Quando la Corte Suprema di Israele agisce come un tribunale militare

Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto

Di Gideon Levy

https://archive.md/GP74M

La ricorrente numero 6 è una bambina di 3 anni. La ricorrente numero 5 è una bambina di 11 anni. La ricorrente numero 4 è uno studente eccezionale delle scuole superiori. Il ricorrente numero 3 fa parte del personale addetto alle pulizie presso il Centro Medico Hadassah, di Ein Karem. Il ricorrente numero 1 è un appaltatore di ristrutturazioni e il numero 2 è sua moglie. Vivono tutti insieme in un appartamento fatiscente nel campo profughi di Shoafat a Gerusalemme.

Israele intende demolire la loro casa, e hanno presentato ricorso all’Alta Corte di Giustizia in un futile tentativo di far revocare questo decreto spregevole. Giovedì la Corte Suprema, nella sua qualità di più alta corte militare in Israele, ha approvato la demolizione. Niente avrebbe potuto essere più prevedibile.

Ogni poche settimane, i giudici dell’Alta Corte vengono chiamati in servizio di riserva. Ciò si verifica quando ascoltano ricorsi contro l’apparato della difesa. Non indossano uniformi militari, come sarebbe appropriato, né indossano insegne da ufficiale, ma la Corte è vestita di color kaki e funziona esattamente come il tribunale militare della base militare di Ofer. È difficile distinguere eventuali differenze tra i giudici dell’Alta Corte anche dall’ultimo dei giudici militari, incaricati di approvare qualsiasi ingiustizia.

I due tribunali hanno un identico scopo ideologico: legittimare, mascherare e approvare qualsiasi cosa richiedano il servizio di sicurezza Shin Bet e i militari; negare qualsiasi istanza che chieda una misura di giustizia, un rispetto dei diritti umani o un po’ di umanità riguardo all’Occupazione. Il faro della giustizia allora spegne la sua luce, e l’oscurità scende finché la Corte non torna a occuparsi di questioni civili, quando la sua natura illuminata viene nuovamente rivelata.

Anche in questa realtà deprimente ci sono punti che lo sono particolarmente. È la sentenza 5933/23, emessa in un ricorso presentato dalla famiglia del minore M.Z., accusato di aver accoltellato un poliziotto senza provocarne la morte. Il poliziotto è morto quando una guardia di sicurezza ha aperto il fuoco. La famiglia del bambino ha chiesto alla Corte di bloccare la demolizione della loro casa.

Con una maggioranza di due giudici malvagi contro uno giusto, Alex Stein e Gila Kanfi contro Uzi Vogelman, la Corte ha approvato la demolizione. È sempre bello avere un giudice etico in posizione di minoranza, in modo da non mandare in frantumi completamente il prestigio ampiamente riconosciuto della Corte.

I tre giudici non hanno mai visitato il campo di Shoafat, si può tranquillamente supporre, e non hanno alcuna idea della vita lì. È uno dei campi profughi più disagiati. I giudici, tuttavia, hanno letto il rapporto dell’interrogatorio del padre del ragazzo, effettuato da un agente dello Shin Bet chiamato “Majdi”.

Al paragrafo 10 di quel rapporto, l’agente ha scritto che il ragazzo era un amico di Mohammed Ali Abu Saleh, che è stato ucciso il giorno in cui un’altra casa nel campo è stata demolita dopo aver minacciato le forze israeliane con una pistola giocattolo. Secondo l’accusa, M.Z. ha trovato un coltello vicino alla casa di sua zia e ha deciso, all’improvviso, di pugnalare un poliziotto in risposta all’omicidio del suo amico. I suoi genitori e i suoi fratelli molto probabilmente non avevano idea delle sue intenzioni, ma sua sorella di 3 anni ora pagherà il prezzo della sua azione. Ora anche lei diventerà una senzatetto, per gentile concessione dell’Alta Corte di Giustizia.

La demolizione delle case è una punizione collettiva, un crimine di guerra. Più grave e ancora più inconcepibile è la distruzione della casa della famiglia di un ragazzo di 13 anni. La demolizione delle case degli aggressori palestinesi, mai di quelli israeliani, è il segno distintivo di un sistema giudiziario in stile Apartheid. Il fatto che l’Alta Corte di Giustizia non abbia nemmeno aspettato la condanna del ragazzo, il suo processo è ancora in corso, dimostra solo che quando si tratta di palestinesi non c’è bisogno di un processo.

M.Z. ha accoltellato un poliziotto su un autobus dopo che il suo amico era stato ucciso durante una precedente demolizione nel campo. Adesso si sta preparando il prossimo attaccante, che crescerà sulle rovine della casa di M.Z. Quanto è ridicola l’affermazione dei giudici della maggioranza, secondo cui la demolizione dissuaderà i genitori. È triste quanto sia disconnesso dalla realtà. All’ingresso del campo di Shoafat c’è un posto di blocco presidiato dagli agenti che governano i suoi abitanti. La polizia attacca il campo giorno e notte e abusa dei suoi residenti. M.Z., 13 anni. era abbastanza grande per capire che doveva fare qualcosa. I giudici pensavano che la sua famiglia dovesse essere punita crudelmente. La vergogna va oltre le parole.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *