Articolo pubblicato originariamente su Haaretz. Traduzione a cura di Beniamino Rocchetto
Di Gideon Levy
Una comunità palestinese ha abbandonato il suo villaggio natale nelle colline meridionali di Hebron all’inizio della guerra per paura degli attacchi dei coloni. Una sentenza di un tribunale israeliano ha permesso loro di tornare, ma i coloni hanno già distrutto la maggior parte delle loro case. Ora il governo militare non permetterà loro di ricostruire.
Hanno abbandonato il loro villaggio natio nelle colline a Sud di Hebron all’inizio della guerra, per paura dei coloni. Una sentenza del tribunale ha consentito il loro ritorno, ma nel frattempo i coloni hanno distrutto la maggior parte delle loro case. Ora il governo militare non permetterà loro di ricostruirle.
Una scuola distrutta. Ecco come appaiono le scuole dell’UNRWA nella Striscia di Gaza, gestite dall’Agenzia di Soccorso delle Nazioni Unite, dopo essere state bombardate dagli aerei dell’Aviazione Militare Israeliana; ecco come apparivano gli edifici nel kibbutz Be’eri e nel kibbutz Nir Oz dopo l’assalto del 7 ottobre.
Distruzione totale. Ma ciò che è stato fatto a questa scuola, ora in rovina, non può essere giustificato con affermazioni secondo cui i terroristi si erano nascosti al suo interno o che veniva usata per immagazzinare munizioni. E la barbarie non è opera né delle Forze di Difesa Israeliane né di Hamas.
La scuola di Zanuta, un villaggio nelle colline a Sud di Hebron, è stata devastata dai coloni, probabilmente provenienti dal vicino avamposto di Havat Meitarim. È stata distrutta dopo che i bambini che la frequentavano erano fuggiti per salvarsi la vita dalle loro case con i genitori dopo l’inizio della guerra a Gaza. Prima di allora, erano stati regolarmente terrorizzati dai coloni che si scatenavano ripetutamente nel villaggio. I coloni sono poi entrati nel villaggio vuoto e hanno demolito la scuola e quasi tutte le case.
È uno spettacolo straziante. La scuola era relativamente nuova, risalente al 2014, e persino attraverso le rovine, lo sforzo fatto per abbellirla è riconoscibile nelle piastrelle del pavimento, nei muri stilizzati, nelle attrezzature sparse. Ora sembra che sia stata bombardata. I soffitti sono rotti, i muri sono in frantumi, una fontanella è stata strappata via, i bagni sono stati distrutti.
Questa piccola scuola, con solo cinque aule, è stata devastata da autori di malvagia feccia umana. Hanno provocato distruzione fine a se stessa. Le lettere dell’alfabeto arabo sono visibili sui resti di una bacheca in una delle aule, un trenino di carta è appeso al muro di un’aula semidistrutta, ogni carrozza rappresenta uno dei giorni della settimana: la carrozza del martedì è stata strappata dal muro. “Hanno rubato il martedì”, dice Nasser Nawaj’ah, un ricercatore sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.
I suggestivi alberi decorativi nel cortile, incastonati nel terreno desertico disseminato di rocce, sono stati tagliati a pezzi dai pogromisti squilibrati, lasciandoli appassiti e morenti. In un colpo solo, l’intero prodigioso sforzo degli abitanti del villaggio di fondare una piccola scuola nel deserto si è trasformato in un cumulo di rovine. Vestiti per bambini, utensili da scrittura e libri sono sparsi tra le macerie. Due pastori stanno sonnecchiando all’ombra creata dai detriti del loro villaggio.
