Radicale, autocratico, pragmatico. Chi è Sinwar, il nuovo capo del politburo di Hamas

Articolo pubblicato originariamente su Invisible Arabs

Di Paola Caridi

Yahya Sinwar è il nuovo capo del politburo generale di Hamas. Sostituisce, cioè, Ismail Haniyeh, ucciso in un omicidio mirato extragiudiziale di cui Israele non si assunta la diretta e pubblica responsabilità, di cui ha invece informato i membri dell’amministrazione statunitense, secondo quanto rilevato dal Washington Post di oggi, 7 agosto.  Haniyeh è stato ucciso a Teheran il 31 luglio scorso, mentre si trovava nell’edificio dei veterani di guerra, ospite del regime iraniano. Esattamente all’indomani della cerimonia di insediamento del nuovo presidente, il riformista Masoud Pezeshkian. Un omicidio che ha avuto, com’è evidente, una doppia valenza: un colpo a Hamas, attraverso l’assassinio del suo capo politico, e un colpo all’Iran, ferito sia per le falle della sicurezza, sia soprattutto perché l’uccisione di Haniyeh ha avuto luogo in un momento nel quale erano presenti a Teheran dignitari da tutto il mondo.

La questione del tempo e del luogo dell’omicidio di Haniyeh fa parte della sua successione, e della scelta di Sinwar. Non è la prima volta che Hamas si trova a scegliere l’esponente più in vista dal punto di vista politico. Era già successo con l’omicidio mirato extragiudiziale compiuto da Israele il 22 marzo del 2004 contro sheykh Ahmed Yassin, fondatore del Movimento di resistenza islamico (questo il significato dell’acronimo Hamas). Il numero due, Abdel Aziz al Rantisi, era stato subito messo al posto di Yassin, e Israele l’aveva ucciso un mese dopo. Così come aveva tentato di uccidere sette anni prima – era il 1997 – il capo del politburo, Khaled Meshaal: un tentato omicidio che il Mossad aveva compiuto, dietro ordine dell’allora premier Benjamin Netanyahu, in un garage di Amman. Gli agenti del Mossad erano stati catturati, e Israele era stato costretto a inviare al re Hussein di Giordania l’antidoto al veleno che avevano iniettato nel collo di Meshaal.

La strategia del “decapitare il serpente” non ha, insomma, mai funzionato. Eppure Israele continua a perseguirla, sia nel caso di figure apicali considerate pragmatiche (Haniyeh), sia nel caso di esponenti dell’ala militare (Mohammed Deif, se si confermasse la sua uccisione, o il precedente fondatore e capo delle Brigate Izzedin al Qassam, Salah Shehadeh). Quale che sia l’obiettivo della strategia di Tel Aviv, Hamas reagisce con modalità che prescindono da quello che hanno in mente i diversi governi israeliani, peraltro di colore politico diverso nel corso dei decenni.

Hamas, dunque, decide di non scegliere un leader all’estero, un leader della diaspora, una figura dell’establishment a cui è cioè vietato andare in Palestina. Lo stesso Haniyeh era andato all’estero, aveva dovuto lasciare Gaza, dove aveva sempre vissuto nella sua casa nel cuore del campo profughi di Shati, per poter gestire la carica di capo del politburo senza i divieti posti dagli israeliani nella Striscia. Il Movimento di resistenza islamico decide di indicare Sinwar come successore di Haniyeh: da un leader di Gaza a un leader di Gaza, confermando che il peso specifico della Striscia, negli equilibri e nella politica di Hamas, è sempre più pesante. Lo decide all’unanimità, dice in pubblico Osama Hamdan, uno dei leader che vive a Beirut: la sottolineatura non è di dettaglio, perché vuole indicare l’unità del vertice che ha designato Sinwar come capo del politburo in attesa delle elezioni per il rinnovo dell’intero establishment che sono previste, come sempre, ogni quattro anni, e dunque nel 2025.

