Articolo pubblicato originariamente sulla newsletter sul Medio Oriente di Internazionale a cura di Francesca Gnetti
Foto di copertina: Lungo la via Al Rashid. Striscia di Gaza, Palestina, il 27 gennaio 2025. (Afp)
Una marea di persone. Una fila ininterrotta di donne e uomini di tutte le età. E tanti bambini: i più grandi, quasi adolescenti, i piccoli per mano ai loro genitori e i neonati tenuti in braccio. Ognuno porta qualcosa: un pacco, un sacchetto, stoviglie, taniche, borsoni, zaini, una coperta sulle spalle, un sacco a pelo arrotolato. Sono gli sfollati palestinesi che la mattina del 27 gennaio, dopo giorni di attesa, si sono messi in marcia per tornare alle loro case nel nord della Striscia di Gaza.
Quel giorno Israele ha finalmente aperto il corridoio Netzarim, un lembo di terra di sei chilometri che divide il nord e il sud della Striscia, istituito dal suo esercito nel corso dell’operazione militare nel territorio palestinese. Il passaggio era stato bloccato da Israele che accusava Hamas di violare i termini del cessate il fuoco perché non aveva ancora liberato Arbel Yehud, una civile presa in ostaggio da Hamas. Il gruppo estremista aveva a sua volta accusato Israele di non rispettare la tregua. La sera del 26 gennaio Tel Aviv ha annunciato un accordo, dopo che Hamas si era impegnato a liberare tre ostaggi il 30 gennaio, tra cui Arbel Yehud, e altri tre il 1 febbraio, in cambio di prigionieri palestinesi.
Israele proibisce l’accesso al nord della Striscia da quando ha lanciato la sua operazione di terra nella zona alla fine dell’ottobre 2023. Inoltre negli ultimi mesi ha intensificato l’offensiva spingendo questa parte del territorio sull’orlo della carestia. Le città di Gaza, Jabalia, Beit Lahia e Beit Hanun sono state particolarmente colpite e quasi tutti gli edifici e le infrastrutture sono stati distrutti. Molti abitanti pensavano che non avrebbero mai più rivisto i luoghi da cui erano stati costretti a fuggire, come raccontano alla corrispondente del New Arab che li ha intervistati nell’articolo pubblicato sul prossimo numero di Internazionale, online da domani e in edicola dal 31 gennaio.
Per questo in centinaia di migliaia – 376mila secondo le stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha) – hanno deciso di lasciare i rifugi improvvisati nel sud della Striscia per tornare alle loro case, pur sapendo che molto probabilmente sono ridotte in macerie. La maggior parte delle persone a piedi si è incamminata sulla via Al Rashid, che corre lungo la costa mediterranea, accanto alla spiaggia. Altre hanno seguito i veicoli stracarichi incolonnati sulla parallela via Salah al Din, che attraversa il territorio da nord a sud e affianca la barriera di separazione tra Gaza e Israele. La photogallery di Al Jazeera, un video del Guardian e uno dell’Associated Press con immagini, commenti e infografica.
Mentre gli sfollati erano ancora in attesa dell’autorizzazione a tornare verso nord, il 25 gennaio, durante un incontro con i giornalisti a bordo dell’Air force one, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha proposto di trasferire gli abitanti della Striscia di Gaza verso i paesi vicini, in particolare l’Egitto e la Giordania. Trump ha detto che siccome Gaza è “letteralmente in macerie” e “le persone lì stanno morendo”, sarebbe meglio coinvolgere “alcuni paesi arabi, per costruire delle case in un altro luogo, così forse potrebbero vivere in pace, tanto per cambiare”. Ha aggiunto di avere parlato con il re Abdullah II di Giordania e con il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi (cosa in seguito smentita dal governo del Cairo), affermando che se i due paesi prendessero più persone, si potrebbe “ripulire tutta la situazione”.
La proposta di Trump ha suscitato allarme nel mondo arabo, soprattutto ad Amman e al Cairo, che si oppongono all’idea di accogliere gli abitanti della Striscia di Gaza fin dall’inizio dell’offensiva israeliana nel territorio palestinese. Sul quotidiano giordano Al Ghad, l’editorialista Nadal Mansour commenta che davanti alle pressioni del suo potente alleato statunitense, la diplomazia giordana “tende a chiudere gli occhi aspettando che passino i quattro anni di presidenza di Trump, perché Amman non può accogliere le sue richieste, ma nemmeno permettersi un rifiuto netto”. Secondo lui l’unico aiuto per la Giordania potrebbe arrivare dall’Arabia Saudita: “Riyadh è il giocatore arabo più forte e potrebbe sfruttare la sua influenza economica per negoziare con l’amministrazione statunitense”.
Il sito indipendente egiziano Mada Masr ricorda che il presidente Abdel Fattah al Sisi teme che il trasferimento dei palestinesi possa trasformare il Sinai in una base per gli attacchi contro Israele.