Ci vuole una grande dose di malvagità per devastare una scuola costruita con tanta fatica dai residenti. Ci vuole una dose ancora più grande di illegalità per rendere possibile una situazione in cui civili armati possono saccheggiare un villaggio e nessuno li ferma, o addirittura li consegna alla giustizia in seguito. Potrebbe accadere solo qui, nelle colline a Sud di Hebron, una zona di Apartheid e Anarchia, dove la forza fa la legge e dove l’Amministrazione Civile del governo militare, insieme all’IDF e alla polizia israeliana, non sono altro che subordinati ai coloni violenti.
L’avamposto di Havat Meitarim, la zona industriale di Meitarim e l’edificio del Consiglio Regionale di Hebron Sud gestito dai coloni si trovano tutti sulla collina opposta; a Nord c’è la città di Dahariya. Zanuta è ora un insieme di capanne in rovina, non un tetto è rimasto al suo posto, staccati dai tetti che avrebbero dovuto sostenere. I resti di case in pietra vecchie di centinaia di anni intervallate da strutture più recenti, recinti per animali mezzi distrutti e decine di pneumatici sono sparsi tutt’intorno.
I cani da pastore annusano tra le rovine, cercando anche loro un po’ d’ombra dal sole del deserto; gli abitanti del villaggio si riposano sotto un gruppo di alberi che non sono stati sradicati. Domenica di questa settimana, il personale dell’Amministrazione Civile, che in genere è composto anche da coloni, si è presentato di nuovo e ha confiscato la rete dei recinti per animali.
Faiz Haderath, 45 anni, padre di sei figli, capo del Consiglio del villaggio di Zanuta, nato in una grotta qui, e pastore come gli altri, è anche lui sdraiato sotto un albero, l’unica via di fuga dal sole cocente. Lo scorso fine settimana, Haderath ha perso una delle sue capre, che, dice, è stata calpestata da un cavallo montato da un colono che può identificare per nome. Haderath invoca la parola “uccisione” per descrivere la morte della capra.
L’intera popolazione di Zanuta, 36 famiglie, che vivono su entrambi i lati dell’autostrada 60, è fuggita lo scorso 17 novembre, circa cinque settimane dopo lo scoppio della guerra. Erano giunti alla conclusione che il pericolo rappresentato dagli attacchi alla vita dei bambini, e delle pecore, era troppo acuto, lasciando loro altra scelta che abbandonare le proprie case. Il terrore era così schiacciante che nessuno è rimasto, nemmeno per sorvegliare le sue proprietà. Nawaj’ah, il ricercatore sul campo, nota che la violenza dei coloni ha portato all’abbandono di sei villaggi nelle colline a Sud di Hebron durante la guerra.
I disastri di Zanuta sono iniziati nel 2021, con la fondazione dell’avamposto di Havat Meitarim, che gli abitanti del villaggio chiamavano Havat Yinon Levi, la fattoria di Yinon Levi, dal nome del suo fondatore, contro il quale l’amministrazione statunitense ha emesso sanzioni a febbraio a causa della sua violenza. Nella prima fase, i residenti dell’avamposto hanno preso il controllo della maggior parte dei pascoli e delle sorgenti del villaggio. Il capo del Consiglio Haderath parla di aggressioni contro i pastori, sradicamento di alberi, cani aizzati contro le greggi, pecore investite da veicoli fuoristrada e calpestate dai cavalli e altro ancora. Eppure, in qualche modo, hanno imparato a convivere con la situazione.
Ma poi è arrivata la guerra e la brutalità si è intensificata in frequenza e forza. I coloni hanno iniziato ad arrivare con i fucili, solitamente accompagnati da soldati in uniforme, da squadre di emergenza o unità di difesa territoriale, lanciando pietre di giorno e di notte contro le capanne, seminando distruzione, instillando paura. Ci sono stati almeno dieci attacchi particolarmente gravi, dice Haderath, e questi hanno portato alla decisione finale di andarsene. L’obiettivo dei coloni è stato raggiunto, almeno temporaneamente.