Fino a pochi giorni prima, erano stati fatti nomi diversi, rispetto a quello di Sinwar. Compreso il nome del presidente del consiglio della Shura, che sembrava indicare il vero interim fino alle elezioni del 2025. La decisione presa il 6 agosto, di una successione precisa come quella di Yahya Sinwar, assomma significati diversi. Anzitutto, conferma che la Striscia non può non essere centrale, in particolare dopo dieci mesi di guerra israeliana su Gaza successiva all’attacco del 7 ottobre, il massacro di almeno 40mila palestinesi (in massima parte civili) e la distruzione in corso della Striscia. Sinwar concentra su di sé sia il potere politico (è il capo eletto del politburo della circoscrizione di Gaza), sia il potere militare, per il ruolo di vertice nelle Brigate Izzedin al Qassam suo e di suo fratello Mohammed, entrambi tra gli architetti dell’attacco del 7 ottobre. Il secondo elemento va direttamente a Teheran, poiché Sinwar è più spostato verso l’idea di un sostegno forte da parte dell’Iran, rispetto ad altri leader che “diversificano” le relazioni internazionali di Hamas chiedendo sostegno anche ad altri paesi. E infine è possibile che la decisione riguardi anche la sicurezza del vertice: la conferma arriva da una delle prime dichiarazioni di parte israeliana, che parla di Sinwar come un bersaglio per Tel Aviv in quanto capo di Hamas. Lo era già prima di diventare presidente del politburo.

E i negoziati? Che destino avranno i negoziati per il cessate il fuoco, il rilascio degli ostaggi israeliani e dei prigionieri-ostaggi palestinesi con la presenza di un altro tipo di negoziatore, più duro e radicale? In parte non è detto che i negoziati si interromperanno. Sinwar è sempre stato presente: è ancora Osama Hamdan ad averlo detto, subito dopo aver comunicato la designazione di Sinwar a capo del politburo. È un dato di fatto che la presenza di Sinwar, espressione palese del legame tra l’ala militare e l’ala politica, ha cambiato la realtà sul campo. A tal punto che, dal 7 ottobre in poi, in tutto lo svolgersi della guerra a Gaza e nei flebili negoziati in corso da mesi, è diventato indispensabile per Hamas ricevere dall’interno di Gaza, dalla leadership politico-militare, l’approvazione su ogni decisione riguardante i negoziati. Lo hanno sempre detto, in questi dieci mesi, tutti coloro che – da parte di Hamas – hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche sullo stato dei negoziati.

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Chi è, dunque, Yahya Sinwar?

Ha trascorso un terzo della sua vita in cella, ma la carcerazione non è stato un congelamento temporale nella militanza di Yahya Sinwar all’interno di Hamas. Le note biografiche diffuse dai media dopo il 7 ottobre 2023 descrivono l’interesse di Yahya Sinwar per i libri, come lettore e poi come scrittore. Ci raccontano del suo meticoloso apprendimento dell’ebraico, tanto da aver tradotto testi dall’ebraico in arabo, soprattutto concentrati nell’esaminare  la società israeliana e i suoi apparati di sicurezza.  Inclusa la traduzione di un libro di Carmi Gillon, ex capo dello Shabak, il servizio di sicurezza interno di Israele.

Molta meno attenzione, invece, è stata dedicata al ruolo politico che Sinwar ha mantenuto, anzi rafforzato durante la sua prigionia. Come è consuetudine nell’attivismo palestinese, Yahya Sinwar non ha interrotto il suo impegno politico durante la detenzione. Al contrario, ha rafforzato il suo ruolo di leader all’interno di Hamas nei quasi 22 anni trascorsi in carcere tra il suo arresto nel 1988 e il suo rilascio nel 2011, quando ha guidato la lista dei 1027 palestinesi liberati in cambio della liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit. Entrare in carcere non significava, almeno prima dell’ottobre 2023, abbandonare l’attivismo per i palestinesi che aderivano alle fazioni. Al contrario, i prigionieri sono stati attori fondamentali, soprattutto durante la decisiva transizione politica palestinese, quando nel 2004 sono scomparse una dopo l’altra le due figure principali e in competizione tra loro: Sheykh Ahmed Yassin, assassinato in un omicidio extragiudiziale israeliano, e Yasser Arafat, morto dopo una lunga malattia.

Costretti all’interno del sistema di detenzione israeliano, i prigionieri sono stati, infatti, protagonisti dell’unico tentativo di unità e riconciliazione sulla scena politica palestinese. Il cosiddetto Documento dei Prigionieri, rilasciato nella primavera del 2006, ha tentato di ricucire quella pericolosa frattura tra Fatah e Hamas che alla fine ha portato, nel giugno 2007, alla completa rottura tra i due principali movimenti palestinesi e alla separazione tra la Cisgiordania guidata dall’Autorità Nazionale Palestinese e la Striscia di Gaza governata da Hamas.

Yahya Sinwar è stato uno dei principali estensori del documento, insieme a Marwan Barghouthi (Fatah) e Ahmed Saadat (PFLP). Fino al suo rilascio, ha guidato “circoscrizione delle prigioni”, determinante circoscrizione nella struttura di Hamas, assieme alle altre tre in cui è divisa l’organizzazione, insieme cioè alla Cisgiordania, a Gaza e all’estero. Secondo Yuval Bitton, uno dei medici israeliani assegnati al carcere di massima sicurezza vicino a Beersheva (avevo incontrato il dottor Bitton nel 2005 durante una visita nel carcere concessami dalle autorità israeliane per intervistare gli esponenti delle fazioni palestinesi), Sinwar aveva anche ottenuto un ruolo nei negoziati per il rilascio di Shalit in cambio di prigionieri palestinesi, con la mediazione dell’Egitto e di Gerhard Conrad, il facilitatore tedesco dell’intelligence nazionale BND. Un potere che, a Gaza, aveva proprio Mohammed Sinwar, il fratello di Yahya, si dice come colui che gestiva la prigionia di Gilat Shalit.

Il potere di Sinwar all’interno del sistema carcerario israeliano era evidente, poiché rappresentava il segmento più consistente dei prigionieri politici palestinesi. Fino al settembre del 2023, i detenuti che si riconoscevano appartenenti a Hamas rappresentavano circa più di un terzo del totale.

Vista in questo modo, la rapida ascesa di Yahya Sinwar alla guida di Hamas a Gaza e del politburo centrale nei dieci anni successivi al suo rilascio dal carcere è molto più comprensibile, rispetto al ruolo marginale che aveva avuto prima della condanna definitiva e del lungo periodo in carcere. Anche per questioni generazionali. Nato nel 1962 a Khan Younis da una famiglia di profughi palestinesi espulsi a seguito della nakba del 1948 da Majdal  (quella che poi sarebbe diventata la Askelon israeliana), una famiglia tradizionale e conservatrice, Sinwar si era avvicinato all’Islam politico palestinese e a Sheykh Yassin poco più che ventenne. All’università islamica di Gaza, dove frequentava le lezioni da studente-lavoratore, muratore come muratore era il padre. Lì aveva incontrato due coetanei con cui aveva fatto attività politica nel Blocco islamico, la rappresentanza studentesca di marca islamista, e avrebbe condiviso, nella terza parte della sua vita, la guida di Hamas a Gaza, e cioè Khalil Hayya e lo stesso Ismail Haniyeh.

Tuttavia, Sinwar non apparteneva ai Fratelli Musulmani come, di fatto, tutti coloro che hanno fondato Hamas in seguito. Non aveva avuto il tempo di costruirsi un ruolo più rilevante dentro l’organizzazione, non solo per la giovane età, ma anche perché aveva fatto dentro e fuori dal carcere, a cominciare dal primo arresto nel 1982, fino all’arresto che – appena sei anni dopo – avrebbe segnato il suo ingresso definitivo in cella, sulle spalle una condanna a quattro ergastoli con l’accusa di aver progettato il rapimento e l’uccisione di due soldati israeliani. Sinwar, insomma, non era una figura centrale di un movimento che era nato formalmente solo pochi mesi prima, il 9 dicembre 1987, in una riunione a casa dello sceicco Ahmed Yassin a Gaza. Aveva però fondato nel 1986 un gruppo armato, al-Majd, per identificare e punire con durezza e crudeltà i collaborazionisti che Israele aveva nella Striscia, insieme a Rawhi Mushtaha, un altro militante diventato poi un pilastro dell’ala militare di Hamas.

Nel percorso di Yahya Sinwar, quel terzo di vita all’interno di una cella ha assunto un ruolo politico, non solo individuale. La cella è per tutti i prigionieri politici una continuazione della militanza. È una prospettiva necessaria per interpretare ciò che il dossier dei prigionieri significa per tutti i palestinesi.

Il dossier dei prigionieri è una questione che riguarda la totalità della società palestinese: un milione di palestinesi sono passati attraverso la carcerazione tra il 1967 e oggi. E dopo il 7 ottobre ciò che è successo è l’amplificazione e la degenerazione di una questione, quella carceraria, ora divenuta centrale, per le denunce di torture, stupri, violazioni pesantissime dei diritti umani dentro, soprattutto, i campi di detenzione, ora condensate anche in un rapporto di Btselem.  La prigionia è dunque sempre stata una piattaforma per raggiungere un consenso che va ben oltre l’appartenenza ideologica. Non è un caso, quindi, che il dossier dei prigionieri sia stato indicato come uno degli obiettivi prioritari dell’attacco del 7 ottobre sia da Mohammed Deif, il capo delle Brigate Izzedin al Qassam, sia nel documento ufficiale pubblicato da Hamas tre mesi dopo, a gennaio, intitolato Our Narrative, “La nostra narrazione”.

Tutti gli obiettivi dell’attacco del 7 ottobre, delineati nelle sedici pagine del documento, portano comunque fuori da Gaza.

A prima vista può sembrare una contraddizione, dato che le notizie e le inchieste giornalistiche, finora, confermano che proprio da Gaza, e solo da Gaza, è partita l’idea e la pianificazione del 7 ottobre.  Yahya Sinwar, capo della circoscrizione di Gaza di Hamas, è stato la mente dell’attacco del 7 ottobre nel sud di Israele in cui sono stati uccisi 1200  israeliani e 240 sono stati presi in ostaggio, civili due terzi delle vittime e degli ostaggi. Sinwar ha pianificato l’attacco senza informare i leader di Hamas all’estero, insieme ad alcuni altri membri delle Brigate Izzedin al-Qassam, come Mohammed Deif, Marwan Issa e suo fratello Mohammed Sinwar. Tra gli obiettivi indicati da Hamas non c’è solo il dossier dei prigionieri nel suo complesso, ma anche il negoziato per un altro scambio tra israeliani e palestinesi che va avanti dal 2020 senza trovare un accordo. Un fatto, questo, che aveva spinto Sinwar ad alzare il tono e ad aumentare le minacce verso Israele nel dicembre 2022, durante le celebrazioni del 35° anniversario della fondazione di Hamas.

Insieme al dossier dei prigionieri e alle condizioni disastrose della Cisgiordania, tra gli obiettivi del 7 ottobre dichiarati nel documento di Hamas c’è Gerusalemme. Gerusalemme è la linea rossa insormontabile per l’identità nazionale, più che religiosa, di tutti i palestinesi e dei loro leader politici. Lo era per Arafat. Lo è anche per Sinwar, che tra i suoi modelli, forse il più sorprendente a prima vista, ha proprio Yasser Arafat, spesso citato nei suoi discorsi con il nom de guerre di Abu Ammar. Non sembra una coincidenza, questa,  se si accosta il nome di Arafat alla descrizione che spesso è stata fatta di Sinwar come nazionalista, più nazionalista di altri leader di Hamas.

Gerusalemme è il simbolo dell’unità nazionale palestinese a tutti gli effetti.

Il punto di svolta fondamentale per trasformare anche Gerusalemme in uno strumento per consentire a Hamas di superare i confini sigillati di Gaza era stato senza dubbio il 2021. A marzo, Sinwar aveva vinto, con non poche difficoltà, le elezioni per guidare il politburo di Gaza per la seconda volta. Ci erano voluti allora tre ballottaggi,  a Sinwar, per ottenere la maggioranza dei voti, confermando con la sua rielezione la nomenklatura che guida Hamas dal 2017, e cioè con la successione a Khaled Meshaal. Da allora, dal 2017, era stato Ismail Haniyeh a guidare il politburo centrale di Hamas e, dietro di lui, Sinwar aveva guidato con pugno di ferro e comportamento autocratico la circoscrizione più critica: Gaza, dove Hamas significava potere e dominio politico, amministrativo e soprattutto militare. Per la prima volta, le due posizioni di comando all’interno di Hamas includevano, assieme anche al vice del politburo Khalil Hayya, figure interne, tutte provenienti da Gaza, che avevano paradossalmente superato l’embargo a cui era sottoposta la Striscia dal 2007 e riportato il movimento islamista sulla scena politica palestinese.

Nella primavera del 2021, le elezioni generali per il rinnovo del Parlamento dell’Autorità palestinese (PLC), previste per il 22 maggio, sembravano essere veramente a un passo. Erano passati 15 anni dalla vittoria di Hamas e, l’anno successivo, dalla spaccatura che ancora oggi segna la divisione palestinese. Hamas aveva presentato la sua lista, l’unica a contenere Gerusalemme nello stesso nome. Il movimento islamista aveva voluto definirsi come custode di Gerusalemme e della Moschea di al-Aqsa, soprattutto in un momento in cui l’influenza dell’ala destra che rappresenta i coloni era già evidente, chiarissima. Naftali Bennett, che era stato a capo del movimento dei coloni, era stato uno dei politici israeliani che avevano incarnato l’opposizione a Netanyahu, tanto da assumere, poco dopo, la carica di premier. Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir si profilavano già come i nuovi protagonisti. Tutto, però, era precipitato nel giro di poche settimane, proprio a primavera. Uno dopo l’altro, gli eventi di Gerusalemme avevano portato a una tensione altissima. Gli ingredienti principali: la protesta palestinese contro gli espropri a Sheykh Jarrah  e la libertà di culto durante il Ramadan, l’annullamento delle elezioni palestinesi deciso dal presidente Abu Mazen e, infine, la violenta repressione delle proteste da parte delle autorità israeliane, nel mezzo di un’ennesima campagna elettorale.

