) di Taqi Sabateen.
L’idea del viaggio, del ritorno, ma anche della lontananza si ritrova in All That Remains (2020/2021) di Ibrahim Alazza, un piccolo fagotto avvolto in una kefiah, con una stampa che ricorda un filo spinato e una rete da pesca, un modo per raccontare la storia dei profughi palestinesi, del loro movimento forzato, ma anche del loro forte legame con le radici. Samar Hussaini, con Ahlan – With Open Arms (stampa su tessuto), lavora sull’abito tradizionale (thob) e su una tradizione che viene tramandata di generazione in generazione, realizzando uno stratificarsi di conoscenze che si traduce in uno stratificarsi di motivi, colori e materiali sul supporto.
Il colore esplode nella sala espositiva con la tela di Samia A. Halaby, Venetian Red (2021, acrilico su tela), realizzata appositamente per celebrare la presenza della Palestina alla Biennale: rappresenta il movimento delle onde come processo creativo, un continuo cambiamento della realtà, un contrarsi ed espandersi vitale. Halaby compare non solo come artista, ma anche come soggetto di un’opera, come uno dei volti di Palestinian Portraits (2022, acrilico su tela) di Jacqueline Bejiani, la quale ha voluto istituire una sorta di pantheon della cultura palestinese, utilizzando prevalentemente i colori della bandiera palestinese, ossia nero, bianco, verde e rosso: più di cinquanta volti (tra cui quelli della poetessa Fadwa Tuqan, dell’autore Ghassan Kanafani e del poeta Mahmoud Darwish) sono il simbolo della vivacità culturale e intellettuale del popolo palestinese.
Emerge dunque forte e chiaro, reiterato ma in forme sempre variate, il legame tra tradizione, storia, racconti e contemporaneità, un presente sempre in divenire; si tratta di un’affermazione e rivendicazione della propria esistenza e della ricchezza della propria cultura da parte di un popolo spesso fatto tacere. A tal proposito, Faisal Saleh ha dichiarato che «queste opere d’arte sono necessarie. […] La produzione culturale palestinese è transculturale da diversi decenni, continua a crescere e la Palestina esiste ovunque siamo», e che «i nostri artisti sono ambasciatori verso le persone del mondo. La loro missione è quella di raccontare la nostra storia al mondo attraverso l’arte».
Secondo le stime di Palazzo Mora, la mostra di Venezia (il cui catalogo è consultabile online) è stata visitata da circa centomila visitatori, che hanno trasferito su carta i propri pensieri e i propri commenti (e auguri per una Palestina libera), riempiendo fino a nove guest book; l’esposizione all’Accademia di Belle Arti di Roma ha poi riaffermato l’impatto dell’arte come mezzo per conoscere e interagire con culture distanti e al contempo vicine come questa.
Partecipare a una manifestazione come la Biennale è un atto di dichiarazione di esistenza, un modo di posizionare sé stessi in un mondo sempre più complesso; a maggior ragione, in una Biennale come quella dell’ultimo anno, in cui tra alterità, corpi in trasformazione e decolonizzazione, si è tentato di scalfire narrazioni dominanti e punti di vista limitati. La Biennale ha fornito, quest’anno come sempre, numerosi spunti per ulteriori dibattiti e discussioni, per un circolare di idee e riflessioni che prende continuamente nuove forme, proprio come è accaduto a From Palestine With Art, che si spera continuerà a girare per l’Italia, e non solo.
Faccio mia la Preghiera del patriarca di Gerusalemme, sperando che le sue parole vengano ascoltate e accolte.
Senza parole. Siamo tutti responsabili....se c'è ne laviamo le mani....complici!
Signore Padre d'amore, ti prego ascolta il grido di dolore di tutte queste anime innocenti che stamno pagando con la…
Una preghiera
Mi è insopportabile la morte di un solo bambino, di una sola donna, di un solo uomo, tanto più se…