Anche il resto del mondo arabo ha respinto la proposta di Trump, compreso il Qatar, che ha svolto un importante ruolo da mediatore, insieme agli Stati Uniti e allo stesso Egitto, per raggiungere l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas. La Lega araba ha commentato che “il trasferimento forzato di persone dalla loro terra può essere chiamato solo pulizia etnica”. Molti esperti concordano. Hassan Jabareen, direttore del gruppo palestinese per la difesa dei diritti umani Adalah, ha detto al Guardian: “‘Ripulire’ Gaza subito dopo la guerra sarebbe una continuazione della guerra attraverso la pulizia etnica dei palestinesi”.
Ardi Imseis, ex funzionario dell’Onu e docente di diritto internazionale alla Queen’s university, in Canada, ricorda a Middle East Eye che “la deportazione o il trasferimento forzato di una popolazione civile, in tutto o in parte, è un crimine di guerra secondo il diritto internazionale umanitario” e che “se commesso come parte di un attacco diffuso o sistematico contro i civili equivale a un crimine contro l’umanità, sulla base dello statuto di Roma della Corte penale internazionale”.
Al Jazeera aggiunge che per molti palestinesi “la prospettiva di lasciare la loro patria non è solo inimmaginabile; è un tradimento della loro storia e della loro identità”. È immediato il collegamento con la Nakba, la “catastrofe”, il termine arabo con cui si fa riferimento alla cacciata di almeno 700mila palestinesi con la nascita dello stato d’Israele nel 1948. Gli sfollati di allora non sono mai potuti tornare alle loro case e in molti si sono rifugiati nella Striscia di Gaza, dove oggi vivono i loro discendenti. “Quella memoria è rimasta per molti palestinesi e spesso condiziona le loro azioni oggi”, aggiunge Al Jazeera.
Nei mesi scorsi gli israeliani di estrema destra hanno fatto più volte allusione all’idea di cacciare i palestinesi da ampie zone della Striscia di Gaza e sostituirli con coloni israeliani. Non c’è da stupirsi quindi che la proposta di Trump sia stata accolta con grande entusiasmo dai politici israeliani di estrema destra, primo tra tutti il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, che l’ha definita “una grande idea” e “fuori dagli schemi”. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite nei Territori occupati palestinesi, ha risposto su X che “la pulizia etnica è tutto tranne che un pensiero ‘fuori dagli schemi’, a prescindere da come uno la presenta. È illegale, immorale e irresponsabile”.
Anche in Cisgiordania molti palestinesi sono stati costretti a lasciare le loro case negli ultimi giorni, tanto che Mustafa Barghouti, segretario generale del Movimento d’iniziativa nazionale palestinese, ha accusato Israele di condurre una “pulizia etnica” a Jenin. La città del nord della Cisgiordania, e in particolare il suo campo profughi dove vivono 15mila persone, è bersaglio di un’operazione militare israeliana dal 21 gennaio. L’obiettivo dichiarato è sradicare i gruppi armati palestinesi attivi in città e accusati di attaccare i civili israeliani.
Ma molti esperti avvertono che Israele sembra “portare la guerra in Cisgiordania”, come ha detto anche Ajith Sunghay, capo dell’Ufficio per i Territori palestinesi occupati dell’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani (Ohchr). La violenza in Cisgiordania è aumentata costantemente dall’ottobre del 2023, ma la situazione è peggiorata dall’inizio della tregua nella Striscia di Gaza. La commissione palestinese per la lotta contro il muro e le colonie calcola che negli ultimi quindici mesi sono stati allestiti 146 posti di blocco in Cisgiordania, di cui 17 solo a gennaio, per un totale di 898.
Un’analisi di Haaretz sottolinea che l’esercito israeliano sta applicando i “metodi di combattimento usati a Gaza su altri fronti in cui agisce”. Secondo Yaniv Kubovich, Smotrich e gli altri politici della coalizione al governo sperano che l’operazione a Jenin possa fornire un modo per “presentare la campagna militare come direttamente collegata alla guerra contro Hamas a Gaza”.
L’articolo del sito specializzato sulla Palestina Mondoweiss pubblicato nel prossimo numero di Internazionale conferma che l’operazione a Jenin e l’aumento delle violenze in Cisgiordania potrebbero essere una mossa del premier israeliano Benjamin Netanyahu per accontentare Smotrich. Da anni il leader di estrema destra invoca l’espulsione di massa dei palestinesi e ha minacciato di dimettersi se non riprenderà la guerra a Gaza. Il bisogno di Netanyahu di tenere unita la coalizione al governo e il sostegno incondizionato dell’amministrazione statunitense potrebbero creare le condizioni per realizzare il sogno di Smotrich: l’annessione totale della Cisgiordania.
Faccio mia la Preghiera del patriarca di Gerusalemme, sperando che le sue parole vengano ascoltate e accolte.
Senza parole. Siamo tutti responsabili....se c'è ne laviamo le mani....complici!
Signore Padre d'amore, ti prego ascolta il grido di dolore di tutte queste anime innocenti che stamno pagando con la…
Una preghiera
Mi è insopportabile la morte di un solo bambino, di una sola donna, di un solo uomo, tanto più se…