Yahya Sinwar non aveva perso tempo. Si è presentato come il difensore di Gerusalemme. Il 10 maggio, da Gaza, isolata dal mondo intero, aveva lanciato un ultimatum a Netanyahu affinché ritirasse le truppe, la polizia e i coloni dal complesso di Haram al-Sharif entro le 18. Allo scadere del termine, Hamas aveva lanciato una raffica di razzi in territorio israeliano, anche alla periferia di Gerusalemme, segnando l’inizio di un’operazione israeliana su Gaza della durata di undici  giorni chiamata, non a caso, “Spada di Gerusalemme”, una delle cinque guerre scatenate da Israele su Gaza tra il 2008 e il 2024. Nonostante l’alto numero di vittime civili palestinesi causate dai pesanti bombardamenti israeliani, Sinwar aveva proclamato che la resistenza aveva vinto e che i 500 km di tunnel erano stati colpiti in misura minima.

Lo strumento militare

Il ruolo dello strumento militare è quindi centrale nella strategia di Sinwar, considerato eppure dai negoziatori – intelligence egiziana in primis – un politico flessibile e pragmatico. Negli anni al potere a Gaza è stato capace, ad esempio, di trovare un’intesa con una figura considerata per molti anni la personificazione dell’avversario di Hamas, come Mohammed Dahlan. Dopo decenni di lontananza, la loro vecchia amicizia adolescenziale a Khan Younis aveva avuto un ruolo importante in uno dei tanti tentativi dell’interminabile processo di riconciliazione palestinese. Nonostante questo tratto contraddica l’altro aspetto, radicale, violento, inflessibile, la storia degli ultimi anni dice solo una cosa: lo strumento militare è la costante della politica di Sinwar.

Fin dall’inizio del suo mandato come capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar aveva proposto un “esercito nazionale” a Gaza che comprendesse le Brigate al-Qassam e gli altri gruppi militari, composto da migliaia di combattenti. “Le nostre armi devono essere sotto l’ombrello dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina”, aveva detto pubblicamente, immaginando ciò che – lo abbiamo compreso drammaticamente ex post – ha realizzato poco dopo. La conferma era arrivata dal cuore stesso di quello che è stato denominato il Comando Unificato della Resistenza. Una conferma emersa a metà dello scorso anno, nel giugno 2023, con un’intervista rilasciata ad Al Jazeera.net da Ayman Nofal, uno dei più alti comandanti delle Brigate Izzedin al Qassam, ucciso a ottobre dalle forze armate israeliane durante i primi giorni della guerra su Gaza. Era  stato quindi uno degli alti comandanti a descrivere gli obiettivi e il funzionamento stesso del comando unificato, in cui ogni fazione aveva anche un referente politico.

Questo è l’elemento più importante  di ciò che è accaduto nel 2021 all’interno del contesto palestinese di Gaza: l’ultimatum lanciato da Sinwar è stato il risultato di una presenza militare unificata che si era consolidata al punto da poter prendere decisioni dall’interno di Gaza verso Gerusalemme. Era un presagio di ciò che, nell’ottobre 2023, sarebbe accaduto in altri modi e dimensioni.

Non era la prima volta. “L’ala armata è stata storicamente in grado di esercitare diversi gradi di influenza sull’ala politica e viceversa, a seconda delle circostanze”, spiega Hugh Lovatt, senior policy fellow del Programma Medio Oriente e Nord Africa dell’European Council on Foreign Relations. “Sebbene queste dinamiche siano al momento le più complicate e problematiche, non sono prive di precedenti”.

La designazione di Sinwar come capo del politburo centrale di Hamas mette dunque insieme in una sola figura le due ali, quella politica e quella militare. Ed è anche la descrizione di come, in questi ultimi anni, è cambiata Hamas, con la conferma che le Brigate Izzedin al Qassam sono diventate anche una sorta di quinta circoscrizione, una circoscrizione ombra, che esercita la sua influenza soprattutto ora, dopo dieci mesi di guerra israeliana su Gaza e di una guerra non dichiarata ma di fatto in corso in Cisgiordania.

L’immagine è un fermo immagine da una  delle rare interviste concesse da Yahya Sinwar alla giornalista di Vice, Hind Hassan, nel 2021. 

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