L’ipertecnologico assalto di Israele a Jenin apre la strada a nuovi insediamenti

Articolo pubblicato originariamente da Haaretz e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto

Il piano generale di Israele è garantire che la maggior parte della Cisgiordania sia annessa di fatto a Israele e “ripulita” dai palestinesi, che saranno ammassati in riserve delimitate.

Di Amira Hass

Un esercito con un equipaggiamento che sembra uscito da un film di fantascienza che attacca una tribù indiana. Questo, più o meno, è l’equilibrio di potere, ed è uno degli aspetti che fanno dei palestinesi del campo profughi di Jenin degli eroi.

I civili sono eroi involontari. Come sempre. Mentre il valore e il coraggio di coloro che hanno scelto di armarsi e tentare di colpire gli invasori, negli ultimi 23 anni (e anche la loro indifferenza verso la morte, non avendo prospettive di vita dalla nascita), non ha fermato il piano generale israeliano, per garantire che la maggior parte della Cisgiordania sarà annessa di fatto a Israele e “ripulita” dai palestinesi, mentre li ammasserà in riserve delimitate. Un governo israeliano dopo l’altro ha avanzato questo piano generale, e ogni giorno che passa rivela fino a che punto questa sia una strategia deliberata, concepita da molti, con un arsenale di armi per realizzarla.

Coloro che sono a favore della lotta armata dicono giustamente che la tattica della diplomazia e del negoziato, a cui aderisce Mahmoud Abbas, non ha frenato la brama espansionistica di Israele, e che Israele, fin dal primo giorno degli Accordi di Oslo, ha palesemente ignorato l’intesa internazionale secondo cui gli insediamenti sono incompatibili con un “processo di pace” e che dovrebbero cessare di essere costruiti. Ma anche quella che viene chiamata lotta armata non è riuscita, negli ultimi tre decenni, a frenare la voracità israeliana per la terra palestinese e per ostacolare le aspirazioni nazionali palestinesi. Al contrario, è stato spesso usato per giustificare quella voracità (si veda la barriera di separazione, e l’immensa “zona di giunzione” da cui è bandita la presenza palestinese).

L’evacuazione degli insediamenti nella Striscia di Gaza, che Hamas presenta come una vittoria e una prova del successo della lotta armata, è servita a un altro obiettivo generale di Israele: continuare a frammentare la popolazione palestinese, costringendola in una morsa di categorie orientaliste separate, in enclavi sconnesse l’una dall’altra.

In concomitanza con questo c’è l’aumento degli insediamenti in Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est). L’evacuazione dei quattro insediamenti nel Nord della Cisgiordania nel 2005 non ha cambiata molto; Israele ha continuato a classificare la terra su cui sono stati costruiti come “Area C”, proibendo ai palestinesi di usarla e svilupparla secondo le loro esigenze, anche dopo che è stata liberata dai coloni. Questi siti evacuati sono rimasti lì, in attesa, fino a quando le giuste circostanze politiche non avrebbero potuto riportare indietro l’orologio.

Ed è anche in questo contesto, e non solo in quelli del processo a Netanyahu, della sua dipendenza politica dai partiti dei coloni e delle proteste contro la riforma giudiziaria, che va compreso l’assalto fantascientifico a Jenin. Il governo Netanyahu-Levin-Smotrich-Ben-Gvir ha abrogato la legge sul disimpegno per quanto riguarda la Cisgiordania settentrionale. L’insediamento yeshiva di Homesh sta crescendo e fiorendo, sotto la protezione dell’IDF, sulle terre di Burqa e Silt a-Daher. Dopotutto, è stato con l’aiuto e la protezione dello stesso esercito che i coloni hanno terrorizzato i proprietari terrieri molto prima che la legge fosse abrogata. Ci sono altri tre siti presi di mira dalla legge: gli ex insediamenti di Sa-Nur, Kadim e Ganim, tutti nella Prefettura di Jenin.

L’esperienza accumulata ci permette di stimare che l’alto comando, vale a dire i vari movimenti di insediamento e i loro numerosi rappresentanti nel governo, stiano già pianificando il ripopolamento di questi siti. Allo stesso tempo, o forse anche prima, siamo sicuri di vedere spuntare le presunte fattorie solitarie spontanee, con le grasse mandrie di bovini e ovini, le milizie private e le raccolte fondi per permettere a qualche altra famiglia timorata di Dio di seguire il comandamento di usurpazione della terra palestinese. Con la collaudata sinergia di taglio e incendio di alberi, furti di raccolti, blocchi stradali, sparatorie e qua e là Pogrom diretti che non si accontentano di colpire un pastore solitario o di un paio di contadini nei campi, ma prendono di mira un intero villaggio.

