Il ritiro israeliano e sei mesi di guerra

Articolo pubblicato originariamente sulla newsletter di Internazionale a cura di Francesca Gnetti

Foto di copertina: Un carro armato israeliano alla frontiera con la Striscia di Gaza, il 19 marzo 2024. (Jack Guez, Afp)

Il 7 aprile molti giornali regionali e internazionali hanno fatto il punto sui sei mesi di offensiva israeliana nella Striscia di Gaza. In un momento in cui i mediatori faticano a far avanzare i negoziati tra Israele e Hamas e non sembra esserci alcuna soluzione in vista, analisti ed esperti hanno riflettuto sulle possibili forme e direzioni che potrebbe prendere il conflitto. Gli interrogativi sono diventati ancora più pressanti dopo il comunicato pubblicato dall’esercito israeliano nella stessa giornata, in cui è stato annunciato il ritiro delle truppe di terra dal sud della Striscia di Gaza, compresa la città di Khan Yunis.

Tel Aviv non ha fornito dettagli sui motivi della decisione, facendo un vago riferimento ai preparativi per “operazioni future”. Gli esperti si chiedono se la mossa sia il preludio a un cambio di strategia nelle operazioni militari israeliane, tenendo conto anche delle pressioni interne e internazionali sul governo di Benjamin Netanyahu.

Per il giornalista di Haaretz Anshel Pfeffer, la coincidenza delle date è significativa, ma la decisione di ritirare i soldati non deve sorprendere, anzi è in linea con il trasferimento dei militari dalla città di Gaza attuato due mesi fa. Dall’inizio dell’offensiva, i capi dell’esercito hanno sostenuto che una campagna di terra per “eliminare Hamas” sarebbe potuta durare anche un anno e avrebbe incluso diverse fasi, dalle grandi manovre fino a operazioni in scala ridotta compiute dalle forze mobili.

Diversi analisti sostengono che il ritiro delle truppe potrebbe in effetti aprire la strada a “una terza fase della guerra”, come la chiama L’Orient-Le Jour, che consisterebbe in raid mirati sulle postazioni di Hamas senza la presenza fissa dei soldati sul terreno. Secondo il gruppo di sorveglianza Osint Defender, specializzato in intelligence open source, la mossa indica “la fine di tutte le grandi operazioni terrestri” e la creazione di una zona tampone tra la Striscia di Gaza e Israele. La presenza israeliana servirebbe ora unicamente a proteggere il cosiddetto corridoio Netzarim, che attraversa il territorio da est a ovest e lo taglia in due, separando la parte settentrionale da quella meridionale. Una brigata da combattimento (secondo Al Jazeera una brigata di solito è composta da qualche migliaio di soldati) è rimasta a presidiare la zona.

Ma se si è optato per un tipo di intervento più ristretto e mirato, si chiede Pfeffer, come s’inseriscono nel nuovo contesto le due questioni principali sul tavolo, cioè un accordo con Hamas e una possibile incursione israeliana a Rafah?

I negoziati per una tregua a Gaza sono ripresi sempre il 7 aprile al Cairo, in Egitto. Ma non ci sono segni di un possibile avvicinamento tra le parti, che non sembrano disposte a fare concessioni. Hamas chiede una tregua completa, il ritiro dell’esercito israeliano, il ritorno degli sfollati e un accordo per uno scambio tra ostaggi e prigionieri palestinesi. Netanyahu ha però escluso la possibilità di una tregua senza il rilascio di tutti gli ostaggi. Una fonte interna ad Hamas ha fatto sapere all’agenzia France-Presse che il movimento palestinese sta esaminando una proposta che prevede, in una prima fase, un cessate il fuoco di sei settimane, la liberazione di 42 ostaggi israeliani in cambio di circa novecento palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, l’ingresso di circa cinquecento camion di aiuti umanitari al giorno e il ritorno alle loro case degli abitanti del nord della Striscia sfollati dalla guerra.