Il loro autoesilio è durato quasi dieci mesi, mentre si sparpagliavano nella zona, trovando rifugi provvisori, per loro e per i loro animali, vicino a Dahariya, la città del distretto. “Pensavamo che le cose sarebbero state più tranquille”, dice il capo del Consiglio. Ma i coloni li hanno perseguitati anche nelle loro nuove dimore. C’è un avamposto di coloni vicino a ogni rifugio temporaneo che gli abitanti del villaggio hanno trovato: Havat Mor, Tene Omarim, Havat Yehuda, e i loro residenti hanno continuato a rendere la vita dei palestinesi un inferno nella loro diaspora temporanea. Anche coloro che si sono rintanati accanto al posto di blocco di Meitar hanno sopportato implacabili molestie da parte dei soldati, a tutte le ore.
Di tanto in tanto guardavano il loro villaggio abbandonato dalla strada. Ma non osavano avvicinarsi. A un certo punto i coloni hanno cercato di recintare il villaggio per bloccare l’accesso alle case e alla proprietà, ma gli abitanti del villaggio hanno ottenuto un ordine del tribunale per rimuovere il nuovo ostacolo. A poco a poco, però, hanno visto il loro villaggio essere distrutto.
È iniziato a dicembre, quando circa metà delle strutture, circa una trentina, sono state vandalizzate. La fase finale si è effettivamente svolta solo nelle ultime settimane, dopo che l’Alta Corte di Giustizia ha accettato in parte l’istanza degli abitanti del villaggio e ha stabilito che lo Stato deve consentirgli di tornare alle proprie case e proteggere loro e le loro proprietà. Ciò è avvenuto alla fine di luglio.
Lo Stato ha richiesto un rinvio nell’attuazione dell’ordine e nelle settimane tra allora e l’inizio del ritorno, la demolizione è stata completata quasi completamente. Haderath stima che circa il 90% delle strutture del villaggio siano state distrutte. Quelle poche settimane di agosto hanno visto anche la distruzione dei pali dell’illuminazione a energia solare nel villaggio, che non ha energia elettrica, e la distruzione degli ultimi 40 ulivi.
Tuttavia, gli abitanti del villaggio sono rimasti sconvolti dall’entità della devastazione quando sono tornati due settimane e mezzo fa, il 21 agosto. Nel frattempo, solo gli uomini sono tornati, con le pecore; non hanno ancora osato riportare indietro le donne e i bambini, così come parte del bestiame. “Non c’è modo che donne e bambini tornino per ora, solo uomini e pecore”, afferma Haderath. Questa settimana non era chiaro se i bambini andranno a scuola a Dahariya o saranno trasportati in autobus alle rovine della loro scuola nel villaggio.
E i coloni non hanno mollato, come dimostra l’uccisione della capra. Vengono al villaggio ogni giorno per intimidire, molestare, maledire e minacciare. Lunedì di questa settimana abbiamo visto il loro drone volare sopra il villaggio; all’inizio ho pensato fosse un rapace. I droni spaventano pecore e capre, gli animali si mettono a correre per cercare di scappare. In passato, gli abitanti del villaggio hanno sporto denuncia alla polizia, ma non lo hanno fatto da quando sono tornati, avendo perso la speranza che le autorità intervenissero.
Tuttavia, la scorsa settimana l’avvocato dei residenti, il dottor Quamar Mishirqi-Assad, della ONG Haqel: In Difesa dei Diritti Umani, ha inviato una lettera urgente all’IDF e alla polizia israeliana, affermando che nonostante la sentenza dell’Alta Corte di Giustizia secondo cui lo Stato deve garantire la sicurezza degli abitanti del villaggio e impedire l’ingresso dei coloni, questi ultimi persistono nelle loro provocazioni quotidiane. Elencando una serie di reati, Mishirqi-Assad chiede che una forza di polizia venga assegnata al villaggio alla luce delle minacce esplicite fatte ai pastori che se fossero tornati e fossero rimasti, sarebbero stati uccisi. Non è stata ricevuta alcuna risposta alla lettera, ed è improbabile che ce ne sarà una.
