Articolo pubblicato originariamente su Invisible Arabs
Di Paola Caridi
Una giornata particolare, o meglio, una notte molto particolare. In attesa. I segni della battaglia aerea sono pochi, in Giordania. Qualche video, le immagini dei resti di un missile nella periferia nord-est di Amman. Soprattutto, per chi come me è ad Amman, i segni sono alcune presenze nel cielo, non identificate per chi non si occupa di strategia militare.
Nello spazio aereo chiuso, dunque nel cielo chiuso della Giordania, la presenza di alcuni “oggetti volanti” non ha potuto non suscitare un po’ di preoccupazione. In particolare in chi vive nelle zone ovest della capitale, le zone che guardano al Mar Morto, verso Gerusalemme. Le scie luminose, gli oggetti che sembravano volteggiare, farsi più piccoli, poi precipitare. E i suoni cupi delle intercettazioni dei missili iraniani da parte dei Patriot americani. I segni, nella notte che ancora una volta incide una frattura nella storia recente del Medio Oriente, sono suoni. I segni sono suoni come rintocchi in una notte d’attesa.
Ecco i miei 2 cents sulla notte del 13 aprile, la notte del primo attacco imponente dal cielo su Israele dai tempi della guerra del Kippur. 185 droni, 36 missili da crociera, 110 missili terra-terra lanciati direttamente dall’Iran.
I circa 300 tra droni, missili da crociera e balistici lanciati dall’Iran contro Israele sono stati un attacco definito da molti analisti come dimostrativo. Concordo. In una delle “danze macabre” di questi sei mesi c’è anche la danza diplomatico-militare andata in onda la notte in cui, per la prima volta, l’Iran ha colpito Israele. Teheran ha sottolineato che l’intervento era limitato, che gli Stati vicini erano stati avvisati, che anche gli Stati Uniti erano stati avvisati. E così è stato: i sistemi di difesa, non solo in Israele, sono stati attivati, gli spazi aerei di Israele, Giordania, Libano, Iraq sono subito stati chiusi. Ed è poi iniziata l’attesa dello scontro in cielo tra i missili e i droni iraniani, da una parte, e i sistemi antimissile statunitensi in Israele e in Giordania, assieme all’Iron Dome, al sistema di difesa antirazzo già in uso in Israele.
La danza è continuata anche dopo la “notte dei missili”, spostandosi sul piano politico-diplomatico. Scontate le forti parole – soprattutto da paesi europei e dal Regno Unito – di condanna dell’attacco iraniano contro Israele (molto più forti e parziali delle poche parole di condanna dell’attacco israeliano contro la sede diplomatica iraniana a Damasco che il I aprile ha dato origine alla pericolosa escalation in atto). Molto meno scontata la sequenza delle dichiarazioni che ha segnato tutta la giornata di domenica, per evitare l’ulteriore escalation e la risposta di Israele. L’Iran ha subito pubblicamente detto che considerava “conclusa” la sua ritorsione nei confronti di Tel Aviv, dopo l’attacco a Damasco in cui erano state uccise 14 persone, tra cui sette membri delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, compresi due alti generali.
La telefonata tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu è il cuore della questione: gli USA, che hanno reiterato ad alta voce il totale sostegno per la difesa di Israele, hanno detto chiaro e tondo al governo Netanyahu che non c’è bisogno di rispondere all’attacco iraniano, vista la risposta efficace dei sistemi di difesa antimissilistica. Dopo aver usato le parole forti contro l’Iran, che cioè Israele avrebbe risposta, Netanyahu ha detto che no vi sarebbe stata una risposta immediata, ma che Israele avrebbe scelto tempi e modi.
Tradotto: se Netanyahu accetterà il pressante consiglio di Biden di non aggiungere escalation a escalation, e i precedenti ci dicono che non è affatto scontato, cosa chiederà in cambio il premier israeliano? Le ipotesi sembrano già fatti (quasi) compiuti: un aumento dei già imponenti aiuti statunitensi a Israele, e luce verde sull’attacco di terra a Rafah, paventato ormai da troppo tempo. La luce verde c’è anche quella da tempo, ma sono i modi sui quali Biden e Netanyahu sembrano ai ferri corti. La questione della possibile espulsione dei palestinesi dal sud di Gaza verso l’Egitto è sempre lì, assieme alla carneficina (per bombardamenti e fame provocata dall’uomo) in corso nell’intera Striscia.
La questione di Rafah conduce in questa analisi i paesi arabi, e in particolare Egitto e Giordania. Non solo perché la possibile, minacciata espulsione dei palestinesi da Gaza e – a giudicare anche dagli ultimi eventi vicino Ramallah e Nablus – anche dalla Cisgiordania, è il nodo del contendere: nessun paese arabo vuole sancire la nuova nakba, mentre da 76 anni si occupa delle conseguenze della prima nakba e ospita (tra Siria, Giordania e Libano) milioni dei rifugiati palestinesi. La Giordania, soprattutto, ha mostrato nella “notte dei missili” di essere essenziale per la deterrenza nella regione. E’ difficile, infatti, pensare che Israele si sarebbe potuta difendere da sola: il sistema di difesa è frutto della stretta alleanza con gli Stati Uniti, e la base americana dei missili Patriot a Zarqa, alle porte di Amman, basta già a indicare quello che può essere successo nei cieli giordano e israeliano. È stato lo stesso governo giordano a confermare che “sono stati intercettati oggetti stranieri nello spazio aereo giordano per proteggere i cittadini e le zone abitate”, e che “frammenti sono caduti in diversi luoghi, senza danni e feriti significativi”.
Dopo la “notte dei missili”, dunque, è probabile che anche sul fronte di Gaza gli Stati Uniti stiano ricevendo pressioni di tipo diverso e opposto: da parte israeliana, per ricevere definitiva luce verde su Rafah in cambio della mancata risposta verso l’Iran, e da parte araba (in particolare giordana), perché Israele chiuda la carneficina e la guerra su Gaza, visto il risultato dei sistemi di difesa.
Il pilastro su cui poggia la “notte dei missili”, infatti, è ciò che dice e insegna lo svolgimento e il risultato dell’attacco missilistico diretto dell’Iran su Israele.
Per riassumere. Israele non si può difendere da sola: sono stati i Patriot americani a evitare il possibile disastro. Non siamo, dunque, né nel 1948 né nel 1967. Da sola, Israele rischia ben oltre di quanto possa ottenere.
In secondo luogo, le immagini della battaglia dei cieli indicano anche che Israele non è più, nell’immaginario, il paese invincibile, e che l’arrivo dei missili su Gerusalemme e su posti che non sappiamo (forse per la censura militare?) pone domande profonde alla società israeliana, e alle sue espressioni politiche. L’”atto dimostrativo” iraniano, dunque, segna l’ennesima piccola cesura nella storia di questi ultimi mesi e anni. E parla di una ricomposizione già in atto della regione: non nella direzione pensata da chi nel governo israeliano esclude la questione israelo-palestinese dal futuro.
Faccio mia la Preghiera del patriarca di Gerusalemme, sperando che le sue parole vengano ascoltate e accolte.
Senza parole. Siamo tutti responsabili....se c'è ne laviamo le mani....complici!
Signore Padre d'amore, ti prego ascolta il grido di dolore di tutte queste anime innocenti che stamno pagando con la…
Una preghiera
Mi è insopportabile la morte di un solo bambino, di una sola donna, di un solo uomo, tanto più se…