I mille soldati, gli elicotteri, i droni bombardieri, le sale operative e i centri di comando e le ruspe, i centinaia di mezzi blindati e tutte le altre diavolerie all’avanguardia che i profani possono a malapena immaginare: erano voluti a soggiogare, uccidere, ferire, arrestare, dissuadere, intimidire, coloro che potrebbero tentare (con l’accento sia su “potrebbero” che su “tentare”) di perturbare in qualsiasi misura la regolare esecuzione dell’abrogazione della legge sul disimpegno.

L’immenso divario di potere si manifesta, come di consueto, anche nella disponibilità di informazioni. I portavoce dell’IDF, della polizia israeliana e dello Shin Bet forniscono le loro informazioni filtrate in tempo reale. Se lo desiderano, sono generosi con i dettagli; in caso contrario, sono parsimoniosi. L’importante è che il pubblico israeliano li tratti come il narratore onnisciente, presumibilmente obiettivo. E quando mostrano foto di barili di carburante e ripetono per la milionesima volta le parole “infrastruttura terroristica” e “laboratorio di esplosivi nel cuore di una popolazione civile”, gli israeliani di fatto dimenticano che le basi dell’IDF e le installazioni dello Shin Bet si trovano all’interno di aree residenziali chiaramente civili. E sicuramente dimenticano anche che una singola unità di soldati o Polizia di Frontiera è più armata ed equipaggiata dell’intero campo profughi. Non ricordano, e quindi non possono dimenticare, che Israele è la Forza Occupante, che si impone ai palestinesi.

E le altre informazioni, ricevute dal campo, sono poche e frammentate: perché l’IDF ha distrutto le infrastrutture elettriche nel campo e le batterie dei telefoni cellulari si sono esaurite, perché le persone sono impegnate a salvare se stesse e gli altri, perché i civili in questo momento non possono vedere altro che il tratto di strada che le ruspe dell’esercito hanno fatto a pezzi, perché l’Autorità Palestinese non ha istituito meccanismi per fornire le informazioni in suo possesso (a parte il Ministero della Salute, la Mezzaluna Rossa e i consigli locali). Dobbiamo raccogliere informazioni da persone che hanno vissuto in prima persona i bombardamenti, la distruzione e l’orrore, e ciò sarà possibile solo dopo che le vaste forze israeliane, inviate per distruggere ancora una volta il campo profughi di Jenin, se ne saranno andate.

Sappiamo già che lunedì sera migliaia di residenti del campo sono stati costretti a lasciare le loro case. (Alcuni se ne sono andati dopo che l’IDF glielo aveva ordinato, altri hanno “scelto” di andarsene perché la vita senza acqua è impossibile.) Ora, usciti dal campo, vagando tra ricoveri o conoscenti nei villaggi vicini, non sanno in quale stato troveranno le loro case quando faranno ritorno al campo: distrutte, con le porte sfondate e i muri abbattuti, con i pochi oggetti di valore rubati, con la foto del nonno con la kefiah strappata, con la tv acquistata con i risparmi crivellata di proiettili, con i sacchi di riso e zucchero squarciati, il contenuto rovesciato a terra.

Quando potremo incontrare i residenti del campo, almeno alcuni dettagli saranno chiariti: i ragazzi di 16 e 17 anni erano davvero armati quando i soldati li hanno uccisi o stavano lanciando pietre contro un mezzo blindato? Sapremo quanti sono stati arrestati e dove sono detenuti. Avremo un’idea più precisa della portata della devastazione che l’esercito ha lasciato dietro di sé. Ma a quel punto tutto questo sarà considerato “una notizia vecchia”, non più di alcun interesse per il pubblico israeliano.

Amira Hass è corrispondente di Haaretz per i territori occupati. Nata a Gerusalemme nel 1956, Amira Hass è entrata a far parte di Haaretz nel 1989, e ricopre la sua posizione attuale dal 1993. In qualità di corrispondente per i territori, ha vissuto tre anni a Gaza, esperienza che ha ispirato il suo acclamato libro “Bere il mare di Gaza”. Dal 1997 vive nella città di Ramallah in Cisgiordania. Amira Hass è anche autrice di altri due libri, entrambi i quali sono raccolte dei suoi articoli.

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