Ma le traversie degli abitanti del villaggio non finiscono qui. Dal loro ritorno, l’Amministrazione Civile gli ha rifiutato il permesso di ricostruire le proprie case. Tornare, sì, ma alle rovine. Anche stendere un telo di tessuto sui detriti, per sostituire un tetto e fornire protezione dal sole, è proibito. I coloni vengono ogni giorno e fotografano ogni cambiamento che gli abitanti del villaggio osano fare; subito dopo arriva il personale dell’Amministrazione Civile per confiscare e demolire.
Questo è stato il destino, ad esempio, della recinzione eretta da Mohammed Thal, un pastore di capre: è stata strappata e confiscata dalle autorità militari israeliane circa un’ora dopo la visita dei coloni a fine agosto. Un gran numero di soldati è stato portato lì per occuparsi della recinzione. “Cos’è questa forza? Per prendere sei pali di ferro e una rete? Più di trenta soldati per sei pali e una rete?” Gli abitanti del villaggio sono troppo spaventati persino per raccogliere oggetti che giacciono a terra: i rispettabili coloni che fanno rispettare la legge si presenteranno, scatteranno foto, li informeranno e poi i loro compagni coloni dell’Amministrazione Civile arriveranno e distruggeranno. È così che succede nelle colline a Sud di Hebron.
Il Portavoce dell’Amministrazione Civile ha rilasciato la seguente dichiarazione ad Haaretz questa settimana: “Come dichiarato dalle autorità locali, l’area in questione non è una zona militare interdetta e il ritorno dei suoi residenti non è proibito. In seguito alle udienze del tribunale e alla sua sentenza, i palestinesi sono tornati a Hirbet Zanuta. Durante il loro ritorno, soldati dell’IDF e in particolare funzionari dell’Amministrazione Civile sono stati dispiegati per garantire la sicurezza e l’ordine pubblico nella zona. Va notato che i palestinesi hanno eretto una serie di strutture edilizie illegali e, per quanto riguarda queste, sono state prese misure di esecuzione, in conformità con la legge”.
“Sottolineiamo che, dal loro ritorno sul sito, non abbiamo ricevuto alcuna denuncia riguardante israeliani che hanno causato danni lì e, quindi, tale reclamo non è noto.
L’IDF agisce per rendere possibile una vita sicura per tutti i residenti della zona”.
“La Corte ha sancito che i residenti devono tornare a casa. Come è possibile che la Corte ordini il loro ritorno e l’Amministrazione Civile dica che non possono ricostruire? Lo Stato non ha protetto le case e ora non ne consente la ricostruzione. Lo Stato sta effettivamente dicendo: tornate al villaggio e morite sotto il sole”, ha detto Nawaj’ah, il ricercatore sul campo di B’Tselem.
Abbiamo parlato con Thal, il pastore di capre, il cui gregge conta 300 animali, tra capre e pecore. “Il latte di capra è migliore del latte di pecora, e anche il formaggio è migliore. Ma le capre sono più problematiche”. A cui il capo del Consiglio Haderath ha aggiunto: “Le capre sono come i coloni. Le pecore non combinano guai, lo fanno le capre. Ma io ho ricevuto le capre da mio padre, che le ha ricevute da mio nonno, quindi non posso occuparmi di pecore, solo di capre”.
* Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo ultimo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.
Senza parole. Siamo tutti responsabili....se c'è ne laviamo le mani....complici!
Signore Padre d'amore, ti prego ascolta il grido di dolore di tutte queste anime innocenti che stamno pagando con la…
Una preghiera
Mi è insopportabile la morte di un solo bambino, di una sola donna, di un solo uomo, tanto più se…
Fermate le guerre,le armi e le ingiustizie,creiamo un mondo più giusto con rispetto dell’ambiente e di ogni persona.