Citando alcune fonti diplomatiche, The National riferisce che Israele ha proposto di concedere a 60mila persone di tornare nelle loro case durante le sei settimane di cessate il fuoco, dopo approfonditi controlli di sicurezza. Inoltre ha respinto la richiesta di riaprire le due strade principali della Striscia di Gaza –Salahedeen e Al Rasheed – per consentire il transito delle persone e la consegna degli aiuti umanitari nel nord della Striscia.

Intanto centinaia di palestinesi hanno deciso di approfittare del ritiro delle truppe israeliane per tornare a Khan Yunis, che negli ultimi quattro mesi ha subìto un assalto incessante. Molti hanno descritto una città distrutta con la puzza di cadavere che emana dai cumuli di macerie. I video mostrano strade sventrate, edifici in rovina e la devastazione dell’ospedale Nasser, il principale del sud della Striscia. Eppure alcuni abitanti hanno preferito spostarsi piuttosto che restare nelle tende a Rafah, la città a ridosso della frontiera con l’Egitto dove da mesi vivono ammassate un milione e mezzo di persone, in maggioranza sfollati, sotto la minaccia di un’imminente invasione israeliana.

Gli ufficiali militari israeliani hanno ribadito che, nonostante il ritiro delle truppe, l’esercito si prepara ad attaccare quella che definiscono “l’ultima roccaforte di Hamas” nella Striscia di Gaza. L’emittente locale Channel 13 ha riferito i piani di Tel Aviv per avviare l’evacuazione di Rafah entro una settimana, un’operazione che potrebbe durare diversi mesi. Secondo il Guardian, i commentatori israeliani hanno accolto la notizia “con scetticismo”, dato che ci sono “poche prove” dei preparativi israeliani per un’offensiva su Rafah o per trasferire 1,4 milioni di palestinesi in ipotetiche tendopoli. Gli alleati di estrema destra di Netanyahu, che hanno criticato la decisione di ritirare le truppe, lo accusano di rinviare un’azione decisa su Rafah, accontentandosi di una guerra a bassa intensità per prolungare il conflitto e garantirsi una sopravvivenza politica. L’8 aprile Netanyahu ha annunciato che è stata fissata una data per un’offensiva su Rafah, senza precisarla. Gli Stati Uniti hanno ribadito la loro opposizione all’operazione.

Il 4 aprile, in una telefonata molto tesa con Netanyahu, il presidente statunitense Joe Biden ha chiesto un cessate il fuoco immediato e ha detto che il futuro sostegno di Washington dipenderà dalle azioni concrete prese per proteggere i civili e gli operatori umanitari. In un commento sui sei mesi di offensiva militare, la columnist del Guardian Nesrine Malik nota che il cambio di tono e di richieste politiche indica che il “mondo ufficiale” sta cominciando ad allinearsi “con l’opinione pubblica e con le preoccupazioni di innumerevoli persone che protestano e le cui motivazioni sono state denigrate e le cui passioni sono state banalizzate”. È un cambiamento positivo, aggiunge Malik, soprattutto se servirà ad alleviare la crisi umanitaria in corso nella Striscia di Gaza e ad accelerare la fine della guerra. Ma è accompagnato da un senso di “discolpa” che suggerisce che tutto quello che è successo finora “non era prevedibile né evitabile”.

Anche lo scrittore palestinese Raja Shehadeh riflette sul Guardian sui sei mesi dell’offensiva militare a Gaza. Anche se prima o poi la guerra finirà, scrive, le sue conseguenze si faranno sentire a lungo, nella Striscia di Gaza devastata, nella Cisgiordania dove è in corso un conflitto parallelo e in Israele, segnato dalle ferite del 7 ottobre e dal dramma degli ostaggi. “Dovremo fare i conti con tutto questo. Dopo simili orrori, come faremo noi palestinesi e israeliani a vivere insieme in questo lembo di terra che entrambi chiamiamo casa?”.

 

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